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Nel 2013 è stato dato alle stampe un numero monografico di Semicerchio -Rivista di poesia comparata dedicato alla poesia del lavoro, corredato da immagini delle acciaierie di Piombino del pittore grossetano Claudio Cionini, lo stesso soggetto che era stato frequentato magistralmente, negli anni Sessanta del Novecento, dal fiorentino Fernando Farulli con la serie di dipinti sui costruttori. L'opera è dedicata ai «lavoratori della Thyssen di Torino che hanno perso la vita in fabbrica e a tutti quelli che, per la mancanza di lavoro e la convinzione di non potervi fare fronte, della vita si sono privati». Il panorama poetico delineato dalla rivista è molto ampio, globale e fondato su una scelta non ben comprensibile (ma sempre apprezzabile), se non sul fatto di mettere in campo prevalentemente autori novecenteschi noti per la propria produzione poetica che hanno avuto anche la ventura di scrivere, più o meno occasionalmente, di lavoro e lavoratori; sono presenti anche due saggi che si occupano di lavoro e canzone. Gli argomenti sono così antologizzati: § il Medioevo con il lavoro carolingio e la coltivazione dei giardini; § il Sudafrica dell'apartheid e del post-apartheid; § la Cina con la giovane poetessa operaia Zheng Xiaoqiong; § la Francia con George Sand (1804-1876), altri autori tra Otto e Novecento, una lettura poetica del capitolo 15 del libro I del Capitale di Guillaume Pigeard de Gurbert, e poi acuni testi di Pierre-Yves Soucy (L'ordre dans le maines) e di Jean-Claude Villain (Il est sage de ne pas travailler…); L'Italia è presente, oltre che con un interessante compendio esemplificato della tematica del lavoro nella poesia migrante italofona (e anche dell'albanese Gëzim Hajdari, nato nel 1957), tramite una raccolta di inediti di ventinove poeti attivi ai giorni nostri che hanno accolto l'invito a scrivere sul tema; tra questi: Epidemiologia&Prevenzione n. 2; marzo-aprile 2016; Rubrica/Libri e storie, p. 2 L'occasione offerta dalla pubblicazione della rivista Semicerchio è risultata propizia, efficace nello stimolare una riflessione più ampia e di più lungo periodo sul rapporto, certo complesso, tra poeti, poesia e lavoro in Italia.
L'osservazione del mondo che ci circonda porta alla considerazione che ogni oggetto materiale "artefatto" è la proiezione in forma di un'idea, la trasposizione in "realizzazione" di una "progettazione". L'oggetto è sempre caratterizzato da due proprietà principali che sono la regolarità e la ripetitività. Esso è dotato di un progetto (teleonomia) e se la sua riproduzione è affidata ed una qualità di perfezionamento che chiamiamo "evoluzione". Se ogni ad una unità di informazione che ne garantisce la regolarità (invarianza), dobbiamo concludere che l'informazione è di ordine molto elevato, tale da garantire la conservazione della norma strutturale specifica. Poiché questa informazione è assolutamente invisibile (la teoria del codice genetico, pur ricca di informazioni morfogenetiche e fisiologiche, non è in grado di prevedere e risolvere l'intera biosfera, né può essere considerata una teoria generale dei sistemi viventi), solo lo studio approfondito dell'oggetto, l'individuazione della sua origine, la conoscenza delle modalità costruttive, possono guidarci verso l'idea che lo ha concepito e, quindi, ad identificare il suo autore. Ciò premesso, se vogliamo conoscere l'autore del cosmo, dobbiamo porci almeno tre domande : a) Qual è l'origine dell'universo ?; b) Qual è la sua storia ?; In che modo è stato costruito ? Se riusciamo a rispondere a queste domande, abbiamo buone speranze di conoscere il dio che l'ha costruito, altrimenti cadiamo nel campo delle ipotesi dove è vero tutto ed il contrario di tutto. Poiché le tre domande si pongono in una sequenza obbligata, dobbiamo innanzitutto