Quando abbiamo scoperto che Christopher Nolan e la produttrice Emma Thomas (che è anche la moglie del regista) stavano per realizzare un film biografico ispirato alla vita di J. Robert Oppenheimer, siamo rimasti perplessi. Almeno per un momento. Per Wired è difficile resistere al fascino di un'opera cinematografica firmata dalla coppia. Nolan nutre un sincero amore per la scienza, proprio come noi: lo sappiamo perché emerge in modo chiaro in alcuni dei suoi film, ma anche perché nel 2014, in occasione dell'uscita di Interstellar, il regista ha diretto un numero del magazine di Wired US. Se tutto questo non bastasse, il duo ama far arrovellare il pubblico e realizza cinecomics!
Ma torniamo a Oppenheimer. Un biopic solitamente è uno sguardo sulla storia. Ma a Wired tendiamo a guardare al futuro piuttosto che al passato (anche se questo non ci ha impedito di apprezzare Dunkirk, la pellicola bellica di Nolan ambientata durante la Seconda guerra mondiale). Quindi ci è sorto il dubbio che non fossimo la testata adatta per approfondire l'ultima fatica del regista. Ciononostante, non riuscivamo a togliercela dalla mente, dal momento che molte delle nostre conversazioni in ufficio, nel corso delle riunioni o semplicemente discutendo di tecnologia, vertevano sul rischio apocalittico che caratterizza l'epoca in cui ci troviamo. La crisi climatica e la guerra, certo. Ma anche l'intelligenza artificiale generativa. In svariate occasioni, mi è capitato di sentire paragoni tra l'attuale momento storico e la metà degli anni Quaranta – quando varcammo la soglia dell’Era del nucleare – o il periodo in cui Oppenheimer era a capo del progetto per lo sviluppo della bomba nel Nuovo Messico.
Lo ammetto: conosco piuttosto bene Oppenheimer e il suo percorso verso Los Alamos. Ho collaborato all'editing di una biografia del fisico – e delle tre donne che ebbero un ruolo centrale nella sua vita – scritta da mia madre, Shirley Streshinsky, e dalla storica Patricia Klaus. Ero curiosa di capire cosa pensa Christopher Nolan dell'epoca in cui ci troviamo adesso, considerando che il regista ha trascorso gli ultimi anni immerso nell'epoca che la evoca più da vicino. Forse gli interessi di Nolan e Thomas erano di nuovo allineati con quelli di Wired.
Per questo ho viaggiato fino al placido quartiere di Los Angeles dove la coppia condivide un ufficio. Speravo di poter parlare con entrambi e, quando sono entrata in una sala conferenze elegante dalle pareti di vetro, fortunatamente c'era anche Emma Thomas. Ho farfugliato qualcosa sul fatto che spesso il suo nome viene omesso nelle interviste, e la produttrice mi ha ringraziato. "Facciamo tutto di pari passo. Emma è la migliore produttrice di Hollywood, senza alcun dubbio", ha voluto sottolineare Nolan verso la fine della nostra conversazione. E il loro ultimo film, sebbene ambientato nel passato, potrebbe essere quello più proiettato verso il futuro.
Maria Streshinsky: Forse è un'affermazione presuntuosa, ma guardando i vostri film a ritroso, ho avuto l'impressione che tutto quello che lei ed Emma avete fatto sia stato in preparazione di Oppenheimer.
Christopher Nolan: Non credo assolutamente che sia presuntuoso. È così che vedo il film.
Non voglio dire che la vostra carriera sia al capolinea.
Tendenzialmente mi sento così per ogni mio progetto. Questo perché cerco di creare basandomi su ciò che ho imparato in precedenza. Ogni volta che si finisce un film, rimangono delle domande in sospeso. E così, con il successivo, si riprende il filo del discorso. Nel caso di Oppenheimer esiste, letteralmente, un riferimento a lui in Tenet.
Quindi era una cosa che aveva in testa da un po' di tempo.
La storia di Oppenheimer mi accompagna da anni. È un'idea incredibile, quella di un gruppo di persone che si mettono a fare dei calcoli e valutano il rapporto tra la teoria e il mondo reale, e stabiliscono che esiste una possibilità molto piccola che possano distruggere il mondo. Eppure, poi, quel pulsante lo premono.
