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Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia, a cura di F. Cammarano, Le Monnier 2015
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Questo non è un libro sull'Italia alla vigilia della Prima guerra mondiale, ma un'indagine su cosa la gente comune ha fatto per rimanerne fuori. Attraverso le vicende, spesso violente, occorse dall'agosto 1914 al maggio 1915 in oltre cinquanta città e in molte decine di paesi, si è, per la prima volta, portato alla luce la prassi del neutralismo in Italia, vale a dire l'altra faccia di quella strisciante guerra civile che di solito vede come protagonista l'interventismo. Emerge dal viaggio nelle piazze neutraliste una realtà a geometria variabile, per tempi, modi e caratteristiche sociali, ma sempre espressione di una più o meno ribelle o rassegnata «eccedenza» rispetto alla grande politica. Nei mesi in cui si gioca il destino del Paese, il neutralismo fa emergere un disagio che è un intellegibile, per quanto scomposto, segnale di dolente dissociazione popolare (l'affollata ritualità religiosa pro pace, la rilevante presenza pubblica delle donne, la vivace partecipazione dei soldati, l'incremento di azioni attribuite alla «teppa»). Che il segnale non abbia trovato una adeguata sintesi politica a livello nazionale nulla toglie alla forza, anche disperata, di quel movimento a cui, a cent'anni dagli avvenimenti, va restituito il giusto posto nella storia d'Italia.
Il testo è una piècce teatrale pensata per l'ultimo anno delle scuole secondarie inferiori. Gli alunni delle classi terze possono affrontare il periodo complesso del Risorgimento attraverso i dialoghi dei personaggi che affollano un'osteria di provincia, personaggi che rispecchiano i sentimenti dei vari attori chiamati in causa in quegli anni.
Treviso and the Anatolian town-name KUR URU Ta-ru-ú-i-Ea, formerly purported = Troy). T0ru3s<s f. = Ta-ru(-ú)-i-9a < *Tkhd-nm5hes-8-s 'erosive girdle'; in addition, Celtic/Venetic etymologies for -àgo/-a and -ìgo/-a-place-/river names between Piave and Venice, for Biàdene,
B. Azzaro, G. Coccioli, Daniela Gallavotti Cavallero, A. Roca de Amicis (a cura di), Atlante del barocco in Italia. Lazio 2. Province di Frosinone, Latina, Rieti e Viterbo, Roma 2014, pp. 205-221, 2014
«Dizionario Biografico degli Italiani», Istituto della Enciclopedia italiana, vol. XCIX , 2020
A differenza del fratello maggiore Carlo Alberto, in seguito presidente della Federazione sionistica italiana, Dario mantenne un atteggiamento distaccato rispetto alla propria cultura familiare e alla religione ebraica. A quattordici anni rivelò invece un talento artistico fuori dal comune, dando prova di saper ricopiare con estrema precisione un ritratto di mano di Élisabeth Vigée Lebrun (Viterbo, 1981, pp. 10, 12). Per volontà del padre s'iscrisse al liceo classico Michelangiolo di Firenze, dove conseguì la maturità nel 1909. Soltanto l'anno successivo inseguì la propria reale vocazione al Regio istituto di belle arti del capoluogo toscano. Lo finì in soli due anni, ottenendo il diploma del corso speciale di figura già nel 1912. Artista a tutto tondo, sin dal periodo liceale si dedicò anche allo studio del pianoforte, facendo la conoscenza di personalità come il compositore Mario Castelnuovo-Tedesco. Nel vivace clima secessionista della Firenze di primo Novecento trovò stimoli nei ritratti pittorici di Giovanni Papini, sui quali si esercitò in una serie di disegni del 1913 (Toti, 2019, p. 19). Nel giro di pochi anni, però, comprese di volersi dedicare soprattutto alla scultura: andò quindi a imparare i primi rudimenti del mestiere nello studio di Augusto Rivalta, scultore d'impostazione realistica allora in voga sulla scena fiorentina. Sin da subito sperimentò materiali e tecniche diverse, affinando