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Questo è il punto in cui sbagliamo. Noi presumiamo che sia nell'uomo soltanto quello che è sofferto, e che in noi è scontato. Aver fame. Questo diciamo che è nell'uomo. Aver freddo. E uscire dalla fame, lasciare indietro il freddo, respirare l'aria della terra, e averla, avere la terra, gli alberi, i fiumi, il grano, le città, vincere il lupo e guardare in faccia il mondo. Questo diciamo che è nell'uomo. Avere Iddio disperato dentro, in noi uno spettro, e un vestito appeso dietro la porta. Anche avere dentro Iddio felice. Essere uomo e donna. Essere madre e figli. Tutto questo lo sappiamo, e possiamo dire che è in noi. Ogni cosa che è piangere la sappiamo: diciamo che è in noi. Lo stesso ogni cosa che è ridere: diciamo che è in noi. E ogni cosa che è il furore, dopo il capo chino e il piangere. Diciamo che è il gigante che è in noi. Ma l'uomo può anche fare senza che vi sia nulla in lui, né patito, né scontato, né fame, né freddo, e noi diciamo che non è l'uomo. Noi lo vediamo. È lo stesso del lupo. Egli attacca e offende. E noi diciamo: questo non è l'uomo. Egli fa con freddezza come fa il lupo. Ma toglie questo che sia l'uomo? Noi non pensiamo che agli offesi. O uomini! O uomo! Appena vi sia l'offesa, subito noi siamo con chi è offeso, e diciamo che è l'uomo. Sangue? Ecco l'uomo. Lagrime? Ecco l'uomo. E chi ha offeso che cos'è? Mai pensiamo che anche lui sia l'uomo. Che cosa può essere d'altro? Davvero il lupo? Elio Vittorini, Uomini e no, CVII [1945]