rispondere alla prima. Il tentativo di rispondere a questa domanda, però, ce ne pone un'altra : l'universo è nato dal nulla (creato) oppure da qualcosa preesistente (manifestato) ? Quanti credono nella creazione, sono invitati a lasciare queste note e dedicarsi ad altro. Ciò non vuol dire che hanno torto, bensì che tutti i processi di pensiero che seguiranno vanno in direzione opposta al loro credo, che potrebbe anche essere più giusto del nostro. Chi, invece, crede nel famoso detto "nihil ex nihilo", può trovare in queste pagine positivi spunti di riflessione, che gli permetteranno di costruirsi delle verità ulteriori rispetto a quelle di cui è già in possesso. Si parla, ovviamente, di verità personali, quelle con la "v" minuscola, senza le quali ognuno di noi non avrebbe modo di vivere. Tutti sanno che alla base del mondo fisico vi sono gli atomi. Prescindiamo dalla loro diversità e dalla possibilità di suddividerli in particelle ancora più piccole e ci soffermiamo solo sul fatto che essi sono i mattoni sia del mondo organico che di quello inorganico. A livello atomico non è possibile rilevare alcuna organizzazione biologica. Quando si passa a livello molecolare, si possono individuare tutte quelle organizzazioni biologiche che caratterizzano le funzioni degli organismi viventi. Per inciso, è solo a questo livello che nascono la chimica, la biologia, la biochimica. Se è vero che i processi chimici stanno alla base delle manifestazioni vitali, se ne deve razionalmente dedurre che la vita è movimento, mutamento, derivante dalla incessante attività chimica che si svolge all'interno degli organismi viventi. Tale attività, poi, non è orientata alla conservazione delle strutture esistenti, ma consiste in una successione di eventi che, in modo dinamico sorregge e rinnova incessantemente le strutture. Qualcuno sostiene che tale ragionamento sia valido solo per il mondo organico, mentre per il mondo inorganico esso non sia pertinente. Se la vita (mondo organico) è movimento, mutamento, trasformazione, non potendo negare che tali accadimenti sono rilevabili anche nel mondo inorganico, dobbiamo accettare che anche questo mondo presenti la "vita". Gli atomi, infatti, sono elementi in movimento (gli elettroni ruotano attorno al nucleo), sono capaci di associarsi e dissociarsi (reazioni chimiche), possono variare la loro natura perdendo o acquisendo particelle. Anche a livello atomico, allora,
Santa Precaria che si trasforma nell'arrivista più spietata di una tivù locale nel Sud d'Italia, e un film su una giovane coppia di attori che si presta a due amici per un documentario sul precariato mentre la loro vita privata va a rotoli? Si potrebbe rispondere che è la condizione sociale ed economica del precariato a ridurre tutti questi personaggi a vittime del capitalismo neoliberista selvaggio.
2020
The paper begins by analyzing the relationship between the concept of Otherness and low-income housing policies in Rome. It argues that the common trait between the two issues lies in their constantly maintaining a state of emergency: this has led to a paradoxical situation I define as a “stable precariousness”. From the moment Rome’s public housing was born, it was immediately related to the issue of migration. In turn, this has gradually created a cultural configuration of housing as a “social award”; for all those economically and socially disadvantaged categories, housing policies have always been designed in the name of temporariness and with little access to basic urban services. Nonetheless, Rome also has a long counter-history of squatting for housing, which today guarantees a housing solution (however precarious) to all those who are in housing emergency. These movements are now characterized by the coexistence of migrants and Italians: also, for this reason, their coexiste...
