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Postfazione a Mario Puccini, ‘Davanti a Trieste’, Prefazione di S. Ramat, a cura di T. Artico, Milano, Mursia, 2016, pp. 165-187.
Cessando a poco a poco anche la speranza d'un intervento subitaneo da parte dell'Italia, i triestini si son trovati di fronte a questa eventualità: ucci-dere in loro ogni cosa che fosse superiore alla macchina e ingranarsi nell'i-nesorabile destino; ma quanti di questi hanno avuto nel momento della partenza decisiva, vestiti dell'abito militare austriaco, un'ultima fiamma che rompeva dagli occhi e usciva rovente in queste parole represse agli ami-ci: pregate che ci annientino, per il vostro bene! e furono questi gli eroi pas-sivi che combatterono in ispirito a fianco dei russi e contribuirono alla lo-ro vittoria; altri triestini, più forti, si son ribellati a rinunciare alla loro in-dividualità attiva ed hanno disertato, alcuni per essere liberi di sé nel caso d'azione, altri per compiere l'ingrata missione dei fuorusciti ed altri infine per assimilarsi al regolare flusso della vita comune […] 1. Così si esprime Slataper, rivolto all'amico cui si era riavvicinato dopo la rottura del 1913, per descrivere una condizione condivisa da molte città italiane del Litorale austriaco, della Corona di Santo Ste-fano (Fiume), della Dalmazia (Zara in special modo), del Trentino. Se le parole dell'autore del Mio Carso rischiano di portarci fuori stra-da, relativamente agli «eroi passivi» che avrebbero accettato il marti-rio per non far vincere l'Austria (mentre oggi sappiamo che i giulia-ni del 97° reggimento imperial-regio si comportarono valorosamen-te contro i russi e perfino contro l'esercito sabaudo 2), viene perfetta-1 Lettera di Slataper a Prezzolini, Trieste, settembre 1914, in Carteggio Prezzolini-Slataper, cura di Anna Storti, Roma, Edizioni di storia e letteratura-Biblioteca cantona-le Lugano-Archivio Prezzolini, 2011, p. 278. 2 Cfr. Roberto Todero, Dalla Galizia all'Isonzo. Storia e storie dei soldati triesti-ni nella grande guerra: italiani, sloveni e croati del k.u.k I.R. Freiherr von Waldstätten nr.
Quando nasce l’italiano parlato, l’italiano comune standardizzato, una forma di comunicazione spicciola ed immediata, non letteraria, non dialettale, ad uso e consumo di tutti gli italiani? Un indubbio contributo al conseguimento, da parte degli italiani, di una forma di lingua più o meno unitaria, scritta ma che comunque risente fortemente dei retaggi del parlato, è costituito dalla Grande guerra del 1914-1918.
L'articolo affronta il tema della letteratura di guerra, con speciale attenzione all'opera di Raimondo Montecuccoli
Rappresentazioni della Grande Guerra: Atti delle Rencontres de l'Archet, 2015
qualcuno potrebbe anche definire il primo olocausto dei tempi moderni -un fertile passaggio conduce ad esplorare i riflessi che la guerra proiettò sul pensiero di alcuni grandi intellettuali di quell'epoca. In questo intervento ne incontreremo tre, tra i più influenti nel panorama offerto dalla cultura otto-novecentesca. Diversi, ma pur legati da qualche più o meno sotterraneo filo rosso, si tratta di Pareto, Croce, Gramsci. I primi due nacquero ben prima della svolta del secolo e il più anziano vide la luce quando, in coincidenza con l'esito più che sfortunato della prima guerra di indipendenza, l'unificazione sembrò rivelarsi un lontano miraggio. Croce, pur venendo al mondo quando il tricolore sventolava ormai su gran parte della penisola, si avviò alla sua lunga vita nell'anno orribile di Custoza e di Lissa, eventi che parvero confermare quanto poco potesse bastare un formale atto di indipendenza per sancire l'esistenza di un nuovo grande stato europeo. Gramsci, allo scoppio della Prima guerra mondiale si stava inoltrando in una tormentata gioventù, preludio a una vita vissuta da ultimo sotto il segno di una altissima tensione intellettuale ma anche di una impari lotta contro un avverso destino che lo aveva portato a doversi misurare con l'invincibile potenza del nemico dichiarato che lo aveva imprigionato condannandolo, di