Molto drammatico.
È letteralmente il momento più drammatico della storia.
Molte persone forse non sanno che quando la bomba atomica fu sganciata nel 1945, non si trattò solo di un momento terrificante, ma anche quello in cui realizzammo che l'uomo era in grado di spazzare via l'umanità.
La mia sensazione è che di Oppenheimer molti conoscano il nome, sappiano che è stato coinvolto nella realizzazione della bomba atomica e siano a conoscenza del fatto che è successo qualcos'altro di complicato nel suo rapporto con la storia degli Stati Uniti. Ma niente di più specifico. Francamente ritengo che questo sia il pubblico ideale per il mio film. Chi non ne sa nulla si divertirà un mondo. Perché si tratta di una storia incredibile.
La storia personale di Oppenheimer, insomma.
Devono conoscerla, perché è l'uomo più importante che sia mai vissuto.
Nel film a Oppenheimer viene detto che può convincere chiunque a fare qualsiasi cosa. Qualcosa del genere. Era un manager brillante. Era bravissimo a sapere che in una determinata stanza gli scienziati stavano facendo x e che in un'altra facevano y. Era la persona capace di tenere le fila di tutto.
Sapeva come motivare le persone grazie alla sua personalità brillante e teatrale ed è stato un punto di riferimento per tutti gli scienziati, i funzionari e gli altri.
Aveva realmente carisma.
Carisma. È la parola perfetta. Fece in modo che tutti i pezzi si unissero. Il film parla molto di questo, di come che questi accademici, questi teorici, furono capaci di riunirsi e costruire con le loro mani una cosa di questa portata, di questa importanza. È miracoloso.
A proposito di cose di enorme portata: di recente sono stata a una conferenza Ted a Vancouver e una delle sessioni più interessanti era costituita da una serie di interventi sul tema dell'intelligenza artificiale generativa. Molti dei relatori hanno citato la bomba atomica e le armi nucleari. L'ultimo speaker era un tecnologo – tra l'altro cresciuto a Los Alamos – che ha parlato dell'inevitabile incremento dell'utilizzo dell'Ai negli armamenti. Ha concluso il suo intervento dicendo che l'unico modo per mantenere l'ordine mondiale è avere armi Ai migliori, come deterrente. Il che ricorda molto quello che si pensava circa la bomba atomica. Pare proprio che non avrebbe potuto programmare l'uscita del suo film in un momento migliore.
Credo che la relazione sia interessante. Non è la stessa cosa. Ma è la migliore analogia – ed è per questo che l'ho usata in Tenet – per descrivere i pericoli che si corrono quando si scatena una nuova tecnologia sul mondo in modo sconsiderato. È un'ammonizione. Ci sono lezioni da imparare. Detto questo, credo che la bomba atomica sia in una categoria a sé stante per quanto riguarda le tecnologie che hanno cambiato – e messo in pericolo – il mondo.
E queste tecnologie non sono nate allo stesso modo.
C'è una differenza fondamentale. Gli scienziati che si occupavano della scissione dell'atomo cercavano di spiegare al governo: “Questo è un fatto della natura. Dio ha fatto questo. O il creatore o chiunque vogliate. Questa è Madre Natura. E così, inevitabilmente, si tratta solo di conoscere la natura. Non c'è modo di nasconderla. Non la possediamo. Non l'abbiamo creata noi.” Loro la consideravano così.
In altre parole, pensavano di rivelare semplicemente qualcosa che già esisteva.
E penso che siamo spinti ad applicare lo stesso ragionamento all'intelligenza artificiale. Sono sicuro che qualcuno lo farà.
Lei deve essere cresciuto all'ombra della bomba.
Sono cresciuto negli anni Ottanta nel Regno Unito, durante la Campagna per il disarmo nucleare e tutto il resto. La gente era molto, molto consapevole. Quando avevo tredici anni, io e tutti i miei amici eravamo convinti che saremmo morti a causa di un olocausto nucleare.
