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2008
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Ma esiste davvero questa "verità"? Si può propriamente parlare del-"la" verità? La presente indagine storica ricostruisce il dibattito avvenuto nel tardo Impero Romano (secc. II-IV d. C.) tra i sostenitori del politeismo e i primo cristiani. E' singolare che la discussione e gli interrogativi dell'epoca possano essere connessi con le controversie di cui siamo oggi spettatori. Ora, come allora, pare che solo l'antico politeismo e il pluralismo religioso garantiscano la tolleranza e la pacifica convivenza, mentre il cristianesimo, con la sua concezione della verità, ostacoli i processi di pacificazione fra i popoli, generando intolleranza. Ma la ricerca storica conferma davvero queste opinioni?
(in italiano e in inglese) La verità è la prima condizione necessaria della definizione minimale di conoscenza. Il nostro discorso parte dalla conoscenza per comprendere meglio le principali e più tradizionali teorie della verità. Truth is the first necessary condition of the knowledge minimal definition. Our essay starts from theme of theme of knowledge in order to better understand the most and traditional theory of thruth. Keywords (in italiano e in inglese): definizione classica conoscenza importanza della verità, maggior teorie tradizionali delle verità. Classical definition of knowledge, importance of truth, the most important and traditional theories of thuth.
Nel lessico giuridico romano il termine recitatio insieme con la relativa forma verbale recitare viene usato spesso per indicare la citazione di testi normativi compiuta ad alta voce nelle aule giudiziarie direttamente dalle partì o dai loro avvocati durante un processo; per designare la stessa attività si trova talvolta anche il meno tecnico legere e, molto raramente, prò/erre1; nel lessico giuridico della lingua greca viene adoperato il verbo òvayiyvaiGKSiv e, più raramente, Àéyeiv2.
Che cos’è la verità e qual è il suo legame con la realtà? Esiste veramente una realtà indipendente a cui le nostre conoscenze fanno riferimento? Che ruolo giocano le nostre giustificazioni nel determinare la verità di una credenza? La metafora del luogo è, secondo l’autore, il modo più efficace per presentare il problema della relazione tra verità e realtà. Italia sviluppa un’analisi teoretica di questi due concetti che si concentra criticamente sulla teoria della verità di Jürgen Habermas, a partire dalla relazione comunicativa tra oggettività e intersoggettività. Il risultato è un realismo graduale che si propone come valida soluzione al problema filosofico del realismo.
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Solamente un essere predestinato ha la facoltà di domandare ad un altro: “qual è dunque il tuo tormento?” E non gli è data nascendo. Deve passare per anni di notte oscura in cui vaga nella sventura, nella lontananza da tutto quello che ama e con la consapevolezza della propria maledizione. Ma alla fine riceve la facoltà di rivolgere una simile domanda; nel medesimo istante ottiene la pietra di vita e guarisce la sofferenza altrui. Simone Weil. Se pure l’uomo ha per intimo statuto la prerogativa di appartenere alla vita della parola, in ogni caso la disposizione all’ascolto della parola impone una svolta e un salto esistenziale. Per imparare ad ascoltare, è necessario ascoltare il silenzio da cui scaturisce ogni parola che non sia vuota chiacchera o, peggio, rumore di copertura che ci distragga, che ci eviti di pensare al senso e al destino della vita.
Conoscenza e verità sono due temi principali nella ricerca di Paolo Parrini. Paolo si richiama a Immanuel Kant e alla ricerca di questi sulle condizioni di possibilità della conoscenza, ma ritiene che non esistano «condizioni formali di conoscibilità di natura universale e necessaria». 1 La sua posizione riprende dunque, e aggiorna, quelle di neokantiani come Ernst Cassirer e di neoempiristi influenzati da Kant come Rudolf Carnap e Hans Reichenbach, e sfiora senza sottoscriverlo l'empirismo radicale di Willard van Orman Quine. Paolo si ferma, insomma, a un passo dalla dissoluzione del kantismo, riconoscendo, seppure categoria dal «carattere vuoto», 2 la verità come idea regolativa e come valore da cui originano delle prescrizioni.
