L'ultimo ciclo di seminari dal titolo "Apocalissi culturali" è stato un vero e proprio canto a due voci la cui melodia ha suonato il ritmo della crisi che investe il nostro mondo più prossimo: quello fatto di persone, cose e corpi, in mezzo ai quali siamo gettati nella misura in cui esistiamo e al quale tuttavia possiamo in ogni momento smettere di sentirci legati. Le due autorevoli voci di Roberto Esposito e Paolo Virno, pur intonando note diverse, hanno infatti (e)seguito uno stesso spartito: quello su cui è scritta la crisi che travolge il soggetto. E se il motivo della prima strofa ci ha messo in guardia rispetto all'uso di alcune nozioni centrali della tradizione filosofica occidentale (quelle di persona, cosa, corpo), evidenziando al contempo la crisi in cui versa il soggetto che interroga e che attraverso i concetti dà forma al mondo, la seconda ha messo a tema, in un denso crescendo, l'intero movimento dell'antropogenesi e lo stato d'eccezione cui approda ogni volta, da sempre e di nuovo, il vivente umano, facendo così luce sulle circostanze in cui, a entrare in crisi, è la stessa presenza dell'antropos, il Dasein. Due voci e due strofe ma essenzialmente un unico ritornello che ha sollevato la domesticità del mondo dell'animale umano dai suoi riferimenti abituali, per un verso problematizzando l'uso delle categorie con le quali lo si descrive e, per l'altro, facendo vacillare le stesse condizioni di possibilità dell'esperienza che se ne fa. In un primo tempo a essere sospese una ad una sono state le nostre coordinate cognitivoesperienziali per arrivare, dopo qualche giro, a far impazzire la stessa rosa dei venti che ci guida e orienta. Noi, animali rituali la cui infanzia è cronica ed esiziale. Se infatti, l'intervento di Roberto Esposito ha individuato i limiti delle principali categorie con cui rappresentiamo la nostra presenza (persone, cose e corpi), Paolo Virno, radicalizzando uno stesso movimento, ha messo in questione qualcosa che, perlomeno stando alla tradizione filosofica moderna che da Cartesio giunge sino a Kant, è stato stimato indiscutibile: l'unità dell'Io, la condizione trascendentale del nostro esperire. Come voci di uno stesso coro, entrambi hanno in questo modo gettato le basi per un pensiero radicale della crisi e dell'antropos, ossia per una teoria della soggettività e del legame sociale che s'impegni a fare i conti con l'ambivalenza che marca stretta ogni fenomeno e pratica umana.