in particolare una lavorazione finissima del marmo. Distaccatosi presto dagli insegnamenti del maestro di origine piemontese, ricercò altrove spunti per il proprio lavoro. Alla mostra romana Amatori e cultori di belle arti (1915) si ravvisarono i primi sintomi di una rilettura personale della plastica di Medardo Rosso, in opere come la bronzea Maschera che ride e la Bimba in cera, dai contorni delicatamente smussati e dalla vibrante resa delle superfici. Nello stesso anno venne chiamato alle armi per combattere nella Grande Guerra in seno al reggimento Cavalleggeri, prima di Alessandria, poi di Saluzzo e infine di Treviso, dove raggiunse il grado di tenente mitragliere di cavalleria. Durante un congedo a Milano, conobbe per la prima volta Ada Vera Bernstein, sua cugina di secondo grado allora tredicenne, e in seguito modista di successo. Tra i due nacque una profonda amicizia, mantenuta viva negli anni seguenti grazie a un fitto scambio epistolare. Nel 1919 Viterbo fece ritorno a Firenze, dove riprese la propria attività artistica, non immemore dell'esperienza bellica (di cui rimane traccia nel Ragazzo prigioniero, 1920, in legno di fico patinato). Iniziò in questo periodo a intessere rapporti col pittore Giovanni Costetti, che divenne per lui una guida spirituale, incitandolo a coltivare l'arte come «armonia emotiva» (Costetti, 1924, p. 113). Sotto il suo influsso Viterbo si avvicinò all'universo delle moderne danze non accademiche, cui rese omaggio raffigurando in pose nervose e scattanti ballerine come Anna Pavlova, nella bronzea Danza del 1914, e Isadora Duncan, nell'omonimo legno di fico del 1920 (A passi di danza, 2019). Non trascurò però nemmeno la parallela attività di orefice, che inizialmente incontrò soprattutto il gusto di esponenti della ricca borghesia milanese, come l'elegante dama di mondo Jenny Mazloum Barmé (Mannini, 2019). Al contempo fu impegnato in progetti per tombe e cappelle di famiglia all'interno del cimitero ebraico di via di Caciolle a Firenze. Lavori come la tomba dei coniugi Padova Levi (1922) o la cappella Coen (1926-1928) costituirono esercitazioni originali, in bassissimo rilievo, sull'aniconismo ebraico (Francalanci, 2018, pp. 75-84). Nel 1922 ebbero luogo le prime importanti occasioni espositive di Viterbo, nelle quali presentò una vasta selezione di opere di scultura, oreficeria e grafica. Da aprile a luglio la Primaverile fiorentina mise per la prima volta in luce l'ampiezza della sua cultura visiva, che spaziava dal Quattrocento toscano alla scultura luministica di Auguste Rodin e di Rosso, con una padronanza non comune di diverse materie scultoree (dal legno Finale di danza tragica ai due marmi Riposo tragico e l'Anima tra le dita, fino alle due cere Sorriso e Ritratto di signora). In autunno la
Seconda parte Il nome di Tiberio Claudio Quinziano, oltre che nell'epigrafe di cui si è parlato nella prima parte, ricorreva, come già anticipato, in un altro epitaffio, con dedica da parte del figlio omonimo. Esso era scolpito su un grosso sasso "di figura piano-convessa con quadretto in mezzo" che giaceva in una località denominata "Polignano" o anche "Piscone" (1) , attualmente in agro di Scampitella. La scritta fu segnalata dal dotto canonico Andrea Calabrese all'Istituto di Mommsen nel 1877, in forma alquanto diversa (2) da quella poi emendata, ma di quel monolito, purtroppo, non vi è oggi più alcuna traccia, per cui il nostro assunto ha come unico supporto uno scritto apografo comunque attendibile. In conformità con quanto è debitamente documentato in CIL IX 6289, sarebbero stati riportati i nominativi di due omonimi Quinziano, padre e figlio. Questo sarebbe stato il contenuto dell'iscrizione: D M tI · ClAVDIVS qVINTIANVs PAtRI · SVO · TI ClAVDIO · qVi NtIANO · B · M · F La ricognizione operata da Mommsen, o dai suoi