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2018, Italian Studies
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‘Il dialetto e la sua assenza nei romanzi di Beppe Fenoglio’ è uno studio basato sul corpus dei romanzi dell’autore piemontese (La paga del sabato, La malora, Primavera di bellezza, Il partigiano Johnny, L’imboscata, Una questione privata) che ha come obiettivo quello di proporre una riflessione sugli elementi regionali rappresentati dall’autore piemontese e sulle reticenze nell’uso del dialetto a cui talvolta il lettore assiste nei romanzi resistenziali. Attraverso l’analisi degli interventi in cui il narratore descrive i suoi personaggi intenti in pratiche verbali di natura regionale, si cerca di illustrare come Fenoglio abbia costituito una narrativa localmente caratterizzata ma linguisticamente lontana dai localismi, nel tentativo di rappresentare la realtà ma allontanan- dosi da una attitudine mimetica al parlato. Parimenti ai casi di assenza del dialetto, vengono presentati anche quelli di presenza dello stesso, con parti- colare attenzione a come l’elemento linguistico diventi simbolo dei rapporti tra i personaggi fenogliani. La disamina presentata in questa sede vuole essere un tentativo di approfondire e dirimere alcune problematiche linguistiche presenti e apparentemente non presenti all’interno della produzione artistica dello scrittore langhigiano, partendo dalle suggestioni critiche fornite in primis da studiosi quali Isella, Beccaria e Raimondi.
Analisi Linguistica e Letteraria, 2013
Beppe Fenoglio, attraverso i suoi racconti a tematica contadina e partigiana, non ha mai cercato una semplice “rappresentazione mimetica e fotografica del reale”, e lontano dallo scrittore è sempre stato ogni proposito documentario e autobiografico: egli si è servito, invece, di ambienti e fatti a lui vicini e noti per farne simboli di storia universale. Di conseguenza, da un punto di vista strettamente linguistico, Fenoglio è raramente ricorso al dialetto langarolo per dare voce ai suoi personaggi e narratori, teso com’era verso una “lingua da reinventare, arcaica e al contempo molto sollecitata verso il nuovo”. Lo scrittore albese ha infatti compiuto un’operazione linguistica più complessa, riassumibile nella formula, usata da Luigi Russo per Verga, di “una lingua pensata in dialetto”3. Fenoglio ha dato veste italiana a varietà substandard della lingua – forme colloquiali, popolari ed espressioni idiomatiche piemontesi – alle quali ha altresì aggiunto forme lessicali insolite e letterarie, e anche qualche vocabolo inglese, allo scopo di deviare costantemente dalla forma standard dell’italiano, cercando al tempo stesso un codice linguistico originale e una maggiore concentrazione espressiva. In questa operazione, il dialetto piemontese non ha semplice funzione espressionistica, ma è forma interna dell’italiano, in grado di raccontare in forma epica la società contadina delle Alte Langhe, protagonista dei racconti di Fenoglio, senza scadere nel bozzettismo paesano.
Atelier, 2011
Scorrendo le quarte di copertina dei romanzi e delle raccolte dei racconti di Beppe Fenoglio, troviamo che il linguaggio dello scrittore è definito, di volta in volta, «scarno», «preciso e vero», «svelto e concreto», la sintassi «volutamente elementare» e il suo modo di raccontare si snoda «per scorci vigorosi» con una «capacità di consegnare in poche battute personaggi memorabili». A prima vista, quindi, il suo stile pare un fiume dal percorso breve e lineare, che non minaccia mai la piena, ma che, anzi, è spesso al limite della secca. Eppure, è sufficiente immergersi nella lettura per rendersi immediatamente conto della profondità delle acque fenogliane. E, per chi abbia letto almeno le sue opere principali, risulta semplice individuare il numero e la portata dei principali affluenti lessicali.
