2001, DeriveApprodi
Fare inchiesta sul precariato metropolitano 1. Il lavoro che non c'è 2. Il lavoro che c'è 3. La flessibilità dei servizi 4. Precari, socievoli e intelligenti 5. Tempo di non lavoro 6. Consumo produttivo 7. Decomposizione del Welfare state 8. Inclusione ed esclusione 9. Le fisionomie del precario 10. Biopolitica del precariato Reddito di cittadinanza, se non ora quando? Non vedi dunque ora che, sebbene una forza esterna spesso costringa a procedere molti uomini che riluttano a essere precipitosamente trascinati, tuttavia c'è nel nostro petto qualcosa che può ribellarsi e opporre resistenza? Fare inchiesta sul precariato metropolitano Uno spettro si aggira per il globo, lo spettro del precariato. E spettro lo è davvero, perché sembra che nessuno possa o voglia raccontarne la fisionomia. Forse perché l'ectoplasma sfuma nell'indistinzione di una presenza/assenza o perché, immagine di un rimosso, mette inquietudine. Qui vogliamo provare un'operazione in controtendenza, vogliamo raccontare il precariato. Raccontare i precari. Un racconto per narrare una massa composita e diversificata, molti racconti per dire una medesima condizione. Un solo soggetto, una condizione comune, nonostante le forme della precarietà siano molte e diverse tra loro. In effetti, guardando le biografie dei precari, con difficoltà sembra trovarvisi una qualche linearità. Esse spesso sono il risultato di eventi di lavoro e di vita che in apparenza non hanno alcuna relazione causale e necessaria tra loro. D'altro canto, questa è la precarietà. La precarizzazione è indeterminatezza e oscillazione, un'esperienza di disorientamento e di perdita della continuità. Raccontare i precari vuol dire questo, raccontare concretamente questa esperienza di variabilità e d'incertezza. Come fare, però, se i percorsi biografici sono così singolarizzati? Questo carattere "singolare" dell'esperienza è già un primo elemento comune ai precari, comune è questo sentirsi singolarità, questo viversi esperienze non immediatamente generalizzabili. I precari sono questo: una quantità di singolarità e di differenze. In genere si ritiene che ciò che rende interessanti le biografie sia la loro singolarità, il loro costituire dei casi in qualche modo unici. Un'esperienza di vita raccolta in una biografia è importante se è particolare, solo così è considerata abbastanza importante da meritare di essere raccontata. Ma non è proprio di fronte a questa estrema singolarità dei soggetti della precarietà, di fronte alla loro eterogeneità e variabilità, che si è persa ogni possibile continuità, quella continuità che fortifica e dà senso alla costruzione di un racconto collettivo? Non si rende impossibile il racconto come esperienza collettiva al di là del caso particolare? Quel tratto comune, la singolarità dell'esperienza, non resta una potenza incapace di raccontarsi? Non sembra essersi perso proprio il carattere "esemplare" che rende decisiva e, in un certo senso, necessaria la narrazione? Questo vuol dire, sinteticamente, che raccontando il lavoro precario è facile portare esempi, descrivere lavori atipici e flessibili, ma i casi presi singolarmente non sembrano mai così "esemplari" da giustificarne la narrazione, sempre troppo singolari, sempre troppo "casi a sé". L'articolazione flessibile del lavoro sociale sembra aver fatto perdere quell'unità minima, comune, necessaria, affinché le esperienze siano "esemplari". Il comune tra i precari sembra determinarsi qui solo negativamente, come mancanza, mancanza di un senso comune dell'esperienza di vita, mancanza di un qualcosa che appartiene a molti, che accomuna una massa variegata. Un tratto comune ai precari, si è detto, è soprattutto la condizione di oscillazione e d'instabilità, e questo è una traccia che nell'attività d'inchiesta va davvero seguito come il filo di Arianna. Ma anche qui ci si chiede se questo comune senso d'instabilità, questa esperienza di precarietà, non resta qualcosa che è comune, che esiste, ma che non può trovare le parole, anch'esse necessariamente comuni, per raccontarsi. Dove trovare un'esemplarità in grado di raccontare i molti volti del lavoro precario? Dove cercare una singolarità generica, esemplare, una singolarità che possa esprimere queste condizioni generali e comuni? Per trovare questo tipo di generalità è necessario inquadrare la questione del precariato dentro le modificazioni strutturali dei processi produttivi, una base oggettivamente comune sulla quale ogni singolarità, ogni fenomenologia del lavoro, realmente riposa. Il fenomeno della precarietà non può essere separato dai processi di ristrutturazione della produzione che caratterizzano il postfordismo. È necessario comprendere le ragioni della condizione precaria dentro le modificazioni dei rapporti di produzione e per far questo è indispensabile una bussola per orientarsi nel mare del lavoro sociale e delle sue trasformazioni, un approccio genealogico alla metamorfosi del lavoro. Bisogna costruire degli strumenti di