collaboratori, con le opportune mende, ci ha restituito il testo in una forma che si avvicina di molto a quello che doveva essere l'originale. In questa seconda epigrafe è il figlio Ti(berio) Claudio Quinziano artefice della dedica al genitore defunto. Credo non vi sia dubbio di sorta circa l'identificazione di Quinziano padre con il personaggio citato nell'epigrafe fatta incidere da Rubria Resillia. Ovviamente, resta l'irresolubile interrogativo sul motivo per cui ben due lapidi sarebbero state dedicate al medesimo individuo. Si può solo supporre che Tiberio Claudio Quinziano padre possa essere stato un personaggio eminente e che, quindi, il figlio abbia voluto rendere omaggio alla sua memoria per perpetuarne indefinitamente il ricordo. Se l'intento era tale, bisogna riconoscere che l'obiettivo è stato conseguito e quanto meno i nomi di quei personaggi sono stati sottratti all'oblio se, ancora oggi, dopo quasi duemila anni, sono oggetto del nostro interesse. Un'altra plausibile congettura si può formulare in relazione alla forma di questa seconda lapide, che, probabilmente, poteva essere una colonna eretta, per attirare l'attenzione del viandante, e non un semplice segnacolo adagiato sul terreno. In alcuni luoghi del "Corpus Inscriptionum Latinarum" si parla espressamente di "forma columnae", come ci è dato constatare anche da immagini relative alla tipologia di tali manufatti. La dimensione stessa della pietra ("lapis ingens") potrebbe supportare l'ipotesi che Claudio Quinziano fosse un notabile di un certo rango sociale. E di certo egli apparteneva a una delle più illustri e nobili prosapie di Roma, sia dell'epoca repubblicana che imperiale. La gens Claudia, di remota origine sabina, si sarebbe stanziata già in epoca arcaica, secondo Mommsen, nei pressi dell'Aniene. E solo nei primordi della Repubblica Romana sarebbe approdata a Roma con tutto il seguito dei "clientes", essendo subito accolta nel contesto della classe magnatizia e divenendo, in breve, una delle famiglie più in vista della "Città Eterna". I suoi membri, nel corso dei secoli, ricoprirono spesse volte le più alte magistrature, per poi dare origine alla dinastia imperiale conosciuta storicamente come "Giulio-Claudia". La presenza dei Claudii è documentata, per la massima parte, in numerose città ed in municipi della prima regione augustea, soprattutto nel territorio di Roma e della Campania, ma non mancano le attestazioni di cospicui insediamenti anche nei territori finitimi ed in quelli della seconda regione. In territori a noi prossimi, componenti della "gens Claudia" sono attestati a "Flumari in doana", o a "Gruttis Minardae ante aedes praetoris". Infatti, una lapide , rinvenuta in una o altra di quelle due località, riportava il nome di Ti. Claudio Novembre, con dedica dell'epitaffio alla memoria del figlio benemerito Ti. Claudio Massimo, il quale, a soli ventisette anni, era già stato duumviro, edile e questore. Sempre a Flumeri, a un certo Ti. Claudio, magistrato municipale, che aveva seguito tutto il "cursus honorum", è ascritto il merito di aver ripristinato, previo consenso dello stesso imperatore, la transitabilità della strada che conduceva in Apulia, per una lunghezza di duemila passi, rendendo, in tal modo, più agevole il cammino ai viandanti che si recavano in quella regione (4) . Si deve presumere che la via di cui si parla debba essere l'Appia o, in alternativa, la Traiana, ipotesi meno plausibile, in quanto era stata fatta costruire da poco dall'imperatore da cui poi trasse la denominazione. Invece, sappiamo da altre fonti, proprio l'antica "regina viarum", ridotta in pessime condizioni, abbisognava di urgenti lavori di riparazione, per cui è legittimo ritenere che la via menzionata nella lapide, peraltro mutila, si riferisca proprio ad essa. Inoltre, la citazione dell'imperatore