fatto, a morire in carcere. Ma come se questo non fosse un destino sufficientemente amaro, egli sarebbe venuto a maturare la convinzione di non essere solo stato abbandonato dai suoi ex compagni ma di avere subìto da questi una seconda "condanna" (sul tema si è sviluppato negli ultimi anni un teso confronto tra opposte interpretazioni). Gramsci, nel 1914 aveva ventitré anni essendo nato agli inizi dell'ultimo decennio dell'Ottocento. Tempo nel quale le cronache nazionali avrebbero dovuto registrare, in sequenza, una terribile sconfitta subita in terra d'Africa ad opera di una armata raccogliticcia, una strage di inermi popolani milanesi presi a cannonate per ordine di un generale piemontese, un tentativo di involuzione autoritaria che avrebbe potuto retrocedere il paese alla umiliante condizione di non troppo dissimile da quella di uno stato balcanico. Sullo sfondo, tuttavia, verso gli ultimi anni del secolo andarono anche prendendo consistenza i segni annunciatori del primo tempo di uno sviluppo economico industriale, il cosiddetto "take off". Acute differenze, inframmezzate da qualche convergenza potrebbero alternarsi nel tracciare il profilo biografico dei tre protagonisti del nostro incontro. Pareto veniva da una nobile famiglia ligure, status del quale, tuttavia, non unica bizzarria di quel singolare personaggio, si irritava non appena qualcuno glielo avesse ricordato. Croce, portava sulle spalle una ascendenza ibrida: per un verso era l'erede di una tradizione familiare che aveva dato allo stato borbonico vari funzionari di elevato grado; ma le sue più immediate parentele si erano segnalate, sia nel ramo materno che in quello paterno, per l'acquisizione di notevoli beni di fortuna, in particolare nelle Puglie, terra, peraltro, di spietati proprietari fondiari, fatto che lo rese inviso, venendone pienamente ricambiato, ad un'altra notevole personalità dell'Italia novecentesca, Gaetano Salvemini -e anche lui tra i protagonisti del contrastato rapporto tra la intellettualità italiana e la Prima guerra mondiale. Non solo diversa, ma addirittura opposta, era la condizione sociale di Antonio Gramsci. Veniva da un ceppo familiare costretto più volte a dolorose trasmigrazioni, concluse, da ultimo, nel radicamento al centro della Sardegna, cuore sperduto di una delle più arretrate e selvagge regioni italiane. Avrebbe infine conosciuto, ma nelle vesti di povero e affamato studente universitario, i fermenti sociali e culturali di una delle città italiane all'avanguardia dello sviluppo economico. * Le pagine che seguono riproducono con alterna fedeltà il mio intervento introduttivo al seminario del quale mantengono l'andamento discorsivo che giustifica l'assenza di note e la quasi totale mancanza di precisi riferimenti bibliografici. Si è tuttavia cercato di adottare una forma scrittoria che consenta di collocare cronologicamente i testi che vengono citati. rallièrent di lì a poco anche persone cui era legato da una stretta consuetudine, come Casati e Giovanni Laterza), il filosofo non poté trattenere un moto di disappunto; che visibilmente si accrebbe quando, pur scongiurando quei suoi amici di voler fare il favore di "quadrare" le loro periclitanti teste, il filosofo dovette arrendersi all'ineluttabile scivolare verso l'intervento in guerra e alzando gli occhi al cielo sibilò uno scorato "Che Dio ci assista". Croce, tuttavia, a cinque mesi dall'inizio della carneficina, non poteva non riconoscere, da buono storicista, che nelle cose della vicenda umana non vi è "una verità" e, conseguentemente, "tutti hanno ragione e tutti hanno torto". E sarà pure stato che queste iniezioni di relativismo egli le applicasse prevalentemente agli interventisti che in nome di presunti sacrosanti princìpi predicavano la guerra; ma in definitiva, quel Was ist Wahreit? gli sfrenati interventisti avrebbero potuto ritorcerlo contro di lui. Eppure lo storicismo crociano era allora un sole ancora splendente e le sue pagine non potevano non dischiudersi a quella visione grandiosa e terribile al medesimo tempo che alla