Definire le modalità con le quali, nella storia della filosofia, si è indagato il concetto del vero è complicato, e richiederebbe notevoli capacità interpretative. Pare opportuno cominciare la trattazione partendo da due criteri che possono valere, tematicamente, ad evidenziare la rilevanza del concetto di verità: il primo è quello che, mettendo al centro il momento conoscitivo del verofatto, lo ricerca nei vari ambiti della conoscenza, l'altro è quello che dal concreto arriva al processo della conoscenza, dando luogo alle concezioni pragmatistiche, utilitaristiche, realistiche, legate ai temi della filosofia della storia. Ciò dovrebbe evidenziare come a fondamento di quel concetto ci siano i tentativi che hanno criticato o negato i principi divini agenti come forza metafisica della totalità, per volgersi alla capacità umana dell'agire, al modo del plasmare il mondo, alla possibilità della creazione e della conoscenza della storia e della cultura: al vero conoscibile nella storia. Dopo un breve accenno alla filosofia platonica, aristotelica e neoplatonica, va messo in evidenza che il principio della convertibilità richiama un presupposto del pensiero cristiano, il principio che la verità sia legata alla creazione divina. Ciò lega il vero-fatto al costruttivismo nel quale, soprattutto sulla base dell'agostinismo, il concetto di conoscenza è stato accentuato fino al volontarismo. Quindi, ad una concezione della verità come disvelamento dell'ordine immutabile della natura, com'è concepito nella filosofia greca, si sovrappone quella medievale, che la considera come intrinseca alla mente ed alla volontà divine, e a cui ci si deve adeguare. Tuttavia sarà la modernità ad individuare una originale concezione della verità, a ritenere di poter conoscere la propria creazione. E qui il concetto di verità segue il complicato rovesciamento del rapporto tra la conoscenza ed il suo oggetto che si presenta dall'Umanesimo e dal Rinascimento. Concepire la vita come data dall'azione formatrice del soggetto vuol dire indagare la tendenza del vero a darsi come esistente nella realtà, scorgere la verità nelle azioni. Si oltrepassa così la distinzione tra la ricerca attiva e quella tesa all'indagine dei principi, poiché la creatività può essere accertata in relazione alla verità, ad una categorizzazione che non è mai fissa, ma sempre contingente. Infatti, se concepita dal suo interno, la concezione della verità mostra come non ci sia alcuna certezza immutabile, ma che i termini siano in continuo movimento, che comporta l'idea di un'apertura ad ogni possibilità, sempre in divenire, nella storia, definibile solo in termini di rapporti, creazioni ed azioni. Posto in questi termini, e superando sia la questione della conoscenza oggettiva, sia quella soggettiva, il fulcro della problematica va individuato in tale concezione contingente della verità, ossia nel nesso tra verità e creatività umana, nell'idea che non si possa conoscere tutto ciò che si pensa, così come non si possa conoscere tutto ciò che provenga dal di fuori, ma che abbia senso e significato, ed abbia conoscibilità solo ciò che si è creato. Nella varietà delle concezioni sulla verità, delle diverse manifestazioni che stanno dietro la questione dell'espressione della verità nella creatività, importante è stato il contributo di Vico: si conosce ed è vero solo ciò che si è fatto. La verità della creazione è concepita come non difforme dalla storia, perciò Vico e il suo criterio di convertibilità sono il fondamento del trascendentalismo su cui si fonda molta parte della riflessione moderna, tesa a concepire la pensabilità e conoscibilità della storia, la pratica con cui l'uomo si crea e crea il proprio mondo culturale. E tuttavia qui la questione si complica, poiché, per Vico, il vero deve potersi accertare, deve cioè essere filtrato da un certo contingente, che deve a sua volta avverarsi. Basandoci sull'analisi del vero-fatto in Vico, e dopo averne riscontrato le premesse nella filosofia classica, si cercherà di mostrare come esso, dall'illuminismo, sia rilevabile in Kant e, seppur in forme diverse, nell'idealismo, nello storicismo e nel neokantismo, nell'intenzionalità husserliana e nell'ermeneutica gadameriana, in Habermas e nel costruttivismo. Infine, con riferimento all'homo creator, si accennerà alla relazione tra verità e fattualità nello storicismo critico-problematico di Piovani. Il piacere della ricostruzione sulla base dei documenti antichi non è una faccenda moderna: se si vogliono ritrovare i classici del genere si deve ritornare all'Ottocento; in questo caso specifico all'articolo di Desjardins del 1878. Dopo questa data ci sono stati commenti su questo genere di testi, o anche chiarificazioni su vari punti: ma dopo tutto si può sostenere che non c'è una sistematizzazione dell'insieme di tali testi, che adegui l'analisi storico-antiquaria e topografica al livello dell'analisi filologico-letteraria. L'esposizione più adeguata a tal fine è quella del Desjardins, un