Ma non è successo, e il mondo è andato avanti.
L'altro giorno ne parlavo con Steven Spielberg. Lui è cresciuto durante la crisi dei missili di Cuba negli anni Sessanta La stessa cosa. Ci sono momenti nella storia dell'umanità in cui il pericolo di una guerra nucleare è stato così palpabile, tangibile e visibile da renderci molto consapevoli. Eppure, possiamo preoccuparci solo per un certo periodo di tempo; poi passiamo oltre. Ci preoccupiamo di altre cose. Il problema è che il pericolo non scompare.
Giusto. Un mese fa eravamo tutti preoccupati che Putin potesse seriamente ricorrere a un'arma nucleare.
Quello che ricordo degli anni Ottanta è che la paura della guerra nucleare era andata scemando a causa della paura per la crisi ambientale. Era quasi come se non fossimo in grado di sostenerne il timore per così tanto tempo. Abbiamo un rapporto complicato con la paura. E sì, Putin ci ha agitato in faccia la minaccia dell'apocalisse per spaventarci. È estremamente inquietante.
Inquietante quanto la minaccia di un'apocalisse scatenata dall'intelligenza artificiale?
Beh, l'integrazione dell'Ai negli armamenti e i problemi che ne deriveranno sono evidenti da molti anni. Pochi giornalisti si sono presi la briga di scriverne. Ora che esiste un chatbot in grado di scrivere un articolo per un giornale locale, improvvisamente è diventata una crisi.
Noi che lavoriamo nel settore di media abbiamo da anni un approccio ombelicale. Alcuni di noi scrivono di Ai solo perché ora abbiamo paura che ci tolga il lavoro.
Questo è parte del problema. Ognuno di noi ha un punto di vista molto, diciamo così, di parte. Il problema dell'intelligenza artificiale, per come la vedo io, è molto semplice. È come il termine algoritmo. Vediamo le aziende usare gli algoritmi, e ora l'Ai, come mezzo per sfuggire alla responsabilità delle loro azioni.
Mi spieghi meglio.
Se sosteniamo l'idea che l'Ai sia onnipotente, stiamo sostenendo l'idea che possa sollevare le persone dalla responsabilità delle loro azioni, dal punto di vista militare, socioeconomico o altro. Il pericolo maggiore dell'intelligenza artificiale è che le attribuiamo queste caratteristiche divine e quindi ci scrolliamo di dosso le responsabilità. Non so quale sia la mitologia alla base di questo fenomeno, ma nel corso della storia gli esseri umani hanno avuto questa tendenza a creare falsi idoli, a plasmare qualcosa a nostra immagine e somiglianza e poi dire che abbiamo poteri divini perché lo abbiamo fatto.
Questo mi sembra molto, molto attuale. Come se fossimo a un punto di svolta.
Esattamente.
Con questi modelli linguistici di grandi dimensioni, le macchine potrebbero addirittura essere capaci di imparare da sole il prossimo passo.
L'LA Times ha pubblicato un interessante articolo su ChatGpt e OpenAi. Sostanzialmente afferma che si tratta di una presentazione commerciale e che ora sono un'azienda privata con il più efficace slogan del mondo, ovvero: “Questa è una cosa davvero pericolosa. Forse non dovremmo metterla in circolazione”. Così ora la vogliono tutti. Questo non significa che non ci sia un pericolo reale, perché io credo che ci sia. Ma personalmente, e questa è solo la mia opinione, identifico il pericolo con l'abdicazione alla responsabilità.
Si dice continuamente che dev'esserci un organo che amministri queste tecnologie, che siano i governi a occuparsene. Dovrebbe esserci un'agenzia internazionale.
Ma questo è il trucco politico più vecchio del mondo delle aziende tech. Giusto? È quello che stava facendo Sam Bankman-Fried con Ftx. Zuckerberg chiede da anni di essere regolamentato. È il trucco politico più vecchio del mondo, perché sanno che i nostri i funzionari che abbiamo eletto non sono in grado di comprendere questi problemi.
Come si evince dalle audizioni al Congresso.