navigazione, dei concetti che non soltanto ci permettono di decifrare la mappa del lavoro sociale, ma concetti per viaggiare, concetti per tracciare nuove cartografie. Oggi si parla di postfordismo per identificare il processo di metamorfosi avvenuto nel ciclo di produzione centrato sul modello fordista, ma questa formula -di cui il prefisso 'post' è il segno distintivo -indica che il nuovo paradigma produttivo è compreso più per negazione che per una sua qualificazione specifica. Il postfordismo è ciò che segue il fordismo, ma è facile cedere alle tautologie, e cadere in concetti che si riflettono l'uno sull'altro come specchi, come immagini che hanno perduto il punto focale comune e si dissolvono nell'indeterminazione genealogica dei nomi. La definizione del modo di produzione postfordista ha bisogno d'essere collocata storicamente. Quando questo nuovo modo di produrre si è affermato? Quali sono gli agenti, quali le forze attive, quali i soggetti su cui il postfordismo si è realizzato? Il postfordismo nasce dentro un contesto di crisi, la crisi del "fordismo", il modello di organizzazione sociale che ha egemonizzato il Novecento, un modello di produzione centrato sulla fabbrica, orientato alla razionalizzazione tecnica del processo, da un lato, e alla stabilizzazione dell'economia, all'istituzionalizzazione di dispositivi di mediazione del conflitto interno al processo di razionalizzazione, dall'altro. Un modello che realizza, oltre a un forte incremento di produttività del lavoro, anche un articolato ed efficace sistema di regolazione delle relazioni industriali e di contenimento dello scontro tra capitale e lavoro. Dal punto di vista soggettivo, dal punto di vista della forza lavoro, lavorare in fabbrica voleva dire essere costretti a postazioni fisse, a ruoli preordinati, voleva dire avere un controllo sul processo lavorativo pressoché inesistente, subire un comando del capitale fisso sul lavoro vivo assolutamente brutale, significava essere sottoposti al dispotismo di un comando esercitato da una struttura meccanica d'operazioni esecutive continue e parcellizzate. Il lavoro vivo scomposto e organizzato in questo modo doveva essere ridotto, come nell'utopia taylorista che permea tutto il fordismo, al lavoro di una "scimmia ammaestrata" costretta a eseguire azioni ripetitive, il cui contenuto non può essere sentito più vuoto e lontano. L'utopia negativa di questo sistema era stata anticipata dal George Orwell di 1984 e dal Fritz Lang di Metropolis che non a caso ricorrono alle immagini "panoptiche" dell'onnipresenza dell'organizzazione e dell'ossessiva circolarità del ciclo per descrivere un contesto permeato da una sostanziale derealizzazione dei diritti di partecipazione e dal soggiogamento totale dell'umano. Immagini suscitate dalla fabbrica, da un apparato tecnico di produzione talmente imponente e articolato di macchine e automatismi che avrebbe dovuto in ultimo schiacciare, fino a espellerlo definitivamente da sé, l'elemento umano che vi lavorava, ultimo elemento irrazionale di un ciclo ormai completamente razionalizzato. Ciò che riguarda la soggettività del singolo operaio va tenuto fuori dal tempo di lavoro e dalla produzione, lasciato al "tempo libero", al consumo, al tempo non produttivo per eccellenza. Il regime di fabbrica era, per l'operaio, il luogo dell'estraneazione da sé, luogo privilegiato dello sfruttamento e, insieme, della separazione dell'operaio dalla sua soggettività, della forza delle braccia dalla soggettività del singolo. È solo negli anni Settanta, nel momento di esplicita crisi del modello fordista, che parole quali "soggetto", "soggettività", "singolarità", entrano potentemente nel linguaggio sociale e politico. Il 'soggetto' esprimeva allora un'istanza fortemente antagonista. L'uso del termine aveva immediatamente una valenza politica, voleva dire rivendicare un'esistenza al di là del sistema di organizzazione del lavoro, rivendicare la centralità della propria soggettività. L'incompatibilità della rivalutazione della soggettività della forza lavoro con il sistema d'organizzazione taylorista in quel momento era netta ed evidente. Oggi affermare che la soggettività è chiamata in produzione non comporta scandalo. Anzi i manuali di management offrono una tassonomia davvero varia di tecniche e strategie atte a mettere a profitto la soggettività del lavoratore. Si parla di gestione delle équipe, di sviluppo della creatività, d'organizzazione dei processi di comunicazione interna ed esterna, tutti fattori considerati determinanti per la crescita e lo sviluppo dell'impresa. Doti affettive e relazionali, capacità d'elaborazione e d'innovazione, quanto costituisce l'intimità e la socialità dei soggetti è messo in produzione, anzi è centrale per la riuscita e la qualità dell'attività produttiva. Il sapere è divenuto produttivo, il sapere è essenza stessa dell'esperienza sociale del soggetto. La nuova metafora del lavoro sociale non è più l'automa incapace di autodeterminare la sua attività,...