La tesi indaga la presenza di una matrice biblica all’interno dei racconti contadino-langaroli di Beppe Fenoglio. Il lavoro si articola in due parti principali: la prima è volta a ricostruire il rapporto tra lo scrittore e la religione; la seconda invece analizza le situazioni e le immagini scritturali che emergono dalla lettura dei racconti. Nello specifico, la prima parte ripercorre da un lato le scelte di vita di Fenoglio, professatosi laico, ma continuamente a contatto con gli ambienti religiosi albesi; dall’altro lato indaga le origini della profonda conoscenza della Bibbia che caratterizza lo scrittore. Di qui emergono tre fili conduttori fondamentali per delineare gli interessi religiosi di Fenoglio: l’affinità con l’ideologia protestante e puritana, sempre da considerarsi in chiave storica; i legami d’amicizia con le personalità più illustri dello scenario albese dell’epoca, nonché interpreti innovativi della Bibbia, come Chiodi, Corsini, don Bussi e monsignor Rossano; l’amore per la letteratura inglese secentesca e per autori come Donne, Milton e Bunyan, molto attenti alle Sacre Scritture. La seconda parte del lavoro affronta i racconti in cui le suggestioni bibliche sono maggiormente evidenti, sottolineando anche gli elementi infernali o edenici che li attraversano. Infine, una sezione è dedicata al progetto di sceneggiatura cinematografica, non concluso dallo scrittore a causa della morte precoce, ma denso di riferimenti biblici, come la lotta fratricida tra Caino e Abele che Fenoglio traspone nello scenario delle Langhe.
2006
Due diverse indagini sono state condotte in questo lavoro: la prima relativa agli aspetti quantitativi del dialetto nelle opere di Camilleri, la seconda vòlta a definire una tipologia del dialetto stesso. Dal momento che il dialetto nella scrittura dell’autore non è mai esclusivamente confinato in specifici luoghi della narrazione, ma anzi mescolato in variabile misura all’italiano, non si può prescindere da un’indagine che coinvolga anche un generale esame della lingua e dello stile camilleriani. Il dialetto, nella narrativa dello scrittore, non si contrappone mai alla lingua italiana. La prosa di Camilleri punta, infatti, a disintegrare le barriere linguistiche. Ne scaturisce un idioletto pacificato al suo interno, in cui le diversità sono amalgamate e le tensioni linguistiche risolte con ammirata naturalezza.
Dal 12 al 15 giugno 2013 l'Università di Sassari ha ospitato, nelle due sedi di Sassari e Alghero, la XV edizione del Convegno della MOD (Società Italiana per lo Studio della Modernità Letteraria). Oltre ai curatori, i promotori dell'iniziativa sono stati gli italianisti del Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali: il prof. Massimo Onofri, il prof. Marco Manotta e la prof.ssa Monica Farnetti, sostenuti dalla preziosa collaborazione di dottorandi, assegnisti e ricercatori, nonché dall'imprescindibile vicinanza del Direttore del Dipartimento, prof. Gavino Mariotti, e del Magnifico Rettore, prof. Attilio Mastino. Tutti hanno operato in piena armonia con il Direttivo MOD e con il Presidente della Società, prof. Angelo R. Pupino dell'Università di Napoli «L'Orientale».
