Post (it), postfazione a Marco Giovenale, Quasi tutti, Roma, Polimata, 2010, pp. 119-130
Questo nuovo libro di Marco Giovenale porta una ventata nel panorama della scrittura in italiano. Non una ventata d'aria fresca (fresco è l'attributo preferito della critica che risponde agli ordini del tardo capitalismo), magari una ventata d'aria calda, o forse piuttosto decisamente fredda. Fredda come l'asetticità dell'operazione chirurgica condotta su corpi-cadaveri testuali smembrati, o calda come la caotica polifonia del discorso della rete, come viene non rappresentato né esemplato, ma diremmo piuttosto estratto dall'autore. Fa un po' specie presentare così una scrittura che si rifiuta così recisamente alla figuralità, allo stile, alla funzione poetica del linguaggio. Ma è solo per dire che, auspice questo vento d'altrove, Quasi tutti si inscrive in una tendenza che ha già interessato il clima della scrittura in lingua inglese e in misura minore francese, ma pochissimo quella in lingua italiana, se si eccettua il gruppo di autori raccolto nell'antologia Prosa in prosa (Firenze, Le Lettere, 2009). Questa tendenza può raccogliere insieme l'uso post-avant di tecniche varie di cut up, la language poetry americana, il concettualismo, la flarf poetry, il googlism, la minimalist concrete poetry, come anche la ricerca di littéralité di Jean-Marie Gleize (intesa soprattutto come assenza di traslato e evidenza tipografica), il quale ha dato vita alla formula (prose en prose) con cui anche questa opera si definisce attraverso il suo sottotitolo. Che cosa tiene insieme queste esperienze, in parte anche eterogenee tra di loro? Certamente la totale rinuncia al lirismo, e più generalmente alla soggettività da una parte (il che significa farla nettamente finita con la tradizione poetica dominante), ma anche il rifiuto della metatestualità e della riflessione metalinguistica dall'altra (il che rappresenta invece un forte spartiacque con la tradizione delle avanguardie, dal postromanticismo a Tel quel). È evidente che il grande problema novecentesco -e delle avanguardie novecentesche in particolare -del difficile rapporto tra parole e cose, insomma dell'inefficacia del linguaggio a rappresentare il mondo, non viene più tematizzato come nucleo centrale della ricerca di scrittura stessa, e come oggetto di rappresentazione euforica o disforica dell'irrappresentabilità, e nemmeno -si capisce -aggirato come nel riflusso di forme tradizionali o in certo postmodernismo, ma è semmai materiale di una presentazione, di un'esecuzione, di qualcosa come un'installazione.