DeriveApprodi, 2001
Fare inchiesta sul precariato metropolitano 1. Il lavoro che non c'è 2. Il lavoro che c'è 3. La flessibilità dei servizi 4. Precari, socievoli e intelligenti 5. Tempo di non lavoro 6. Consumo produttivo 7. Decomposizione del Welfare state 8. Inclusione ed esclusione 9. Le fisionomie del precario 10. Biopolitica del precariato Reddito di cittadinanza, se non ora quando? Non vedi dunque ora che, sebbene una forza esterna spesso costringa a procedere molti uomini che riluttano a essere precipitosamente trascinati, tuttavia c'è nel nostro petto qualcosa che può ribellarsi e opporre resistenza? Fare inchiesta sul precariato metropolitano Uno spettro si aggira per il globo, lo spettro del precariato. E spettro lo è davvero, perché sembra che nessuno possa o voglia raccontarne la fisionomia. Forse perché l'ectoplasma sfuma nell'indistinzione di una presenza/assenza o perché, immagine di un rimosso, mette inquietudine. Qui vogliamo provare un'operazione in controtendenza, vogliamo raccontare il precariato. Raccontare i precari. Un racconto per narrare una massa composita e diversificata, molti racconti per dire una medesima condizione. Un solo soggetto, una condizione comune, nonostante le forme della precarietà siano molte e diverse tra loro. In effetti, guardando le biografie dei precari, con difficoltà sembra trovarvisi una qualche linearità. Esse spesso sono il risultato di eventi di lavoro e di vita che in apparenza non hanno alcuna relazione causale e necessaria tra loro. D'altro canto, questa è la precarietà. La precarizzazione è indeterminatezza e oscillazione, un'esperienza di disorientamento e di perdita della continuità. Raccontare i precari vuol dire questo, raccontare concretamente questa esperienza di variabilità e d'incertezza. Come fare, però, se i percorsi biografici sono così singolarizzati? Questo carattere "singolare" dell'esperienza è già un primo elemento comune ai precari, comune è questo sentirsi singolarità, questo viversi esperienze non immediatamente generalizzabili. I precari sono questo: una quantità di singolarità e di differenze. In genere si ritiene che ciò che rende interessanti le biografie sia la loro singolarità, il loro costituire dei casi in qualche modo unici. Un'esperienza di vita raccolta in una biografia è importante se è particolare, solo così è considerata abbastanza importante da meritare di essere raccontata. Ma non è proprio di fronte a questa estrema singolarità dei soggetti della precarietà, di fronte alla loro eterogeneità e variabilità, che si è persa ogni possibile continuità, quella continuità che fortifica e dà senso alla costruzione di un racconto collettivo? Non si rende impossibile il racconto come esperienza collettiva al di là del caso particolare? Quel tratto comune, la singolarità dell'esperienza, non resta una potenza incapace di raccontarsi? Non sembra essersi perso proprio il carattere "esemplare" che rende decisiva e, in un certo senso, necessaria la narrazione? Questo vuol dire, sinteticamente, che raccontando il lavoro precario è facile portare esempi, descrivere lavori atipici e flessibili, ma i casi presi singolarmente non sembrano mai così "esemplari" da giustificarne la narrazione, sempre troppo singolari, sempre troppo "casi a sé". L'articolazione flessibile del lavoro sociale sembra aver fatto perdere quell'unità minima, comune, necessaria, affinché le esperienze siano "esemplari". Il comune tra i precari sembra determinarsi qui solo negativamente, come mancanza, mancanza di un senso comune dell'esperienza di vita, mancanza di un qualcosa che appartiene a molti, che accomuna una massa variegata. Un tratto comune ai precari, si è detto, è soprattutto la condizione di oscillazione e d'instabilità, e questo è una traccia che nell'attività d'inchiesta va davvero seguito come il filo di Arianna. Ma anche qui ci si chiede se questo comune senso d'instabilità, questa esperienza di precarietà, non resta qualcosa che è comune, che esiste, ma che non può trovare le parole, anch'esse necessariamente comuni, per raccontarsi. Dove trovare un'esemplarità in grado di raccontare i molti volti