******fica: s. f. 1. Il frutto del fico, Ficus carica, moracee. 2. Ficusecca: Fichi bianchi secchi. *Basile. Chiagnenno a selluzzo, ’nce mesero dintro no varrile de passe e fico secche, azzò se iesse mantenenno pe quarche poco de tiempo. *F. Russo. Seh, seh! Quanno se ngrassa a ficusecca! / Comme scialammo bello, dint’a st’oro! / Sciù pe’ la faccia vosta! A vuie e a lloro! 3. Fiche mbuttunate. Fichi con ripieno di noci o mandorle. *Scarpetta. A me sto servizio sapite chi me l’ha combinato, l’onorevole Sig.r Deputato Cardi che m’ha scritto che era no bravo giovine, io però l’aggio da mannà cierte fico secche mbuttunate, da dinto nce metto tutte ammenole amare. 4. Fiche nchietta: fichi accoppiati a ppacche. *N. Capasso. E portammo co nuie ciento coselle ; / Craune, e Sarcenelle, / E scope, e Zorfarielle, / Aglie, e Sale à panette, / E Passe, e Fico acchiette, / De legumme ogne sciorta, *B. Saddumene. Si Conte mio / Te voglio fa doje fico nchietta. Te! / Che puozze aonnà comm’a lo buono juorno / Facce de Pasca mio. 5. Fica Trujana. Fico troiano. (ficus sapida);Varietà di fico dalla polpa molto succosa e di squisito sapore, originario da Troia, Puglia. *Cortese. Llà tu vide na rosa moscarella / Che ’mmiezo nc’è nasciuto no cetrulo, / Llà bide c’a na fico troianella / Nce sponta a corneciello lo fasulo: *P. Sarnelli. Ed abbistato cierte ffico che stevano co la veste tutta stracciata comm’a pezzente, co lo cuollo de ’mpiso, e co le lacreme de femmena che vò gabbare, nce deze de mano: e ’ngorfùtole, addemannaje: “Che ffico so’ cheste?” “Fico trojane”, diss’io. *Scarpetta. Fattenne n’ata magnata. - Che cosa? - De fiche trujane? *Viviani. Pure ’a fica nun è chiù chella: / ’a truiana, mo chi t’ ’a da’? / Bella, grossa, cu ’a lagremella, / chiù ’e tre muorze pe’ t ’ ’a magna’… 6. Fica vuttata. Fico dottato. Varietà di fico, pregiata per i frutti grossi, succosi e facilmente essiccabili. Fiche Ottatèlle (in napoletano fiche, s. f.) sono i fichi Dottati (lat. ficus carica sativa), una qualità caratteristica dell’Italia meridionale, dal sapore molto dolce *N. Pagano. La vottatella ’mmusso fa la gumma. *B. Saddumene. Benemio comm’è scioscia / Stò Barone. - Che dici / Mia bella fico vottatella, e moscia? 7. Fica nera ’i Brancaccio. Varietà pregiata originaria del podere Brancaccio a Fiorillo. 8. Fica paraviso: Fico nero che matura a fine settembre. *R. Galdieri. ve veco luvà ’a povere ’ncopp ’a dduie scìure ’e cera, / ’ncopp ’a ttre ffrutte ’e marmulo: ’na perzeca, ’na pera, / ’na fica Paraviso cu’ ’na vucchella ’e fuoco, / ca ’na matina, a mmaggio, se scurtecaie ’nu poco, / ca ve cadette ’a mano... V’ ’o ricurdate o no? 9. Fica allardata: Fica lardara. Fico lardaiolo, dalla buccia doppia e biancastra. (ficus pachycàrpa); *E. Nicolardi. Me songo ’ncantato ’nu poco / vicino a ’sta sporta ’e lardare / culor ciucculato, cu n’àceno ’e fuoco / ca, tanto ch’è russo, pittato me pare. 10. Fica iedetella: Fico lungo quanto un dito (iedeta: dito), detto pure ieietella, oppure fica cacatoria. *Basile. E Peruonto co lo medesemo appontamiento respose: «Damme passe e fico, si tu vuoie che lo dico», e Vastolla subeto remmediaie a la stitichezza de le parole de Peruonto con le fico ieietelle, ch’a pena parlato tornaie da scellavattolo cardillo, da n’uerco Narciso, da no mascarone pipatiello. 