1994, Orpheus
Anche nel duro petto di un traduttore palpita alla fin fine un cuore di uomo (B. Terracini) Scriveva Wilamowitz, nel saggio che apre la sua traduzione dell'Ippolito euripideo, che la traduzione dei classici è un lavoro da filologi, ma non filologico: "Die Übersetzung eines griechisches Gedichtes ist etwas, was nur ein Philologe machen kann, ist aber doch nichts philologisches" 1 . Di fatto, fra lavoro filologico e traduzione esiste una frattura incolmabile: se compito del filologo è quello di restituire il testo di un'opera il più vicino possibile alle intenzioni dell'autore, al limite correggendo persino i lapsus calami che possono essergli sfuggiti nell'autografo, e di precisare il senso esatto che poteva avere, nel corso dell'atto creativo, ogni singolo elemento del testo, la traduzione, in quanto rielaborazione, e pertanto alterazione consapevole di un testo, con tutto quanto essa inevitabilmente contiene di approssimazione o addirittura di tradimento, si pone come esatta antitesi del lavoro filologico. La filologia richiede un atteggiamento di rigore e di impersonale freddezza di fronte all'opera da esaminare, la traduzione non può fare a meno di una piena sintonia col testo e con l'autore, che facilmente trapassa nell'ἐνθουσιασµός. E tuttavia, ci dice ancora il Wilamowitz, l'attività del traduttore comporta come necessaria premessa il lavoro del filologo: non si può tradurre ciò che non si è capito, e i differenti livelli di comprensione filologica del testo, l'arricchirsi di conoscenze che un lavoro sempre più in profondità sui testi compie, obbligano, insieme con l'evolversi della lingua e col mutamento dei gusti letterari, a continue revisioni delle traduzioni precedenti. Il lavoro filologico si pone come obiettivo ideale una definitività: il momento finale del lavoro filologico può dirsi raggiunto, quando si è compiuta un'analisi talmente fine e totale di un testo, da non lasciare più in ombra nessun particolare di esso, neppure il più minuto e apparentemente insignificante, e da non essere necessarie ulteriori indagini, in quanto su di esso ormai tutto stato chiarito: la traduzione consapevole del proprio carattere perennemente inadeguato, per il mutare di quei punti di riferimento culturali, letterari e linguistici che la rendono, pur nella sua approssimazione, accettabile, perché, come notava Terracini in un acutissimo studio sul problema della traduzione, la traduzione è forse il genere letterario che più limpidamente riflette la storia del gusto e della cultura 2 . Caratteristica del classico è quella di sapersi adattare ad ogni epoca e ad ogni moda: mutano i gusti, ma il classico, in una immobilità che è soltanto apparente, sa adattarsi al veloce 1 Euripides. Hippolytos, Berlin 1891, p. 1 = Reden und Vortrge, I, Berlin 1925, p. 1. 2 B. Terracini, Il problema della traduzione, ed. a cura di B. Mortara Garavelli, Milano 1983 (ristampa di un saggio compreso nel vol. Conflitti di lingue e di cultura, Venezia 1957, a sua volta rielaborazione di Conflictos de lenguas y de cultura, Im n, Buenos Aires 1951). Commenta il Pretagostini: "(le traduzioni) di Romagnoli e di Pascoli, essendo dal punto di vista ritmico un calco dell'originale, sono le uniche in grado di farci risentire l'andamento ritmico della strofa saffica. In altri termini, se vero che la metrica è un significante che accresce il significato, le traduzioni di Romagnoli e di Pascoli sono le uniche a non depauperarci di questo elemento essenziale" 8 . E' a partire da questo giudizio che vorremmo avviare una breve riflessione sulla traducibilità dei classici e sulla possibilit e i limiti delle versioni filologiche. Che la metrica sia un significante che accresce i significati è indubbio: ma è altrettanto innegabile che essa sia arbitraria come tutti i significanti. Come una 6 Vol. cit., pp. 57-70. 7 Sul rinnovamento della metrica italiana fra l'ultimo scorcio del XIX secolo e l'inizio del XX si veda, oltre ai testi richiamati dal Pretagostini, G. Contini, Innovazioni metriche italiane fra Otto e Novecento in Varianti e altra linguistica, Torino, 1979, pp. 587-600. 8 Art. cit., p. 64.