del lavoro precario? Dove cercare una singolarità generica, esemplare, una singolarità che possa esprimere queste condizioni generali e comuni? Per trovare questo tipo di generalità è necessario inquadrare la questione del precariato dentro le modificazioni strutturali dei processi produttivi, una base oggettivamente comune sulla quale ogni singolarità, ogni fenomenologia del lavoro, realmente riposa. Il fenomeno della precarietà non può essere separato dai processi di ristrutturazione della produzione che caratterizzano il postfordismo. È necessario comprendere le ragioni della condizione precaria dentro le modificazioni dei rapporti di produzione e per far questo è indispensabile una bussola per orientarsi nel mare del lavoro sociale e delle sue trasformazioni, un approccio genealogico alla metamorfosi del lavoro. Bisogna costruire degli strumenti di navigazione, dei concetti che non soltanto ci permettono di decifrare la mappa del lavoro sociale, ma concetti per viaggiare, concetti per tracciare nuove cartografie. Oggi si parla di postfordismo per identificare il processo di metamorfosi avvenuto nel ciclo di produzione centrato sul modello fordista, ma questa formula -di cui il prefisso 'post' è il segno distintivo -indica che il nuovo paradigma produttivo è compreso più per negazione che per una sua qualificazione specifica. Il postfordismo è ciò che segue il fordismo, ma è facile cedere alle tautologie, e cadere in concetti che si riflettono l'uno sull'altro come specchi, come immagini che hanno perduto il punto focale comune e si dissolvono nell'indeterminazione genealogica dei nomi. La definizione del modo di produzione postfordista ha bisogno d'essere collocata storicamente. Quando questo nuovo modo di produrre si è affermato? Quali sono gli agenti, quali le forze attive, quali i soggetti su cui il postfordismo si è realizzato? Il postfordismo nasce dentro un contesto di crisi, la crisi del "fordismo", il modello di organizzazione sociale che ha egemonizzato il Novecento, un modello di produzione centrato sulla fabbrica, orientato alla razionalizzazione tecnica del processo, da un lato, e alla stabilizzazione dell'economia, all'istituzionalizzazione di dispositivi di mediazione del conflitto interno al processo di razionalizzazione, dall'altro. Un modello che realizza, oltre a un forte incremento di produttività del lavoro, anche un articolato ed efficace sistema di regolazione delle relazioni industriali e di contenimento dello scontro tra capitale e lavoro. Dal punto di vista soggettivo, dal punto di vista della forza lavoro, lavorare in fabbrica voleva dire essere costretti a postazioni fisse, a ruoli preordinati, voleva dire avere un controllo sul processo lavorativo pressoché inesistente, subire un comando del capitale fisso sul lavoro vivo assolutamente brutale, significava essere sottoposti al dispotismo di un comando esercitato da una struttura meccanica d'operazioni esecutive continue e parcellizzate. Il lavoro vivo scomposto e organizzato in questo modo doveva essere ridotto, come nell'utopia taylorista che permea tutto il fordismo, al lavoro di una "scimmia ammaestrata" costretta a eseguire azioni ripetitive, il cui contenuto non può essere sentito più vuoto e lontano. L'utopia negativa di questo sistema era stata anticipata dal George Orwell di 1984 e dal Fritz Lang di Metropolis che non a caso ricorrono alle immagini "panoptiche" dell'onnipresenza dell'organizzazione e dell'ossessiva circolarità del ciclo per descrivere un contesto permeato da una sostanziale derealizzazione dei diritti di partecipazione e dal soggiogamento totale dell'umano. Immagini suscitate dalla fabbrica, da un apparato tecnico di produzione talmente imponente e articolato di macchine e automatismi che avrebbe dovuto in ultimo schiacciare, fino a espellerlo definitivamente da sé, l'elemento umano che vi lavorava, ultimo elemento irrazionale di un ciclo ormai completamente razionalizzato. Ciò che riguarda la soggettività del singolo operaio va tenuto fuori dal tempo di lavoro e dalla produzione, lasciato al "tempo libero", al consumo, al tempo non produttivo per eccellenza. Il