guerra attribuiva una funzione pur sempre progressiva, giacché, come aveva scritto nel 1912, e il testo sarebbe stato ripubblicato proprio nel '15, «la vita è lotta, e lotta senza pietà, e la guerra è la sua legge, la storia è storia di guerra e non di pace». E quell'altra splendida ma non certo rassicurante immagine, con cui ritraeva gli stati nel sembiante di mostri dalle viscere di bronzo il cui compito è proprio quello di azzannarsi, per molti versi giustificava tutto negando alle idee di giustizia, di civiltà, di pacifica convivenza alcun valore dirimente (e a tutti coloro che, in nome dei principi umanitari, provavano a tirare il mantello della storia dal proprio lato Croce replicava gelido: "Belle parole, che i fatti smentiscono ogni istante"). Ma l'andare a morire in battaglia o il comandare l'annichilimento di ondate di combattenti o, per converso, affondare la baionetta nel corpo di un qualunque ignoto essere umano, erano atti estremi, che potevano essere compiuti solo ricorrendo proprio a quelle belle e ingannevoli parole che parlavano di suadenti valori patriottici, da un lato, e, dall'altro lato, di nemici infernali da respingere, distruggere e sconfiggere una volta per sempre. Una lotta mortale fatta di sangue e di fango veniva da Croce depurata dei suoi elementi sostanziali, trascinata come era nella dimensione diafana ed extratemporale dell'agire, alla stessa stregua in una o nell'opposta trincea, come "sacerdoti di una religiosa ecatombe" nella quale i combattenti più che protagonisti di un duello per la vita o per la morte erano attuatori di un disegno storico quasi divino. Il filosofo stesso, però, svelando angoli remoti del suo pensiero, sembrava avvertire come fosse poi difficile evitare più di una aporia, ovvero di finire o di qua o di là, ossia dal lato di chi si riempiva la bocca "di belle parole", fosse l'esaltazione della Kultur o, all'opposto, della Civilisation. Così, quando, ormai approssimandosi la fine dell'estenuante lotta, egli narrò dell'incontro con un popolano che lo interrogava sul perché del sacrificio di lui e di tantissimi altri, egli non riusciva a non appoggiarsi a una sorta di etica naturale, per non dire naturalistica, e il suo argomentare lasciava intravvedere un certo affanno rispondendo: «Figliuol mio, c'è la guerra, come c'è la siccità o la grandinata: che vuoi farci? Rasségnati, e, poiché non c'è altro da fare, pensa a tener bene in mano il fucile che vi è stato dato per difendere la patria, che siamo tu, io, e i tuoi e i miei figli». In questa tarda pagina sulla guerra, siamo ormai agli ultimi drammatici sussulti provocati dal disperato ma insidiosissimo sforzo compiuto dalla Germania a partire dal marzo del 1918, Croce si giustificava del suo dire avvertendo, sia pure sottovoce, che con quell'interlocutore non poteva abbandonarsi a complessi "problemi concettuali", ma, palesemente scusandosi, precisava: «Non gli ho, poi, 'detto il falso'». Croce lasciava così intendere come, in definitiva, la guerra potesse essere condotta solo rifugiandosi in motivazioni che altro non erano se non quelle dell'uomo qualunque, l'individuo preda di uno stato istintuale, per non dire vivente in uno stato di natura, quello degli uomini che lui come altri definiva ricorrendo alla sprezzante ma esatta formula oraziana: frugi consumere nati. In sostanza, il superamento, come aveva esortato a fare, dell'«elemento naturale della nazionalità» risultava ignoto e impraticabile al di fuori di una ristretta cerchia intellettuale nutrita da un forte orientamento ideale non disgiunto però da una visione realistica della realtà. I combattenti, invece, cioè i veri protagonisti e artefici della guerra, nel sopportare le sofferenze inenarrabili provocate ingegno, fosforo, cerebro, materia grigia: e ci vuol molto ordine e molta disciplina: due cose di cui fanno difetto gli alpini, che hanno tanti altri meriti (p. 537).
La guerra è presente nella poesia occidentale fin dalle sue origini, e i poeti che ne scrivono prima, durante e dopo la Grande Guerra ne sono perfettamente consapevoli.