in carica, nella persona di Cesare Traiano Adriano Augusto, ci consente di datare quei lavori di rifacimento tra gli anni 117 e 138, che rappresentano i limiti cronologici del regno di Adriano. Il fatto, poi, che la lapide in oggetto sia stata conservata "in castro Flumari in ecclesia S. Mariae", autorizza a ritenere che essa fosse stata ritrovata proprio nel territorio di quel municipio che rappresentava, a quell'epoca, uno snodo viario cruciale per gli spostamenti delle persone, delle merci e degli eserciti da Roma verso la Puglia. Del resto, il grosso insediamento urbano emerso in località Fioccaglie, a valle dell'abitato, su una collina posta in posizione strategica nel punto di biforcazione delle valli dell'Ufita e della Fiumarella, conferma una tale ipotesi. Su una lapide, probabilmente rinvenuta "in agro Mirabellano, inde traslata Abellinum in tribunale", Betizio Rufino esprime il proprio acerbo cordoglio per la scomparsa della figlia, appena sedicenne, Betizia Quintiliana o Quinziana, in una con il genero Claudio Giustino (5) . Una lapide ritrovata "in criptis Aeclanensibus" nel 1824, e successivamente trasferita ad Avellino, per poi far perdere le proprie tracce, ci rende edotti di un eminente personaggio di quel municipio di nome Tiberio Claudio figlio di Tiberio (6) . A Luogosano, che un tempo faceva parte della diocesi frigentina, su una lapide (7) scoperta presso la torre campanaria e mutila nella parte superiore e inferiore, nonché sul margine destro, è attestato il nome di Claudio Dulcizio Primo, vissuto, forse, solo un anno, senza ulteriori specificazioni. A Sant'Eleuterio, contrada di Ariano, è attestato un Claudio Liberale, evocato, che curò l'edificazione di un monumento funebre in onore del fratello Marco Aurelio Muciano, che aveva militato per sedici anni nella coorte pretoria denominata "Aquila" (8) . A Benevento, Claudio Fortunaziano ricorda, su una "columna formae lucanae" (9) , la figlioletta Claudia Capreola. E nella medesima città, sotto il palazzo dell'arcivescovo, su una lapide (10) , fatta collocare appositamente per ordine delle autorità municipali, si rammentano le benemerenze di Claudio Giulio Pacato, come patrono della città e giudice equanime. Poco oltre, nella valle Caudina, a Montesarchio, una pietra tombale, che si trovava "nel convento di San Francesco nel secondo scalino dell'altare maggiore" (11) , ci reca memoria di Ti. Claudio Restituto, della consorte Claudia Tertulla e del figlio Claudio Felice, che, con altri parenti, condividono il monumento funebre. Nella parte opposta di quella medesima regione, a Venosa, Claudio Firmino dedica un epitaffio alla memoria del padre Ti. Claudio Massimo (12) appartenente alla tribù Orazia. A Canosa è documentata una cospicua presenza di individui appartenenti alla "gens Claudia", che approdarono in quel municipio forse già in tarda età repubblicana o, comunque, in età imperiale, durante la quale risultano ben rappresentati anche nel ceto magnatizio. Nel contesto di una intera famiglia di liberti, si ha notizia di un Ti. Claudio Primigenio, al quale è destinato il monumento funebre fatto predisporre da P. Bebio , oltre agli altri numerosi componenti della stirpe. Su una pietra, ritrovata presso l'Ofanto nel 1866, è inciso il nome di Claudio Trasone Sintinche, senza ulteriori notizie sui committenti . Tuttavia, il reperto di gran lunga più interessante è la tavola bronzea ritrovata nel 1675, tra i ruderi dell'antica Canosa, da alcuni villici, mentre vi stavano effettuando dei lavori di scavo. Essa riporta i nominativi di ben cento decurioni di quel municipio. Dopo varie peregrinazioni, il reperto pervenne a Venezia e di lì a Firenze, ove trovò infine una degna sistemazione nel Museo Mediceo . La disposizione dei nomi dei magistrati segue il criterio dell'anzianità della carica