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L'osservazione costituisce uno strumento classico della ricerca sociale, fondativo in particolare dell'etnografia e dello sguardo "naturalistico" che essa si propone di esercitare sulla società. Implicita in questo iniziale programma di ricerca era anche l'idea che le rappresentazioni degli attori potessero essere osservate non meno delle loro pratiche, o meglio attraverso queste ultime. Più lento è stato il riconoscimento che il lavoro etnografico stesso -incluso dunque il lavoro di osservazione etnografica -fosse esso stesso produttore di rappresentazioni. Di qui, inevitabilmente, una riflessione sul "potere" inerente allo sguardo, ai suoi presupposti, ai suoi assunti irriflessivi. Dopo la critica del positivismo etnografico classico e dopo una vera e propria "destituzione della fede nello sguardo" -accusato di sessismo, razzismo, voyeurismo e così via -oggi la questione del ruolo dell'osservazione nella ricerca sociale pare tuttavia non essere ancora risolta. In questo contributo parto dalla constatazione che, esauritosi ormai il discorso postmodernista, l'osservazione continua ad essere una delle principali pratiche etnografiche utilizzate dai ricercatori sociali, nonostante -o forse invece proprio perché, e in questo senso persino fintanto chel'epistème dell'osservare non appaia "fondabile" nel senso classico. In ultima analisi, è in quest'apparente contraddizione che mi propongo di rinvenire una delle principali fonti della potenzialità euristica e, più in generale, conoscitiva dell'osservazione rispetto alle altre attività o momenti che compongono il movimento della ricerca (quali ad esempio descrivere, interpretare, spiegare e prevedere).
EXAGERE RIVISTA - Gennaio - Febbraio 2020, n. 1 - 2 anno V - ISSN 2531-7334, 2020
Se si parla di limiti, l'antropologia si rivela disciplina poco rispettosa e l'antropologo una figura irrequieta, sempre in procinto di multipli, e potenzialmente ripensabili, attraversamenti. Tuttavia, se è di limiti che si deve parlare, da antropologa, vorrei tentare, almeno all'inizio, di soffermarmi nello spazio costituito da uno loro. In altre parole, partire da una soglia, e non una qualsiasi. Nell'arcipelago maltese, in alcune città e in molti villaggi, anche all'occhio meno attento non può sfuggire come un gran numero di case abbia due porte, sia che si tratti di antiche dimore in pietra, sia delle più recenti maisonettes. Le abitazioni sono spesso attaccate l'una all'altra, così che chi le osserva si senta guidato costantemente, per strada ma anche dalla strada verso l'interno delle dimore, lungo il percorso continuo di un tunnel roccioso color giallo caldo che, nel caso degli edifici più antichi, pare sempre sul punto di sbriciolarsi nel suo strato più esterno. Questo materiale polveroso è la globigerina, pietra calcarea locale, ancora estratta dalle cave dell'arcipelago, cave che dall'alto dell'aereo l'isola sembrano portarsela via a morsi, e con la quale sono stati costruiti palazzi storici, case, mura, acquedotti, balconi, balaustre. Non mi dilungherò su questa peculiare continuità di materiale tra esterno e interno, tra geografie naturali e geografie urbane, o tra edifici di tipo diverso. Come annunciato, è sui due usci e sulla loro particolare composizione che questo contributo si attarderà. La prima porta, spesso di legno colorato, è chiamata il-bieb e di giorno, nella bella stagione (piuttosto prolungata nell'isola) è lasciata aperta. Il secondo uscio prende invece il nome di antiporta , in pratica una porta finestra che di solito resta chiusa, specie se la prima, il-bieb , è spalancata. In questo modo, e a meno che le tende non siano tirate, dalla strada è sempre possibile gettare un occhio verso l'interno e da lì scorgere il corridoio, le suppellettili, i quadri, i mobili, le foto di famiglia, molte di queste messe a bella posta. Se l'illuminazione lo permette, si possono pure intravedere la cucina o il salotto in fondo al corridoio, condividendo con chi ci vive, per il tempo di qualche passo, un'estranea e fugace domesticità. Ora, le due porte sono separate (o messe in comunicazione) da un piccolo spazio di meno di un metro quadro che non ha un nome preciso, ma che può essere indicato con una locuzione che suona più o meno come wara l-bieb ta' barra , ovvero dietro la porta di fuori. È in uno spazio del genere che l'etnografia, come pratica e atteggiamento, va immaginata. È in questo spazio che l'agire di un antropologo va pensato. Infatti, se ogni porta
La scrittura della differenza: uno sguardo sessuato sull'esperienza etnografica.