E come potrebbero? È materia da specialisti e spetta ai creatori e a Oppenheimer, per riportare il tutto a Oppenheimer…
Assolutamente, torniamoci.
Perché è una conversazione interessante. Il fatto è che Oppenheimer vedeva il ruolo degli scienziati nel Dopoguerra come quello di esperti che dovevano capire come regolare questo potere nel mondo. E quando si guarda a quello che gli è successo, si capisce che questo non sarebbe mai stato permesso. È una relazione molto complicata quella tra scienza e governo, e non è mai stata illustrata in modo così brutale come nella storia di Oppenheimer. Penso che ci siano molti insegnamenti da trarre da questa storia.
Ad esempio?
Cercò di lavorare dall'interno dell'establishment, senza girarsi dall'altra parte e dire: "Quello di cui abbiamo bisogno è l'amore" o altro. È stato molto pratico nel suo approccio, ma lo hanno comunque schiacciato. È tutto molto complesso e credo che sia ipocrita da parte dei nostri inventori dire: "Abbiamo bisogno di essere regolamentati".
C'è stato un momento in cui Oppenheimer voleva che la scienza fosse condivisa.
Usò il termine “candore”. Candore.
Ma poi ha cambiato idea con la bomba H, dico bene?
No, no, lo pensava anche per la bomba H. È strano parlarne, perché in un certo senso si tratta di spoiler per il film. Ma è storia, potete cercarla su Google. C'è un momento importante in cui, durante lo sviluppo del programma della bomba H, lui inizia a fare discorsi in cui dice: “Vorrei potervi dire quello che so. Ma non posso. Se sapeste quello che so io, capireste che dobbiamo tutti condividere le informazioni”. È l'unico modo per non distruggere il mondo, essenzialmente. Quindi considerava il candore come il mezzo più pratico per ottenere quello che voleva. I paesi si stavano riunendo tutti, e lui pensava che l'Onu sarebbe stato un organismo potente nel futuro, con una vera influenza. Considerava il controllo internazionale dell'energia nucleare come l'unico modo per garantire la pace nel mondo. Ovviamente questo non è accaduto.
Non aveva previsto quello che sta accadendo ora, il lento declino delle democrazie. L'ascesa delle autocrazie. La Corea del Nord e gli altri.
Non credo proprio. Era un momento di grande ottimismo.
È questo che mi preoccupa quando si parla della necessità di un organo di governo mondiale per l'Ai. Sono coinvolte forze non statali, statali...
Vero. Ma questo è il problema quando si tratta con aziende tecnologiche che hanno rifiutato di essere vincolate da confini geografici. Sono sistematicamente incoraggiate e messe nelle condizioni di eludere le normative governative. È il loro ethos. A proposito, sembra che io pensi che la Silicon Valley sia malvagia e che tutte queste persone siano terribili. Non è così. È solo il sistema. Il modo in cui funziona.
Inoltre, le armi nucleari hanno una strana componente di sicurezza – diciamo – perché c'è bisogno di ingredienti specifici per costruire una bomba. È una cosa molto diversa dai supercomputer.
Durante la Seconda guerra mondiale, il programma britannico per l'atomica era molto avanzato. Poteva contare su grandi scienziati. Ma Churchill e il suo governo si resero conto di non avere le risorse necessarie. Così diedero agli americani tutto quello che avevano. Dissero: "Voi avete le dimensioni, la distanza dalla linea del fronte, la base industriale". A un certo punto della mia ricerca ho letto una statistica sul numero di americani coinvolti nella realizzazione della prima bomba atomica. Un numero nell'ordine di 50mila persone. Un sacco di aziende. Un processo fisico enorme. È per questo che oggi è ancora facile capire quando un paese lo fa. Ci sono alcuni elementi che ci rassicurano dandoci l'idea che il processo può essere gestito. Non credo che tutto questo si applichi all'intelligenza artificiale.
No, non lo credo neanche io, soprattutto considerando che alcuni dei rischi di cui si parla in relazione all'Ai appaiono meno minacciosi. Disinformazione ad alta velocità, disoccupazione tecnologica.