ricoperta . Inoltre, la lista comprende anche ex magistrati "honore functo", e quindi essa ha una estensione temporale, anteriore alla compilazione, che va dai trenta ai venticinque anni . Tra i vari decurioni, vi sono nominati diversi cittadini appartenenti alla "gens Claudia" e alcuni di essi sono citati tra le magistrature più importanti e prestigiose. Il patronus Ti(berius) Claudius Iulianus sicuramente appartenne alla élite municipale di Canosa, figurando al primo posto nella colonna dei patroni di rango senatorio . La designazione dei patroni avveniva di frequente tra i personaggi che, avendo tenimenti cospicui nelle varie regioni , erano cooptati come patroni di quei territori , potendo, con il loro prestigio e la loro influenza, tutelare efficacemente gli interessi delle popolazioni presso i centri di potere della capitale dell'Impero. Rispetto alle origini, il patrono, in genere, era prescelto tra i concittadini autoctoni o residenti temporaneamente nel municipio. Ma poteva anche essere originario di una città viciniore o del tutto estraneo al contesto municipale, il che avveniva solo in casi eccezionali . Si dava il caso, poi, che due o anche più municipi avessero un medesimo patrono. Un Ti(berius) Claudius Onesimianus figura tra i "duoviralicii" , magistratura che...
Presentazione di BIANCA CAPPELLO: DALLA DAMNATIO MEMORIAE ALLA VERITA', Linea Edizioni 2020
Destra Piave tra civili e militari nel dopo Caporetto. L'operato di Pietro Bertolini nell'alto trevigiano non invaso. Il contributo intende porre al centro la terra sconvolta dalla guerra, non la terra del campo di battaglia, ma la terra dei civili. Dietro il fronte del Piave si svolge una contesa tra opposte e complementari ragioni, reciprocamente necessarie. Campo di analisi la città e il territorio lar-go di Montebelluna, posta nell'immediata retrovia e a tre chilometri dal Piave. La posta in gio-co è la seguente: sgombrare Montebelluna e conseguentemente Castelfranco e l'intera provin-cia non invasa, o mantenere in loco la popolazione rurale per garantire quanto più possibile l'attività agricola e zootecnica? I dubbi sulla decisione da prendere si imperniano attorno ad uno scontro evidente tra le esigenze dell'esercito e quelle di parte del governo, nella convin-zione che la resistenza sul Piave fosse anche legata al mantenimento e alla resistenza di uno spirito pubblico e civile. L'arrivo della guerra sul Piave è un grande capitolo di storia militare, ma al tempo stesso so-ciale perché taglia in due un'intera provincia e proietta le popolazioni al di qua e al di là del fiume in una dimensione del tutto nuova e drammatica. La parte occupata fa esperienza della politica di occupazione di un esercito straniero; l'altra quella di territorio a disposizione dell'esercito. Le pagine che seguono cercano di delineare cosa accadde al di là della sponda rimasta italiana, quella a completa disposizione dell'esercito. La ragione è evidente. Se la sponda sinistra e il territorio occupato godono ormai di ampia e consolidata bibliografia pro-dotta dall'evidente interesse per le politiche di occupazione con il loro corredo di difficili ge-stioni, soprusi, violenze e fame, altrettanto non può dirsi, se non altro in termini storiografici,
Bibliografia Topografica della Colonizzazione Greca in Italia e nelle isole Tirreniche, vol. XXI, Pisa-Roma-Napoli 2012
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Greci e Veneti: sulle tracce di una vicenda comune. Atti del convegno internazionale, 2006
Storia dell'architettura nel Veneto, il Settecento, a cura di Elisabeth Kieven e Susanna Pasquali, Marsilio, Venezia, 2012
Piano di comunicazione per la città di Sorso. Restituire valore al patrimonio archeologico della città., 2021
Gli Statuti del Comune di Treviso (1316-1390) secondo il codice di Asolo, 1988