11. Fica prucessotta: Fico brogiotto, borgesotto, (da Burjazot, città spagnola nei pressi di Valencia), con buccia nera e polpa rossa. *N. Pagano. Ccà, bene mio, che bbelle processotte / haie lo novembre, dinto san Martino! *Voce Popolare. Ue’, è doce comm’ ’a ricotta ’sta fica borgesotta! *Scarpetta. Chille avevene da stà dinta a la camera e io non l’aggio visto, e tutto pecché? pe sta cancaria de cecaria. Me so’ menato da coppa la fenesta de lo ciardino, meno male che era vascia, si no me struppiave buono, e pure m’aggio fatta sta fica processotta. (lndica la fronte.) Lo bello è stato che mmiezo Porta Capuana credenno de parlà co n’ommo aggio parlato co no cavallo d’affitto, diccennole, scusate, dove pozzo trovà na farmacia pe no poco de sparatrappo? Chille 12. Fica puntulella: Fico piccioluta, detto anche mauriello. 13. Fica vulumbrella: Fico acerbo, non adugliato. *COL. Fatte molla e no chiù dura / mò ca si’ furmosa e bella / ca ogni fica vulumbrella / a stu tiempo s’ammatura. 14. Sciore ’i fica: Fico fiorone. Frutto primaticcio del fico, detto anche fico fiore. 15. Fica paccone. Merzone: Fico acerbo, duro e pesante come pacche grosse, glutei. 16. Fica pallara: Fico grosso e tondo. *Basile. e pe retopasto ’na pizza de redita ’nfosa a lo mele, e ’na cesta po’ zeppa zeppa, chiena chiena, varra varra de cicere caliate, mela shioccole, franferlicche, grisommole, scioscielle, sorva pelose, fico pallare, e pruna coglia–piecoro; e tratanto spararà ’na museca de teorbia a taccone co lo tammorriello, *D. Basile. Tutte le cose duce de lo munno, / Li dattole de Tunnese, / Le sorva de Resina, / E le fico pallare de Pezzulo, *F. Oliva. Damme lo veveraggio / Ca te la faccio tennera, / Comm’a fico pallana. 17. Fica lattaròla. *Velardiniello. Boccuccia de ’no pierzeco apreturo / mussillo da na fica lattarola / s’io t’aggio sola ’int’a chess’uorto / ’nce resto muorto / si tutte ’sse cerase non te furo.
L'argomento di questo seminario sarà, come vedete dall'handout, la «dialettica» nel Fedro platonico. Si tratta di un tema molto dibattuto, dato che questo dialogo è uno dei pochi nei quali si trova esplicitata in modo chiaro la procedura metodologica di synagogè e diairesis (la procedura dialettica è descritta da Platone anche in Filebo 16-18; Sofista 226C, 235C, 253ss; Politico 285; Leggi 894, 936D, 965C), quel metodo che abbiamo visto all'opera anche nel Sofista, durante lo svolgimento delle numerose divisioni di tecniche che esso ci presenta, e che lo Straniero tematizza a 253D-E, nel bel mezzo della fondamentale discussione sui generi sommi: STRANIERO: Il dividere per generi e non ritenere diversa una Forma che è identica, né identica una Forma che è diversa, non diremo che è proprio della scienza dialettica? TEETETO: Sì, lo diremo. STRANIERO: Dunque, chi è capace di fare questo, discerne adeguatamente una sola Idea che si estende da tutte le parti attraverso molte altre, ciascuna delle quali rimane una unità separata, e molte Idee diverse tra loro, abbracciate dal di fuori da una sola Idea; e, d'altra parte, un'unica Idea attraverso molti interi raccolta in unità, e molte Idee del tutto distinte e separate. Appunto in questo consiste la scienza del distinguere per generi: nel sapere in quale modo ciascun genere possa comunicare, e quale no. TEETETO: È così, senza dubbio. STRANIERO: Ma questa capacità dialettica, tu non l'attribuirai a nessun altro, credo, se non a colui che filosofa in modo puro e giusto.
«OBLIO. Osservatorio bibliografico della letteratura italiana otto-novecentesca», X (2020), 40
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