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2022
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La relazione, tenuta il 30 maggio-01 giugno 2022 all'interno del convegno "Tempo di serie II. Rigenerazione (Riprese. Risignificazioni Ritorni)" che si tenuto presso l'Università degli Studi di Bergamo, mira ad illustrare il ruolo dell'animazione in contesti intermediali nel ridare un significato ai documenti storici rivitalizzando la memoria. L’intervento parte dalla constatazione che, con il passare del tempo, i documenti storici perdono significato: il loro legame con la realtà viene dimentico, il ricordo del contesto di cui sono traccia si fa più sfumato, ma soprattutto il senso attribuito loro diventa meno cogente e rilevante per il presente. In risposta a questo fenomeno sono state attuate, sia in campo storico che artistico, le più svariate pratiche di recupero e di ri-significazione della memoria. In questo intervento intendo analizzare in particolare una di queste pratiche: il ricorso all’intermedialità all’interno del documentario di animazione. Questo genere ibrido mira ad unire un’interpretazione soggettiva a una base documentale forte, mettendo in relazione le retoriche della testimonianza e dell’oggettività con le risorse espressive della creatività e della verosimiglianza. In questa prospettiva uno degli strumenti più efficaci per ri-significare la memoria, e dunque ri-animarla, è proprio il rapporto intermediale tra immagini referenziali e disegni animati.
2019
The Postmodern Condition: Forty Years Later, Università di Genova, 5-6 Dicembre.
Si potrebbe cominciare dicendo: il documentario italiano non esiste. Nella patria del neorealismo, le riflessioni critiche e storiche 1 e le esperienze pratiche in questo campo hanno lasciato tracce scarsissime. Nessuna "scuola" è emersa e sono molto pochi gli autori di cui si ricordi il nome. Se poi si considera la televisione, che dovrebbe incentivare la realizzazione di documentari, bisogna constatare che essa, da questo punto di vista, è troppo spesso in mano a incompetenti. Il documentario è in Italia un'attività marginale e marginalizzata. Chi fa comunque del documentario sembra lavorare in una "terra di nessuno", senza esperienze e tradizioni alle spalle. Vengono subito alla mente due ragioni per spiegare questa strana "assenza" del documentario: da una parte la riluttanza a usare il suono in presa diretta che caratterizza il cinema italiano dai primi anni quaranta ai primi anni ottanta (oggi, almeno nel campo del lungometraggio, la situazione è un po' diversa, grazie alle abitudini della televisione, ad alcuni attori-registi e un po' anche all'ostinazione di alcuni critici isolati); dall'altra l'assorbimento delle pratiche realistiche da parte del cinema di finzione, a cominciare dal neorealismo.
2009
1. Questo saggio rappresenta un tentativo di fornire valore euristico al concetto di citazione filmica per mezzo di una severa delimitazione del suo campo tipologico e di una chiara definizione del suo statuto semiotico. La nostra proposta è di considerare la citazione filmica come il prodotto di un'operazione di montaggio sincretico di unità linguistiche (già) realizzate, posto in essere da una prassi enunciativa che trasporta in un testo di arrivo uno o più "elementi previncolati" (Lévi-Strauss 1964) di un testo di partenza. La citazione si pone come il prodotto di una pratica di replicabilità audiovisiva (cfr. Dusi, Spaziante, a cura, 2006) dotata di caratteristiche del tutto singolari. Il suo statuto sincretico la differenzia da altre forme della transtestualità cinematografica come l'allusione o il remake. Essa non si fonda sul rifacimento di strutture invarianti rintracciate in un testo precedente ma su un'operazione di découpage e collage (cfr. Compagnon 1979), di innesto in un nuovo testo di frammenti processuali "importati" da un testo di partenza. La pratica della citazione filmica non è interessata a riproporre un testo di partenza nella "differenza" di un testo di arrivo (cfr. Deleuze 1968) né a tradurlo per livelli di equivalenza (cfr. Dusi 2003). Alla similarità del senso, la citazione preferisce l'identità della lettera. La citazione filmica non si basa sulla replica allografica (cfr. Genette 1994; Goodman 1968), sul riferimento ad una matrice di proprietà costitutive da rimettere in testo, ma sulla copia autografica, sulla ripresa di una nuova occorrenza di un "tipo" (un'inquadratura) precedentemente realizzato (cfr. Chambat-Houillon 2005).