È così, ma credo che l'Ai possa ancora essere uno strumento molto potente. Sono ottimista al riguardo. Lo sono davvero. Ma dobbiamo considerarla come uno strumento. Chi la maneggia deve comunque assumersi la responsabilità. Se attribuiamo all'Ai lo status di essere umano, come a un certo punto abbiamo fatto legalmente con le aziende, allora sì, avremo problemi enormi.
Vede applicazioni nell'Ai che potenzialmente potrebbero essere meravigliose, in particolare per la cinematografia?
Certamente. L'apprendimento automatico applicato alla tecnologia dei deepfake è un passo avanti straordinario negli effetti visivi e in ciò che si può fare con l'audio. Sul lungo periodo, verranno fuori cose meravigliose in termini di ambienti, per la costruzione di un ingresso o di una finestra, per lai raccolta di tantissimi dati sull'aspetto delle cose e su come la luce reagisce ai materiali. Questi strumenti saranno estremamente potenti.
Li sfrutterà?
Io sono un antiquato regista analogico. Giro su pellicola. E cerco di dare agli attori una realtà completa. La mia posizione sulla tecnologia, per quanto riguarda il mio lavoro, è che voglio usarla per le cose in cui funziona meglio. Per esempio, se c'è bisogno di girare un'acrobazia pericolosa. Si potrebbero usare funi molto più resistenti e sicure ma più visibili e poi nasconderle ricorrendo alla tecnologia. Cose del genere.
Secondo lei migliorerà l'efficienza degli effetti visivi e li renderà più semplici.
Non vuol dire partire da zero, bensì da un'idea molto più dettagliata e basata sui dati. Potrebbe finalmente infrangere la barriera tra animazione e fotografia. Perché è un ibrido. Se si dice a un artista di disegnare, per esempio, l'immagine di un astronauta, l'artista inventa a memoria o usa dei riferimenti. Con l'intelligenza artificiale l'approccio è diverso, si utilizza l'intera storia delle immagini.
Utilizzando immagini reali.
Utilizzando immagini reali, ma in un modo completamente, fondamentalmente ricostruito, il che ovviamente solleva problemi notevoli relativi ai diritti degli artisti, che dovranno essere affrontati.
Torniamo alla scienza e ai suoi film. Nel numero di dicembre 2014 di Wired US che ha diretto, lei diceva: “il rapporto tra narrazione e metodo scientifico mi affascina”. Mi parli del suo amore per la scienza.
Sono sempre stato interessato all'astronomia e alle questioni di fisica. Ho avuto modo di esplorare questo aspetto in Interstellar. Quando mio fratello ha scritto la sceneggiatura, ha studiato gli esperimenti di Einstein, trovandoci una particolare malinconia […] Da Einstein in poi, il pensiero relativo alla fisica e il modo in cui si eseguono questi esperimenti, si concepiscono queste idee e funzionano, da Einstein in poi, ha un che di molto letterario. Il processo di visualizzazione di cui hanno bisogno i fisici non è poi così diverso dal processo letterario.
Prova qualcosa di simile nella fase di montaggio di un film?
Lo provo in ogni fase. Gran parte del mio lavoro consiste nel cercare di articolare istinti e sensazioni relativi alla forma delle cose. Può essere difficile e complicato.
Mi accorgo che se sto lavorando a una storia e non conosco la struttura, non conosco il flusso, allora vuol dire che c'è qualcosa che non va.
Perché c'è una geometria, o una geografia. Penso in termini molto geografici o geometrici a strutture e modelli. Nel corso degli anni ho cercato di adottare una sorta di approccio alla struttura, ma alla fine si tratta di un processo istintivo: è possibile che una sensazione abbia la forma di una narrazione, e come si combina? Mi ha affascinato scoprire che i fisici affrontano un processo molto simile. È davvero interessante.
Forse è un riferiemento a Interstellar, ma i fisici sembrano sempre estramemente innamorati della fisica.
Sono appassionato alla ricerca della verità. Amo il metodo scientifico. Odio vederlo distorto dagli scienziati nei media o dai media che parlano al posto degli scienziati. Il metodo scientifico puro, l'idea che la scienza cerchi di confutarsi costantemente, ha migliorato il pensiero umano più di qualsiasi altra forma – religione o altro – a cui abbiamo scelto di dedicarci come specie.