commento, pedissequo al testo, come una serie di note a margine per lettori attenti. La prima tappa porta Orazio, insieme al retore greco Eliodoro, da Roma ad Aricia, per un itinerario di 16 miglia. Fino a Forum Appi, dove termina la seconda tappa, ci sono 27 miglia: Orazio descrive la lentezza della marcia, che lo conduce a percorrere in due giorni la distanza che se ne compie in uno. Il canale di Forum Appi cominciava tre miglia prima, a Tripontium, e si dispiegava per 19 miglia: da ciò il nome Decennovius. Questa era ritenuta una successiva innovazione alla creazione della via da parte di Appio Claudio, ma la scoperta di un miliario a Posta di Mesa con doppia numerazione consente di correggere tale opinione: su di esso si leggono i nomi degli edili P. Claudio e C. Furio, il primo dei quali è il figlio dello stesso Appio Claudio, come si evince dall'antichità del cippo. Il Decennovius è menzionato anche dal geografo greco Stradone che afferma che presso Terracina, verso Roma, la Via Appia è costeggiata da un canale, alimentato da stagni e fiumi: vi si naviga di notte, imbarcandosi la sera per sbarcare la mattina e fare a piedi il resto del percorso, ma a volte anche di giorno. Il battello è trainato da un mulo. La fonte di Ferocia, a cui Orazio si lavò, alimentava l'acquedotto di Terracina, di cui sono stati ritrovati tratti di tubazione di piombo con l'iscrizione reipublicae Tarracinensium. Mecenate, Cocceio e Fonteio Capitone, come sostiene Desjardins, avevano scelto il viaggio via mare, per evitare la fatica, o perché alloggiavano in una villa costiera. Non si potrebbe altrimenti spiegare l'appuntamento a Terracina, dove cioè, come afferma Stradone, la Via Appia arriva al mare per la prima volta. Orazio e Eliodoro andarono al porto, che aveva assunto la forma e le dimensioni che conserverà nel periodo imperiale: infatti, è appurato che i lavori eseguiti si possano legare alla fondazione di una colonia triumvirale da parte di Cn. Domizio Calvino, il console del 40 a. C., che s'insediò nella pianura ai piedi dell'antica città volsca, e della quale si sono preservati svariati resti. Nella descrizione della marcia di tre miglia da Feronia alla città, Orazio usa il termine repimus, che vuol dire " ci arrampichiamo", suggestionato dalla posizione dominante di Terracina. Questo stride, tuttavia, con le specificità del percorso, che si dipana in piano, fino alle porte della città, e con il termine successivo subimus, dal quale si evince che la strada passava al di sotto di Terracina. Non c'è motivo di adattare repimus, che va tradotto, nell'accezione più comune del verbo, con " ci trasciniamo", per alludere alla fatica di una notte insonne. Dunque, Orazio non si dirige per l'antico itinerario della Via Appia, che si arrampica sul monte S. Angelo, ma quello più comodo che lo conduce al porto e da lì, passando sotto il Pisco Montano, all'imbocco della via dei censori del 184 a. C., la via Flacca. Orazio non dice dove trascorre la notte: forse in un albergo vicino alla città. A Fondi Orazio dedica un paio di versi per deridere il provincialismo del magistrato locale, premuroso di mostrare a Mecenate la sua toga pretesta, il suo laticlavio e le insegne del potere municipale, che celavano le sue origini modeste. Lo si può identificare con un parente del M. Aufidio Lurco di Fondi che, secondo Svetonio, era nonno materno di Livia, proprietario della villa di Sperlonga, passata forse a Tiberio mediante la madre. A Formia la comitiva è ospitata a cena da Fonteio Capitone, mentre dorme a casa di L. Licinio Marrone Murena: entrambi possedevano una villa a Formia, dove sei anni prima moriva Cicerone. Dopo 17 miglia, alla comitiva si aggregano M. Prozio Tucca, Vario e Virgilio, provenienti da Napoli. La giornata si chiude, dopo altre 10 miglia, in una stazione di posta presso il Pons Campanus, a 17 miglia da Capua. A Caudium due buffoni, Sarmento e Messio Cicirro, gareggiano in lazzi. Dopo Benevento si cambia strada; Orazio, infatti, prima di Canosa, menziona due tappe un po' oscure: Trivicus e un oppidulum non nominato. La Jannaccone ha dimostrato l'inesattezza dell'identificazione tra Trivicus e Trevico sia topograficamente, sia toponomasticamente: infatti, Trevico non può essere Trivicum, poiché il nome medievale è stato Vico della Baronia. Il percorso tradizionale perde consistenza, e così anche l'identificazione dell'oppidulum con Asculum. L'unica soluzione si può desumere da Stradone, laddove parla dei percorsi alternativi tra Brindisi e Benevento: due sono le vie, una mulattiera, lungo la quale ci sono Egnazia, Celia, Netion, Canosa e Herdonia, e un'altra via che passa da Taranto, che allunga di un giorno. Tale via si chiama Appia ed è adatta ai carri. Anche se Stradone non spiega l'itinerario tra Canosa e Benevento, è evidente che la via percorsa da Orazio sia la prima, la via Traiana. Quindi, si deve cercare l'oppidulum altrove, e in ogni caso ad una distanza molto maggiore da Benevento, diciamo due tappe,...
