Il genio non commette errori, apre portali di conoscenza" (Ulisse, James Joyce) La virtù del (dis)piacere E che storia sarebbe quella di Don Chisciotte de la Mancha? Lasciamo per un momento da parte, se cosi si può fare, ciò che è storico e ciò che è storicizzabile; le interpolazioni di un moro, la rilettura delle opere di un cavaliere cristiano da parte di un letterato arabo, tale Cide Hamete Benengeli, e le ironiche faticosissime ricerche, quasi una recherche proustianamente intesa, del nostro Cervantes. Lasciamo quindi in sospeso se un'azione a cui non subentri un riconoscimento al merito o al demerito possa avere valore e valenza di storia. Tutto questo, beninteso, è alla base della nascita del romance moderno, un genere che ha alle spalle il senso storico dell'azione come colonna d'Ercole insuperabile. Ma, come già avvertivamo nel capitolo precedente, l'elusione di ogni semplicistica attinenza fra cose e linguaggio, fra il fatto e il tradito, fra il codice ed il senso è avvertibile nell'operaopera di disillusione tutta spagnola come già sostenevano i primi esegeti a partire dal Menendez-Pelayonei nomi caricaturali che svelano la doppiezza del testo come ad esempio la contessa Triffaldi o la regina Micomicona, operazione alla quale non sfugge la virtù: sì, perché la storia di Don Chisciotte è una storia di virtù. Una storia di virtù cavalleresca, aderente a quell'antico ordine che non solo attraverso un'ascetica vita contemplativa impetrava grazie al Signore, ma anche attraverso eroiche gesta, nella consapevolezza del suo essere mondano e peccatore. Come l'agire intramondano sia al tempo stesso opera di fede ed opera che trascenda il volere di Dio, di fatto sentito come imperscrutabile, e quindi come esso operi per via della fede senza da essa potere avere riscontri certi, è smacco macchia e scomunica per l'uomo e al tempo stesso onore gloria e fama eterna. È caduta ed Eden al tempo stesso. Vediamo come si esprime il nostro eroe a proposito di tale aporia, a proposito quindi di quel che è riservato all'agire mondano nonostante la fede e la buona volontà: "per buon augurio, io ho preso, fratelli, l'aver visto quel che ho visto, poiché questi santi e cavalieri esercitano quel che esercito io, cioè la professione delle armi; senonchè la differenza che c'è tra me e loro si è che loro furon santi e combatteron da gente di Dio, mentre io son peccatore e combatto secondo il mondo. Essi conquistarono il cielo a forza di braccia, giacchè il cielo vuol essere forzato, ed io finora non so che conquisto a forza di travagli; tuttavia se la mia Dulcinea del Toboso fosse alleviata da quelli che soffre lei, forse col migliorarsi la mia sorte e col fare io miglior senno potrei dirigere i miei passi per via migliore di quella che ho presa" 1 . In un'ottica che ha come fine il ritrarsi delle pretese dell'uomo sul mondo e che legge la vanagloria come peccato contro Dio da scontare attraverso busse botte e beffe per arrivare in ultimo ad un perfezionamento spirituale, che culmina con la 1 M. de Cervantes, El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha (1605), trad. it. Don Chisciotte della Mancia, Rizzoli, Milano 1981, p.1056.