Rubbettino e 12,00 Carlo Pisacane fu l'eroe romantico per eccellenza. Dopo una lunga serie di avventure tra l'Europa e l'Africa diventò un militante di primo piano della rivoluzione risorgimentale e poi per convinta scelta un martire del nazionalismo italiano. Filippo Pisacane fu un fedele sostenitore della dinastia borbonica, ma anche un leale amico della famiglia del re, disponibile a condividere con i reduci della vecchia patria napoletana, la resistenza all'Unificazione scegliendo prima il nostalgico esilio a Roma e poi il ritiro in Francia. I Pisacane, dunque, incarnarono scelte di campo opposte nella battaglia politica meridionale e italiana, senza rinunciare, però, a una profonda solidarietà familiare. I documenti presentati nel presente volume consentono di esplorare questo singolare sdoppiamento che nasce, cresce e si evolve in un frammento del lungo conflitto civile meridionale. La relazione tra i due propone allora una nuova prospettiva interpretativa che, sviluppando i caratteri privati delle biografie, è capace di spiegare in che modo le due ideologie in competizione nel Mezzogiorno preunitario potessero convivere, o di converso creare antagonismi e attivare opposte ambizioni, anche nel campo protetto degli affetti. Le sue linee di ricerca si concentrano sui conflitti civili mediterranei e latino americani nel XIX secolo, sulla guerra nell'Ottocento italiano e sui sistemi politici del XX secolo.
Il saggio è apparso in «Diciottesimo Secolo», anno I, 2016, pp. 169-191 ed è liberamente consultabile all'indirizzo http://www.fupress.net/index.php/ds/article/view/18692 Abstract The essay offers a survey of the wide poetry-production, written in Italy during the second half of the 18 th Century, and having as main topic events and protagonists of Seven Year War. The first part of the article describes the common features of those compositions – often anonymous poems with clear propagan-distic intents – and the way in which they circulated. The second part is focused on the more refined and restrained poems signed by well-known authors, who were invited and sometimes urged to write about the topic.
Per la realizzazione di questo volume si ringrazia: Mons.
Niccolò, ultimo rampollo dei Puccini della Genizia, nacque a Pistoia, nel palazzo di via del Can Bianco, il 10 giugno 1799 da Giuseppe Puccini e Maddalena Brunozzi. La sua famiglia aveva iniziato la propria ascesa sociale poco dopo la metà del Seicento, quando il bisnonno di Niccolò, Giuseppe di Onofrio Puccini, era divenuto medico alla corte del granduca di Toscana Ferdinando II, che lo aveva nominato, giovanissimo, professore di filosofia e medicina nell'ateneo pisano. Agli inizi del Settecento uno dei suoi numerosi figli, Tommaso, medico anch'egli alla corte del granduca Cosimo III, aveva cominciato a edificare nella campagna a nord di Pistoia la villa subito soprannominata "Villone" di Scornio, dalla località nel "comunello" di Burgianico dove i Puccini possedevano molti terreni con gli annessi fabbricati rurali. Quella villa, incompiuto alla morte del dottor Tommaso e per molti anni abbandonata, era destinata a diventare il fulcro della vita culturale e politica pistoiese dagli anni Venti dell'Ottocento fino alla morte del suo ultimo illustre proprietario, Niccolò Puccini, avvenuta il 13 febbraio 1852.
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MicroMega, 2022
Italia contemporanea, 2016
Ventura Edizioni, 2020
in L. Auteri, M. di Gesù, S. Tedesco (dir.), La cultura in guerra. Dibattiti, protagonisti, nazionalismi in Europa (1870-1922), Roma, Carocci editore, p. 165-177, 2015
Incroci, semestrale di letterature e altre scritture, 2023
ADI, atti del convegno di Pisa (12-14 settembre 2019), 2021
“Pesciolini di guerra”. Amministrazione e scandali nelle Terre Liberate e Redente tra guerra, dopoguerra e ricostruzione (1915-1922), in AA.VV., «Le “disfatte” di Caporetto. Soldati, civili, territori 1917-1919, 2019
NAM - Nuova Antologia Miliare , 2022
Agenzia Radicale, 14 luglio, 2014
Salerno Editrice, 2022
La fictio sul palcoscenico della storia. Fikcija na pozornici istorije, 2018
Satura, 27 (2014): 55-60, 2014