regime di fabbrica era, per l'operaio, il luogo dell'estraneazione da sé, luogo privilegiato dello sfruttamento e, insieme, della separazione dell'operaio dalla sua soggettività, della forza delle braccia dalla soggettività del singolo. È solo negli anni Settanta, nel momento di esplicita crisi del modello fordista, che parole quali "soggetto", "soggettività", "singolarità", entrano potentemente nel linguaggio sociale e politico. Il 'soggetto' esprimeva allora un'istanza fortemente antagonista. L'uso del termine aveva immediatamente una valenza politica, voleva dire rivendicare un'esistenza al di là del sistema di organizzazione del lavoro, rivendicare la centralità della propria soggettività. L'incompatibilità della rivalutazione della soggettività della forza lavoro con il sistema d'organizzazione taylorista in quel momento era netta ed evidente. Oggi affermare che la soggettività è chiamata in produzione non comporta scandalo. Anzi i manuali di management offrono una tassonomia davvero varia di tecniche e strategie atte a mettere a profitto la soggettività del lavoratore. Si parla di gestione delle équipe, di sviluppo della creatività, d'organizzazione dei processi di comunicazione interna ed esterna, tutti fattori considerati determinanti per la crescita e lo sviluppo dell'impresa. Doti affettive e relazionali, capacità d'elaborazione e d'innovazione, quanto costituisce l'intimità e la socialità dei soggetti è messo in produzione, anzi è centrale per la riuscita e la qualità dell'attività produttiva. Il sapere è divenuto produttivo, il sapere è essenza stessa dell'esperienza sociale del soggetto. La nuova metafora del lavoro sociale non è più l'automa incapace di autodeterminare la sua attività,...
Critica marxista, 2012
Società e Storia, fasc. 172, 2021
L'autrice recensisce la monografia di Elosia Betti, «Precari e precarie: una storia dell'Italia repubblicana», pubblicato per Carocci editore, nel 2019. Nell'analisi si presenta un tentativo di disamina critica del testo, inserita in una più generale rilettura della storia sociale del lavoro nel quadro contemporaneo e sulla base di specifiche influenze apportate dai recenti contributi della Global Labour History.
Attualismo e problematicismo 1. La crisi dell'attualismo Il passaggio da un attualismo ortodosso a riserve critiche sempre più esplicite e consapevoli avvenne, dunque, in Spirito a cominciare dall'elaborazione e dallo sviluppo dell'attualismo costruttore. Con esso si ebbe la prima affermazione polemica nei confronti del Maestro di Castelvetrano, dettata dalla necessità, espressa soprattutto nella fondazione e nel prosieguo della rivista "Nuovi Studi", di operare un rinnovamento del diritto, dell'economia e della politica, in cui cominciò a profilarsi una nuova concezione del rapporto tra scienza e filosofia in termini di identità. Dopo di allora la crisi si accentuò sempre di più e il programma di ricerca per chiarire i nuovi punti di vista, nel suo coerente epilogo, dette vita ad un atteggiamento speculativo caratterizzato da una continua mutevolezza.
Gli obiettivi di queste pagine sono tre. Primo, fornire un'introduzione metodologica allo studio della domanda di cultura. Secondo, proporre una panoramica delle principali fonti informative e statistiche che si occupano della domanda di cultura in Italia. Terzo, attraverso una lettura dei dati disponibili, descrivere le principali evidenze empiriche e formulare alcune ipotesi interpretative in merito alle caratteristiche della domanda di cultura in Italia. Il paragrafo 2 contiene un inquadramento teorico sulla domanda di cultura. In particolare, si costruisce una tassonomia dei soggetti che "domandano" cultura e si delimita l'oggetto dei consumi e degli investimenti culturali. I paragrafi da 3 a 7 si concentrano sui consumi culturali degli individui ("le famiglie", adottando il termine in uso nel vocabolario della statistica ufficiale). I paragrafi 8, 9 e 10 si occupano degli altri soggetti che "domandano" cultura: il settore pubblico, le imprese, i soggetti non residenti (quelli che la statistica ufficiale definisce come "il resto del mondo").