Quaestio, 2009
Objects come in three kinds: (1) physical objects (mountains, rivers, human bodies, and animals) that exist in space and in time, and are independent from subjects knowing them, even though they may have built them, as for artifacts (chairs, screwdrivers); (2) ideal objects (numbers, theorems, relations) that exist outside of space and time, and are independent from the subjects knowing them, but which, after having been discovered, can be socialized; (3) social objects, that do not exist as such in space, since their physical presence is limited to the inscription, but last in time, and whose existence depends on the subjects who know, or at least can use, them and who, in certain cases, have constituted them. This latter circumstance display us the fact that social objects, for which construction is necessary, depends on social acts, whose inscription constitutes the object. As I show 1.2. Deserti, giungle, enciclopedie Pascal, riferendosi alla vita umana, diceva che, per bella che sia la commedia, il finale è sempre tragico; tuttavia, per scontata che sia la conclusione, resta la possibilità di organizzare la trama: due tempi? Tre atti? Addirittura cinque? Qualcosa del genere avviene anche con gli oggetti: che catalogo decidiamo di adottare? Su questo punto, gli ontologi, in generale, si dividono tra patiti dei deserti e fautori delle giungle. Tra i primi c'è il filosofo americano Willard van Orman Quine (1908-2000), che si è pronunciato per una ontologia molto ascetica: "mi piacciono i deserti", ha scritto, 9 e si è comportato di conseguenza, sia nella vita (andava in vacanza in Arizona) sia nella ontologia: il mondo è fatto di particelle, gli atomi, il resto sono solo parole. Il problema, però, è che l'occamite (proporrei di chiamare così l'abuso del rasoio di Occam, che nel potare enti inutili finisce talvolta per tagliarne anche di utili) è una brutta malattia, almeno se ti sei proposto di render conto di quello che sta fra la terra e il cielo: avresti soltanto delle particelle disposte a tavolo, a sedia, a professore, ma il fatto di sapere che sono delle particelle non ti dice granché sul tavolo, la sedia, il professore. È un po' come spiegare la trama di un romanzo parlando di cellulosa. Di qui i vantaggi di una ontologia più rigogliosa, cioè della giungla del filosofo austriaco Alexius Meinong (1853-1920). 10 L'idea è che noi abbiamo un pregiudizio in riferimento al reale, pensiamo che le sole cose che esistono sono gli oggetti fisici, senza pensare alla infinita varietà del reale. Meinong ne mette in scena tantissimi: non solo gli oggetti fisici come sassi e gli alberi, ma anche oggetti che non ci sono più (gli oggetti ex-esistenti, come l'impero Romano), quelli inesistenti di fatto (una montagna d'oro), quelli inesistenti di diritto (il rotondoquadrato) e quelli sussistenti, come i numeri o le relazioni. Sembra una moltiplicazione indebita, una passione barocca, eppure è difficile rendere conto del mondo sociale soltanto a colpi di particelle. È chiaro che quanti più oggetti ci sono, tanto meglio è per capire un mondo che, come si dice sempre, è complicato, e lo è proprio perché gli oggetti sono tanti. Lo ricordava quello spirito conciliativo che è Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), per il quale chi abbia visto attentamente più figure di piante e di animali, di fortezze o di case, letti più romanzi e racconti ingegnosi, ha più conoscenze di un altro, anche se, in tutto quello che gli è stato dipinto o raccontato, non ci fosse una sola cosa vera. 11 E aggiungeva da un'altra parte, 12 con un bell'esempio legato agli oggetti, che i vasi egizi possono ben fungere al servizio del vero Dio. Insomma, al deserto di Quine preferiamo la giungla di Mei
Fata Morgna, 2018