La verità e l'inganno: il potere della parola nella retorica gorgiana
Diogene Filosofare Oggi, 2006
Articolo sulla filosofia giapponese pubblicato dalla rivista "Diogene Filosofare Oggi". Cfr. Cristiano Martorella, La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.14-19. La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese. di Cristiano Martorella Occuparsi di filosofia giapponese in Europa e America presenta due difficoltà peculiari. La prima consiste nella distanza sia fisica sia culturale della società giapponese, con delle evidenti ricadute nell'ignoranza dei testi che costituiscono la base delle argomentazioni filosofiche orientali. La seconda difficoltà, molto più profonda e ostica, è di genere filosofico, e consiste nel rifiuto della diversità culturale. L'apice di questo rifiuto è stato raggiunto da Donald Davidson in Verità e interpretazione. Nel cap.13 intitolato Sull'idea stessa di schema concettuale, Davidson sostiene che non possono esistere schemi concettuali completamente diversi perché altrimenti sarebbero inintelligibili e incomunicabili. L'argomentazione sembra quindi ridimensionare il concetto di diversità che potrebbe essere solo parziale. Ma è una argomentazione basata sull'equivoco del concetto della diversità considerata come opposizione e contrarietà, e soprattutto sul fraintendimento operato nell'identificazione generica di comunicazione e significato. In Rinnovare la filosofia, Hilary Putnam smaschera l'errore di Donald Davidson, ed evidenzia l'arbitrio e la forzatura operati nei confronti della nozione di significato. La concezione formalista di Donald Davidson che lega il significato al valore di verità (attraverso la convenzione v e la teoria tarskiana) mal si adegua a comprendere il relativismo concettuale che ci viene presentato dalla filosofia giapponese e dalle altre filosofie orientali. Ovviamente l'influenza della filosofia analitica, di cui Davidson è il più degno esponente, si ripercuote sulla considerazione dei sistemi filosofici orientali considerati banalmente come rappresentazioni esotiche completamente irrazionali. Se invece accettiamo di mettere da parte l'idea della diversità come opposizione e contrarietà, e ammettiamo piuttosto che la diversità include anche la condivisione dei differenti significati del mondo (pluralismo epistemico), possiamo procedere nella riflessione senza cadere nella semplificazione e strumentalizzazione dello scontro di civiltà (clash of civilizations) tanto di moda. Tenteremo quindi di comprendere la filosofia giapponese con uno studio comparato che non escluda le somiglianze e nemmeno le differenze, tutto ciò per il vantaggio che la conoscenza dell'altro può apportare. La diversità epistemica della filosofia giapponese ha origine dai princìpi e fondamenti di carattere buddhista che ne sono alla base. Innanzitutto l'ontologia giapponese concepisce l'esistenza come un continuo cambiamento. Il divenire è possibile perché i fenomeni non avrebbero una sostanzialità. Secondo un celebre detto buddhista, il nulla costituisce la realtà fenomenica. Il fenomeno è ciò che è vuoto, il vuoto è ciò che è fenomeno (shiki
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In "Bollettino parrocchiale. Comunità ortodossa della Svizzera italiana", Pasqua 2021
Carrara, Morato (a cura di), Verità, , 2010
Rivista di storia locale "Fanano fra storia e poesia", 2016
In cammino verso il mistero. Omaggio a Claudio Militti, 2019
Estudos Semioticos, 2022
Alla ricerca delle tracce: da San Juan a Borges, in Per Cristina Campo, All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano, 1998
Esercizi Filosofici 5, 2010, pp. 65-77
Doppiozero, 10 dicembre, 2016
Editrice Domenicana Italiana, 2018
La Verità del Falso. Studi in onore di Cesare G. De Michelis, a cura i G. catalano, M. Ciccarini e N. Marcialis, 2015