Storicizzare la precarietà e il sindacato Nell'iniziare un contributo come questo occorre porre prima di tutto una serie di avvertenze. La prima inerente al concetto stesso di " storicizzazione " , che non significa prendere un fenomeno del presente e collocarlo nel passato, né tantomeno occuparsi di temi e problemi chiusi in un tempo che ormai non è più in maniera irrimediabile. Storicizzare significa semmai recuperare una visione in prospettiva dei fenomeni, ben sapendo che dove esiste il cambiamento esiste anche il tempo e dunque la storia, o, detto in maniera più semplice, rintracciare nel passato fenomeni ancora ben visibili oppure in corso nel presente in cui viviamo, senza proiettare le immagini del presente sul passato o l'inverso, ma contestualizzandoli dentro al loro tempo e al loro spazio. Da questa prima avvertenza ne discende la seconda, che vuole mettere in guardia dalla tentazione a sovrapporre in maniera semplicistica concetti, categorie e situazioni del presente sul passato. Concetti e categorie come quelle di precario, atipico, parasubordinato, per come li usiamo noi oggi, non possono essere trasportati su figure del passato così come sono. Occorre semmai ricercare qualcosa come delle corrispondenze o delle similitudini in quelle situazioni e posizioni del passato che possono rappresentare l'equivalente di altre nelle nostre epoche. Non a caso la comparazione si fa sempre per differenze, non per analogie. La terza avvertenza riguarda il tipo di lettura della storia qui proposta, che cerca di mettere in dubbio tutta una serie di assunti dati comunemente per scontati, ma fortemente messi in discussione dagli studiosi di scienze sociali e storiche che si occupano di questi temi, e che riguardano da una parte la linea dello sviluppo storico – che troviamo frequentemente letta come progressiva, eredità di lungo periodo del cosiddetto positivismo della cultura di matrice socialista – e dall'altra la visione di cosa sia il lavoro e di chi siano i lavoratori, di quali siano le forme di lavoro moderne e quali no, e di riflesso di cosa significhi l'essere sindacato, rispetto a chi e con quali forme di azione. Nella nostra cultura diffusa di norma ci riferiamo a questi fenomeni utilizzando le nostre conoscenze empiriche, derivate dalle epoche più recenti e vicine a noi, che irradiano una loro influenza e determinano lo sguardo che abbiamo, ma non sono né ovvie né univoche né inevitabili. Sono suggestioni che hanno preso corpo a partire dagli anni '70, e che più in generale riflettono l'immagine di uno sviluppo determinatosi dentro alla storia repubblicana e letto in maniera lineare. Ma la storia repubblicana fino agli anni '80 copre solo una delle tante, e lunghe, fasi del capitalismo. Dentro alla Repubblica ne è iniziata una nuova che ancora stentiamo a riconoscere come tale. Necessitiamo dunque di un processo di aggiustamento, di riconsiderazione, di superamento e abbattimento di resistenze culturali, segnatamente di culture sindacali radicate. Non vuol dire fare rinunce, questa è la leva che usa il paradigma ideologico neoliberista, che accusa di conservatorismo chiunque tenda a difendere diritti e tutele, ma semmai essere innovativi a nostra volta dentro al solco della nostra storia e delle nostre posizioni, viste con un'ottica di più largo respiro temporale e spaziale. Le innovazioni, in risposta al mutato assetto sociale ed economico ed alle trasformazioni produttive, hanno sempre caratterizzato le organizzazioni dei lavoratori, che si sono in più occasioni adattate plasticamente al contesto in cui erano situate. Oggi è di nuovo necessario