2008
L’interesse nei confronti dell’etnografia è cresciuto in questi ultimi anni in maniera proporzionale all’importanza che essa ha assunto all’interno della ricerca sociale. Proponendo una serie di riflessioni sull’antropologia contemporanea, questo volume intende approfondire alcuni aspetti della disciplina, come il posizionamento assunto dallo studioso, la criticità dell’oggetto in analisi e la re-invenzione della ricerca in situazioni di violenza, di conflitto, ribadendo l’assunto critico della non neutralità dell’indagine etnografica. Le diverse testimonianze raccolte sottolineano le difficoltà epistemologiche e metodologiche che inevitabilmente segnano il “lavoro sul campo” nel tentativo di evocare la problematicità che caratterizza il discorso etnografico nel cosiddetto “mondo contemporaneo”. Saggi di Alessandro Monsutti, Annamaria Rivera, Ugo Fabietti, Roberto Malighetti, Annalisa d’Orsi, Antonio De Lauri, Luigi Achilli, Carolyn Nordstrom, Fabio Dei, Amalia Rossi.
Un concerto di musica diventa per l’autore l’occasione pratica per una riflessione teorica sul modo di vedere l’etnografia e di concepire alcuni concetti d’ordine antropologico che dovrebbero essere collegati tra loro nelle diverse ricerche: universo sonoro, dimensione sensoriale, realtà, simulazione, dialogo, autocomunicazione, improvvisazione, vita. Il punto di partenza è la conoscenza mediata dai suoni. In quanto traduzione di un fatto sociale totale, una etnografia dovrebbe includere il modo sonico di conoscere di individui e culture sia nel quotidiano sia nel campo più lontano ed esotico. Riconoscerlo significa recuperare, in chiave dialogica, le più vaste interconnessioni tra le varie diverse sfere sensoriali (uditive, tattile, etc.), ricomponendone la sintassi e l’influenza reciproca sull’atto diversificato di cognizione. Il presupposto del saggio è dunque che questo diffuso principio dialogico di base dovrebbe valere sia per il permeante universo sonoro sia per altre dimensioni cognitive e sensoriali in incessante comunicazione tra loro persino senza il diretto controllo dell’individuo. Il parlare, nella sua interezza, è un’attività (Wittgenstein) che implica forme di comunicazione di tipo essenzialmente dialogico non ristrette alla sola interazione tra individui in carne e ossa, ma, anche, ad altre forme di interazione, incluso quelle legate all’autocomunicazione (Lotman). La realtà stessa dovrebbe essere intesa nel suo rapporto con i diversi gradi di comunicazione e di simulazione che la tecnologia ci consente; sempre più, i sensi dovrebbero essere compresi come forme di estensione mediata dalla tecnologia: realtà e simulazione sono di fatto, oggigiorno, strettamente intrecciate e ridefiniscono, dialogicamente, i nostri modi di essere e concepire l’una e l’altra. La conseguenza è che, poiché viviamo in un flusso di emittenze e ricevenze, incrociate e sovrapposte tecnologicamente, è necessario in definitiva ripensare la nozione di dialogo e di includervi, tra le altre cose, lo scambio di voci e suoni tra interlocutori in carne e ossa, ma, anche, tra enti più astratti e immateriali, nonché tra le diverse istanze costitutive la coscienza di uno stesso individuo. Per mostrare le interconnessioni tra i vari concetti si ricorre, nel saggio, all’esempio di Steven Feld, Marc Augé e Paul Stoller. Gran parte dell’opera di Augé può essere considerata un lungo e