Come eravamo: pistole, fumetti e cinematografo Il periodo in cui l'immagine del bambino è stata più presente nel cinema documentario italiano sono stati gli anni '50, il secondo dopoguerra; a fare da traino a questa ossessione iconografica dell'infanzia è stato certamente l'immaginario prodotto dal neorealismo. I bambini di Vittorio De Sica (che prima ci guardano, poi ci giudicano e infine ci perdonano) e i bambini di Roberto Rossellini (che prima combattono, poi soccombono e infine rinascono ma solo dopo aver abbandonato i sogni dell'infanzia) nutrono l'immaginario del cinema del reale, che dal neorealismo attinge a piene mani codici espressivi, forme estetiche e tematiche. I bambini di Visconti infine, tristemente manipolati dai desideri degli adulti, schiacciati, vilipesi, derisi, piccole vittime mute che l'ambiente e la storia sacrifica come agnelli pagani, dalla Maria Cecconi di Bellissima (la quale trova ancora una possi-bilità nella vita) fino ad Annarella Bracci, uccisa ancora bambina nel triste panorama di Primavalle, l'11 marzo 1951 (Appunti per un fatto di cronaca, L. Visconti, 1951). A fare da ponte tra il documentario neorealista e quello post-neorealista occorre ricordare sicuramente l'intenso Bambini in città di Luigi Comencini (1946), che troverà poi, proprio nella descrizione del mondo infantile, una delle chiavi narrative ricorrenti del suo cinema a venire. Gli anni '50 sono gli anni del boom economico, la guerra è alle spalle e i bambini rinvigoriti guardano al futuro con ecumenica speranza. Nei bambini si ripongono, a volte in maniera naif, il desiderio di emancipazione sociale, il testimone della rivoluzione, gli ideali politici e religiosi. I bambini straziano l'anima e vanno protetti, sorretti, guidati, aiutati. Nel 1958, per la prima volta, viene pubblicata la Carta dei diritti del bambino, interessata a difendere i diritti basilari di un'infanzia ancora troppo trascurata e bistrattata. L'adulto nel documentario post-neorealista è intrinsecamente giusto, è sempre una guida saggia e illuminata che aiuta l'infante a muoversi nei perigliosi me
2007
Objects come in three kinds: (1) physical objects (mountains, rivers, human bodies, and animals) that exist in space and in time, and are independent from subjects knowing them, even though they may have built them, as for artifacts (chairs, screwdrivers); (2) ideal objects (numbers, theorems, relations) that exist outside of space and time, and are independent from the subjects knowing them, but which, after having been discovered, can be socialized; (3) social objects, that do not exist as such in space, since their physical presence is limited to the inscription, but last in time, and whose existence depends on the subjects who know, or at least can use, them and who, in certain cases, have constituted them. This latter circumstance display us the fact that social objects, for which construction is necessary, depends on social acts, whose inscription constitutes the object. As I show 1.2. Deserti, giungle, enciclopedie Pascal, riferendosi alla vita umana, diceva che, per bella che sia la commedia, il finale è sempre tragico; tuttavia, per scontata che sia la conclusione, resta la possibilità di organizzare la trama: due tempi? Tre atti? Addirittura cinque? Qualcosa del genere avviene anche con gli oggetti: che catalogo decidiamo di adottare? Su questo punto, gli ontologi, in generale, si dividono tra patiti dei deserti e fautori delle giungle. Tra i primi c'è il filosofo americano Willard van Orman Quine (1908-2000), che si è pronunciato per una ontologia molto ascetica: "mi piacciono i deserti", ha scritto, 9 e si è comportato di conseguenza, sia nella vita (andava in vacanza in Arizona) sia nella ontologia: il mondo è fatto di particelle, gli atomi, il resto sono solo parole. Il problema, però, è che l'occamite (proporrei di chiamare così l'abuso del rasoio di Occam, che nel potare enti inutili finisce talvolta per tagliarne anche di utili) è una brutta malattia, almeno se ti sei proposto di render conto di quello che sta fra la terra e il cielo: avresti soltanto delle particelle disposte a tavolo, a sedia, a professore, ma il fatto di sapere che sono delle particelle non ti dice granché sul tavolo, la sedia, il professore. È un po' come spiegare la trama di un romanzo parlando di cellulosa. Di qui i vantaggi di una ontologia più rigogliosa, cioè della giungla del filosofo austriaco Alexius Meinong (1853-1920). 