percorrere tale strada, stando sulle spalle della lunga esperienza del passato, e farlo con un'adeguata visione prospettica delle trasformazioni economiche-sociali e del sindacato. Precarietà e flessibilità sono due termini che faticano a trovare uno statuto proprio ancora oggi, proprio perché descrivono situazioni e figure sfuggenti. Le lingue latine sono state le prime a introdurre il termine precarietà. In Italia è usato già dai primi '70, in particolare per parlare dei lavoratori delle piccole imprese marginali, mentre nel mondo anglosassone entra nell'uso corrente agli inizi di questo secolo. La precarietà non è una condizione di lavoro in senso stretto (muratore, operaio, insegnante, commesso...) ma definisce le condizioni oggettive in cui figure diverse si trovano a lavorare ed in cui si trovano i lavoratori. Dal punto di vista soggettivo va posta anche nella relazione che il lavoratore precario ha con i lavoratori stabili, relazione che oggi è senz'altro diversa da quella che poteva avere un bracciante alla fine dell'800. Con il termine precarietà noi oggi tendiamo a indicare un insieme di situazioni caratterizzate da una marcata mancanza di tutele e inquadramenti dentro un contesto di frammentazione normativa, nonché dalla scadenza predeterminata del rapporto di lavoro, a cui fanno seguito uno spiccato senso di insicurezza individuale e, spesso, un progressivo impoverimento. Mentre il termine flessibilità dovrebbe avere un connotato più
L’Arte del disegno a Palazzo Spada. L’Astrolabium Catoptrico Gnomonicum di Emmanuel Maignan., 2019
Tre per gli utili consigli nel dipanare incertezze nell'ambito astronomico. Ringrazio in particolare le persone che lavorano al mio fianco, nella ricerca e nella didattica, l'Arch. Matteo Flavio Mancini e la Dott.ssa Silvia Rinalduzzi. A p. 2: Modello digitale della volta con il quadrante dell'Astrolabium Catoptrico-Gnomonicum. Vista assonometrica. Galleria del piano nobile, Palazzo Spada. Roma.
2013
Noi siamo qui. Immerse nel discorso colonizzante della crisi, in quel gigantesco processo di ristrutturazione capitalistica che prende il nome di austerity, ossia un devastante esproprio dall'alto di democrazia e sovranità, di diritti e reddito. Viviamo in una generalizzata induzione disciplinante: induzione di senso di colpa attraverso l'ideologia del debito e induzione di solitudine attraverso l'ideologia della competizione. Viviamo quotidianamente un esproprio di autodeterminazione, individuale e collettiva, di slittamento della possibilità nella necessità, in uno scenario di diffusa miseria materiale e simbolica in cui, mentre esperiamo anche nelle vostre vite i prezzi che ci impongono di pagare in nome della crisi, mentre vediamo erodere progressivamente diritti e peggiorare le condizioni di vita di intere fasce di popolazione europea, perfino l'immaginario collettivo è colonizzato dalla dimensione della necessità. Dovremmo, dunque, fare sacrifici in omaggio alla religione del nostro tempo, il neoliberismo che pretende di sottrarsi alla storia. Come se all'origine della crisi non vi fosse anche il problema della distribuzione sperequata del reddito e del lavoro.
Il senso (del) comune. La radicalità del presente e il suo concetto, 2021
Una lettura di determinate tendenze sociali emerse negli ultimi anni a Palermo e della loro qualificante relazione con le principali esperienze politiche antagoniste che hanno innervato, all’interno di una rete comunque globale, anche il capoluogo siciliano, almeno sul piano dei linguaggi artistici e in generale della prassi comunicativa e della produzione cosiddetta immateriale.