proficuo ‘esercizio di riflessività’ di tipo dialogico applicato alle categorie dell’antropologia e al soggetto stesso che le pratica. Similmente, un principio dialogico vale pure per Steven Feld, il quale lo applica nella sua ricerca sul campo coinvolgendo direttamente i suoi amici-interlocutori e se stesso in quanto antropologo e autore di una etnografia sui kaluli del Bosavi di Papua Nuova Guinea. Un altro esempio importante preso in conto nel saggio è quello di Paul Stoller secondo cui l’apprendistato della stregoneria, più che una condizione psicologica originaria e intaccabile, significa porsi sulla frontiera tra due mondi diversi ma in continua e possibile comunicazione. Viviamo, spesso senza rendercene conto, in un universo musicale e dialogico in cui individui – ma anche oggetti materiali e simbolici, enti più astratti e collettivi – si scambiamo opinioni e punti di vista, suoni e messaggi, interagiscono per botte e risposte, storie e contro storie scritte e orali, visive e gestuali che hanno un qualche ritmo e cadenza di base. L’etnografia dovrebbe allora, in definitiva, cercare di seguire il ritmo libero, tutto sommato musicale, delle improvvisazioni e dei piani d’azione che si presentano nella vita di un individuo. A questo fine, si dovrebbe in sostanza spostare l’accento dal solo concetto di cultura a quello di vita per esplorarne le reciproche interrelazioni. Vivere significa prodursi nell’alternanza di obiettivi che programmiamo e direzioni che prendiamo sull’orientamento del momento. Una ragione di più per parlare, quindi, in questo senso, di una vera e propria antropologia della vita.
in A. Dal Lago, R. De Biasi, Un certo sguardo. Introduzione all'etnografia sociale. Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 27-53) 1.
Filosofia e Sociologia (a cura di in M.Schiavone), Un. di Genova, 1985
In una sua dlettura delle scienze soclall in America (dl prosslma pubblieazlone in collaborazione con A. Vidich), S.M. Lyman va a ripescare figure dimenticate come Lester Ward, Graham Sumner, Frederic Teggart, Frank Hamilton Cushing, da accomunare alla medesima linea di tendenza (Lyman, 1981). 2 Ci sembra che Marx, marginalmente e senzg mai approfondire, avesse in mente una nozione di linguaggio non strumentale ma immanente. Si veda ad esempio: ttll linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza teale, pratica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e ll linguaggio, eome Ia coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini. Là dove un rapporto esiste, esso esiste per me ...x (K. MARX-F. ENGELS, Ltideologto tedesco, Edit. Riuniti, Roma lg5g, p. 20). Si possono cogliere lnteressanti analogie tra quesflaffermazione e le elaborate analisi ermeneutiche di Gadamer e Heidegger. Per Gadamercommenta Beloh pp.
Università critica. Liberi di pensare, liberi di ricercare, 2017
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“Turismo e psicologia”, vol. 10, n. 1, Padova University Press, 2017
Civiltà e Religioni, 2021
C. GALLINI e G. SATTA (eds.), Incontri etnografici. Processi cognitivi e relazionali nella ricerca sul campo, Meltemi, Roma: 10-26, 2007
Rivista di Psichiatria e Psicoterapia Culturale, 2024
Orientamenti Pedagogici, 1973
Il Comune dopo il Comune. Le istituzioni municipali in Toscana. Secolo XVI-XVIII, 2022
Erreffe. Il grafo, 2020
Illuminazioni, 2020
Boletín de Literatura Oral (BLO), 2020