10 L'idea è che noi abbiamo un pregiudizio in riferimento al reale, pensiamo che le sole cose che esistono sono gli oggetti fisici, senza pensare alla infinita varietà del reale. Meinong ne mette in scena tantissimi: non solo gli oggetti fisici come sassi e gli alberi, ma anche oggetti che non ci sono più (gli oggetti ex-esistenti, come l'impero Romano), quelli inesistenti di fatto (una montagna d'oro), quelli inesistenti di diritto (il rotondoquadrato) e quelli sussistenti, come i numeri o le relazioni. Sembra una moltiplicazione indebita, una passione barocca, eppure è difficile rendere conto del mondo sociale soltanto a colpi di particelle. È chiaro che quanti più oggetti ci sono, tanto meglio è per capire un mondo che, come si dice sempre, è complicato, e lo è proprio perché gli oggetti sono tanti. Lo ricordava quello spirito conciliativo che è Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), per il quale chi abbia visto attentamente più figure di piante e di animali, di fortezze o di case, letti più romanzi e racconti ingegnosi, ha più conoscenze di un altro, anche se, in tutto quello che gli è stato dipinto o raccontato, non ci fosse una sola cosa vera. 11 E aggiungeva da un'altra parte, 12 con un bell'esempio legato agli oggetti, che i vasi egizi possono ben fungere al servizio del vero Dio. Insomma, al deserto di Quine preferiamo la giungla di Mei
Si potrebbe cominciare dicendo: il documentario italiano non esiste. Nella patria del neorealismo, le riflessioni critiche e storiche 1 e le esperienze pratiche in questo campo hanno lasciato tracce scarsissime. Nessuna "scuola" è emersa e sono molto pochi gli autori di cui si ricordi il nome. Se poi si considera la televisione, che dovrebbe incentivare la realizzazione di documentari, bisogna constatare che essa, da questo punto di vista, è troppo spesso in mano a incompetenti. Il documentario è in Italia un'attività marginale e marginalizzata. Chi fa comunque del documentario sembra lavorare in una "terra di nessuno", senza esperienze e tradizioni alle spalle. Vengono subito alla mente due ragioni per spiegare questa strana "assenza" del documentario: da una parte la riluttanza a usare il suono in presa diretta che caratterizza il cinema italiano dai primi anni quaranta ai primi anni ottanta (oggi, almeno nel campo del lungometraggio, la situazione è un po' diversa, grazie alle abitudini della televisione, ad alcuni attori-registi e un po' anche all'ostinazione di alcuni critici isolati); dall'altra l'assorbimento delle pratiche realistiche da parte del cinema di finzione, a cominciare dal neorealismo.
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Paolo Caneppele, Sguardi privati. Teorie e prassi del cinema amatoriale, Meltemi, Milano, pp. 424, 2022
Rivista Di Estetica, 2012
in "Il mouse e la matita. L’animazione italiana contemporanea", edited by B. Di Marino, G. Spagnoletti, Marsilio, Venice , 2014
2015
Fantasmagoria , 2017
Meridione. Sud e Nord nel Mondo, 2017
M. T. Trisciuzzi (a cura di), Frontiere. Nuovi orizzonti della Letteratura per l’infanzia, 2020
Reti Medievali Rivista, 2014
in Zoosemiotica 2.0. Forme e politiche dell’animalità, ed. Gianfranco Marrone (Nuovi Quaderni del Circolo semiologico siciliano, 1), Palermo, Edizioni Museo Pasqualino, 2017, pp. 465-478
''Scrivere la storia, costruire l'archivio. Note per una storiografia del cinema''. A cura di Diego Cavallotti, Denis Lotti, Andrea Mariani; Meltemi: Milano, 2021
MeTis. Mondi educativi. Temi, indagini, suggestioni, 2020
Nouveaux Actes Sémiotiques 117, 2014
Tradurre i film d'animazione, 2024