una riflessione epistemologica che cerca di cogliere le sociali della precarietà, di individuare le molteplici esperienze dei soggetti che vivono in condizioni precarie
Street a Los Angeles, considerata il luogo di nascita del pentecostalismo. Il pentecostalismo o movimento pentecostale è un insieme di denominazioni e Chiese evangeliche del cristianesimo protestante, sviluppatosi nella seconda metà del XIX secolo; viene spesso indicato dagli studiosi di scienze delle religioni come una corrente interna al terzo protestantesimo, [1] sebbene altri sostengano che il pentecostalismo, insieme al movimento carismatico, [1] costituisca un quarto protestantesimo, [1] con caratteristiche proprie e diviso dal terzo. [1] Le origini del movimento pentecostale sono dibattute: [2] secondo gli studiosi, le quattro matrici che hanno portato alla sua nascita, e
I giovani salveranno l'Italia, 2018
Un inquadramento delle trasformazioni del mondo del lavoro alla luce della reazione neoliberista degli ultimi decenni che tenta di ricostruire anche una geografia delle figure subalterne del presente e fornire spunti per una possibile via d'uscita dalla precarietà nel segno dell'unità del lavoro
In ambito criminale la cosiddetta “tecnomediazione” (tecnologia che media una relazione tra autore di un crimine e vittima) entra in modo prepotente nel processo di pensiero criminale che affianca l'azione delittuosa. Se è vero che nel campo dellacomputer crime aziendale l'illecito può essere commesso da soggetti di diverso profilo di consapevolezza del crimine, quale è la situazione dell'amministrazione pubblica? In linea generale la Pubblica Amministrazione presenta ancora una limitata diffusione di cultura tecnologica. Un'ostilità che comprende anche la maggior parte dei pubblici funzionari a tutti i livelli. E' lecito ipotizzare che la situazione nella P.A. non sia del tutto dissimile da quella aziendale. Anche qui è possibile definire sulla scena delittuosa diverse tipologie di “criminali”, dal professionista del crimine al criminale di basso profilo. Si ritiene di dover però inserire anche la tipologia del “soggetto consapevole per utilità”(aware insider for utilities) che peraltro spesso opera con la complicità di una sorta di vittima della “tecnocostrizione”. Ciò che si vuol sostenere è che la tecnomediazione sussiste anche nell'attività ordinaria di un insider della P.A. e che, affiancata alla tecnocostrizione, crea uno stato di confusione inversamente proporzionale alla capacità organizzativa dell'amministrazione. In termini basilari, l'ufficio, la scrivania, la penna, i fascicoli e finanche l'assegnazione delle pratiche da svolgere sono sostituiti da una postazione con accesso alla versione digitale delle vecchie abitudini. La difficoltà non deve però essere considerata solo in termini di “astenia in ambito lavorativo”.
Il 6 e 7 dicembre 2012 si è svolto a Parigi il convegno internazionale "Avere il coraggio dell'incertezza: culture della precarietà", organizzato dai partner accademici di una rete internazionale di ricerca riunita, grazie a un sussidio della Netherlands Organisation for Scientific Research (NWO), intorno al tema 'Precarity and Postautonomia: The Global Heritage'. La collaborazione triennale aveva già alle spalle due tappe di convegni, il primo ad Amsterdam nel 2010 sul concetto di 'Post/autonomia', e il secondo a Chapel Hill (North Carolina, USA) sul concetto filosofico di 'Anomie of the Earth'. Mentre il primo si era concentrato in primo luogo sull'eredità del pensiero (post)operaista, il secondo aveva introdotto la prospettiva della decolonizzazione e le tensioni tra origini primitiviste e dialettica marxista. In ambedue i casi l'estetica della precarietà svolgeva un ruolo all'interno di filosofie sull'immaterialità del lavoro cognitivo. Il convegno ospitato dall'université Paris Ouest Nanterre La Défense e organizzato da Silvia Contarini (insieme alla sottoscritta) voleva invece mettere al centro dell'attenzione le 'culture' del precariato intendendo con esse sia le forme estetiche impiegate per formulare una risposta o anche un'alternativa alla precarietà economica ed esistenziale che riduce sempre di più gli spazi per l'autonomia individuale, sia le nuove forme di attivismo o di pensiero politico che si organizzano fuori dalle istituzioni, comprese le stesse università.
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