Prima di questa intervista, mia madre e io abbiamo guardato insieme alcuni dei suoi film – siccome ha scritto un libro su di lui, era curiosa di sapere che ritratto avrebbe fatto di Oppenheimer – e a un certo punto ha osservato che secondo lei i suoi film hanno un messaggio molto anti-nichilista. Dunkirk. Interstellar. Batman. Oppure si tratta di ottimismo?
Il finale di Inception parla proprio di questo. Quel finale si può vedere in chiave nichilista, giusto? Eppure lui [il protagonista interpretato da Leonardo di Caprio, ndr] va avanti e rimane con i suoi figli. L'ambiguità non è un'ambiguità emotiva. È un'ambiguità intellettuale per il pubblico. È divertente, credo che ci sia una relazione interessante tra i finali di Inception e Oppenheimer. Oppenheimer ha un finale complicato. Sentimenti complicati.
Quali sono state le prime reazioni degli spettatori?
Alcuni dopo il film erano assolutamente distrutti, non riuscivano neanche a parlare. C'è un elemento di paura nella storia e nelle sue fondamenta. Ma l'amore per i personaggi, l'amore per le relazioni, è forte come non mai.
E la complessità del soggetto.
La storia di Oppenheimer è fatta di domande impossibili. Dilemmi etici impossibili, paradossi. Non ci sono risposte facili nella sua storia. Ci sono solo domande difficili, ed è questo che rende la trama così avvincente. Penso che siamo riusciti a trovare molte cose per cui essere ottimisti nel film, ma c'è una domanda più grande che incombe. Mi è sembrato fondamentale che alla fine fossero poste delle domande in grado di lasciare il segno nella mente delle persone, in grado di stimolare la discussione.
Ho una domanda strana, un po' bizzarra. Mio marito ha lottato contro il cancro per quattro anni. Da quando è morto, le mie emozioni sono brutali. Mi preoccupo dei mali del mondo, delle vittime nelle zone di guerra, dei gatti che non vengono nutriti, di tutto. Questo mi ha fatto pensare a come sarebbe stato essere nella testa di Oppenheimer prima e dopo lo sgancio della bomba. Cosa è passato per la sua testa?
Non è affatto una domanda strana. La risposta è molto presente nel film. Ho scritto la sceneggiatura in prima persona. È quello che ho detto a Cillian Murphy, che interpreta Oppenheimer: Tu sei gli occhi del pubblico. E lui ci porta lì. Per la maggior parte della narrazione, non usciamo dalla sua esperienza. È il modo migliore che trovato per dare la risposta a questa domanda.
Sono un po' nervosa all'idea di vedere film per intero.
Penso che dovrà aspettare un bel po' prima di farlo. È un'esperienza intensa, perché la storia è intensa. Di recente l'ho mostrato a un regista che mi ha detto che è in qualche modo è un film dell'orrore. Non sono in disaccordo. È interessante che lei abbia usato la parola nichilismo prima, perché c'è qualcosa che non riuscivo ad afferrare completamente. Mentre lo finivo, ho cominciato a percepire questo colore che non c'è negli altri miei film, fatto solo di oscurità. È un elemento presente. E il film lo combatte.
È una cosa che la tocca? Riesce a dormire bene?
Sì, adesso che l'ho finito, sono sollevato di averlo fatto. Mi piace moltissimo riguardare il film. Penso che capirà quando lo vedrà. Essere intrattenuti da cose orribili è il risultato di un insieme complicato di sentimenti. È qui che entra in gioco la dimensione horror.
I suoi figli l'hanno visto?
Sì, certo.
Sapevano già qualcosa di Oppenheimer?
Ne ho parlato a uno dei miei figli quando ho iniziato a scriverlo, e lui mi ha detto, letteralmente: “Ma è un argomento che non interessa più a nessuno”. Le armi nucleari. Due anni dopo, non lo dice più. Il mondo è cambiato di nuovo. E questa è una lezione per tutti noi, ma in particolare per i giovani. Il mondo cambia velocemente.