Papers by Alessandro Martina

Ho parlato del carattere e dei costumi di questi barbari; che dire ora dell"empia religione e nef... more Ho parlato del carattere e dei costumi di questi barbari; che dire ora dell"empia religione e nefandi sacrifici di tale gente, che venerando il demonio come Dio, non trova di meglio per placarlo che offrirgli in sacrificio cuori umani? Questa sarebbe una cosa buona, se per "cuori" si intendessero le anime immacolate e pie degli uomini; ma loro riferivano questa cessione non allo spirito che vivifica (per usare le parole di san Paolo) ma alla lettera che uccide, e ne davano una interpretazione stolta e barbara, pensando che si dovessero sacrificare vittime umane: e aprendo i petti degli uomini ne strappavano i cuori e li offrivano sulle are nefande, credendo così di aver fatto un sacrificio secondo il modo stabilito e di aver placato gli dei. Essi stessi poi si cibavano delle carni degli uomini immolati. Questi crimini, che superano ogni umana perversità, sono considerati dai filosofi tra le più feroci e abominevoli scelleratezze. E quanto al fatto che alcune di quelle popolazioni, secondo quanto si dice, manchino completamente di ogni religione e di ogni conoscenza di che altro è questo se non negare l"esistenza di Dio e vivere come le bestie? Non vedo cosa si potrebbe escogitare di più grave, di più turpe, di più alieno alla natura umana. Il genere di idolatria più vergognoso è quello di quanti venerano come dio il ventre e le parti più turpi del corpo, considerano religione e virtù i piaceri carnali, e come porci tengono sempre lo sguardo fisso a terra, quali non avessero mai visto il cielo. A costoro soprattutto si applica quel detto di san Paolo: la loro fine è la perdizione, il loro dio il ventre, giacché attribuiscono valore alle cose terrene. Stando così le cose, come potremmo porre in dubbio l"affermazione che questa gente così incolta, così barbara, contaminata da così nefandi sacrifici ed empie credenze, è stata conquistata da un re eccellente, pio e giusto quale fu Ferdinando [Ferdinando II "Il Cattolico" (1452 -1516) re di Aragona, Sicilia, Sardegna e Napoli] ed è attualmente imperatore Carlo [Carlo V (1500-1558) re di Spagna (1516-1556) e imperatore del Sacro Romano Impero (1519 -1556)], e da una nazione eccellente in ogni genere di virtù, con il maggior diritto e il miglior beneficio per gli stessi barbari? Prima della venuta dei cristiani avevano il carattere, i costumi, la religione e i nefandi sacrifici che abbiamo descritto; ora, dopo aver ricevuto col nostro dominio le nostre lettere, le nostre leggi e la nostra morale ed essersi impregnati della religione cristiana, coloroe sono moltiche si sono mostrati docili ai maestri e ai sacerdoti che abbiamo loro procurato, si discostano tanto dalla loro prima condizione quanto i civilizzati dai barbari, i dotati di vista dai ciechi, i mansueti dagli aggressivi, i pii dagli empi e, per dirla con una sola espressione, quasi quanto gli uomini dalle bestie."
Cos'è questa cosa qua? Cos'è questo "Ulisse" di Joyce? Questa cosa noiosa, attaccaticcia, e sopra... more Cos'è questa cosa qua? Cos'è questo "Ulisse" di Joyce? Questa cosa noiosa, attaccaticcia, e soprattutto nel linguaggio, nella parola che esorbita se stessa e manca sempre il messaggio, che dovrebbe essere il bersaglio.
AL DI LA' DEL PRINCIPIO DI PIACERE: UN DIBATTITO MODERNO DALLE RADICI ANTICHE Nell' Al di là del ... more AL DI LA' DEL PRINCIPIO DI PIACERE: UN DIBATTITO MODERNO DALLE RADICI ANTICHE Nell' Al di là del principio di piacere Freud giunge ad una conclusione ipotetica circa il dominio delle pulsioni sull'uomo, la quale, non basandosi su fatti dati e sperimenti, ma traendolo da essi soltando uno spunto per l'analisi, può dirsi teorica o metapsicologica, anziché semplicemente psicanalitica. È chiaro quindi come questo possa aprire le porte a delle

Il genio non commette errori, apre portali di conoscenza" (Ulisse, James Joyce) La virtù del (dis... more Il genio non commette errori, apre portali di conoscenza" (Ulisse, James Joyce) La virtù del (dis)piacere E che storia sarebbe quella di Don Chisciotte de la Mancha? Lasciamo per un momento da parte, se cosi si può fare, ciò che è storico e ciò che è storicizzabile; le interpolazioni di un moro, la rilettura delle opere di un cavaliere cristiano da parte di un letterato arabo, tale Cide Hamete Benengeli, e le ironiche faticosissime ricerche, quasi una recherche proustianamente intesa, del nostro Cervantes. Lasciamo quindi in sospeso se un'azione a cui non subentri un riconoscimento al merito o al demerito possa avere valore e valenza di storia. Tutto questo, beninteso, è alla base della nascita del romance moderno, un genere che ha alle spalle il senso storico dell'azione come colonna d'Ercole insuperabile. Ma, come già avvertivamo nel capitolo precedente, l'elusione di ogni semplicistica attinenza fra cose e linguaggio, fra il fatto e il tradito, fra il codice ed il senso è avvertibile nell'operaopera di disillusione tutta spagnola come già sostenevano i primi esegeti a partire dal Menendez-Pelayonei nomi caricaturali che svelano la doppiezza del testo come ad esempio la contessa Triffaldi o la regina Micomicona, operazione alla quale non sfugge la virtù: sì, perché la storia di Don Chisciotte è una storia di virtù. Una storia di virtù cavalleresca, aderente a quell'antico ordine che non solo attraverso un'ascetica vita contemplativa impetrava grazie al Signore, ma anche attraverso eroiche gesta, nella consapevolezza del suo essere mondano e peccatore. Come l'agire intramondano sia al tempo stesso opera di fede ed opera che trascenda il volere di Dio, di fatto sentito come imperscrutabile, e quindi come esso operi per via della fede senza da essa potere avere riscontri certi, è smacco macchia e scomunica per l'uomo e al tempo stesso onore gloria e fama eterna. È caduta ed Eden al tempo stesso. Vediamo come si esprime il nostro eroe a proposito di tale aporia, a proposito quindi di quel che è riservato all'agire mondano nonostante la fede e la buona volontà: "per buon augurio, io ho preso, fratelli, l'aver visto quel che ho visto, poiché questi santi e cavalieri esercitano quel che esercito io, cioè la professione delle armi; senonchè la differenza che c'è tra me e loro si è che loro furon santi e combatteron da gente di Dio, mentre io son peccatore e combatto secondo il mondo. Essi conquistarono il cielo a forza di braccia, giacchè il cielo vuol essere forzato, ed io finora non so che conquisto a forza di travagli; tuttavia se la mia Dulcinea del Toboso fosse alleviata da quelli che soffre lei, forse col migliorarsi la mia sorte e col fare io miglior senno potrei dirigere i miei passi per via migliore di quella che ho presa" 1 . In un'ottica che ha come fine il ritrarsi delle pretese dell'uomo sul mondo e che legge la vanagloria come peccato contro Dio da scontare attraverso busse botte e beffe per arrivare in ultimo ad un perfezionamento spirituale, che culmina con la 1 M. de Cervantes, El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha (1605), trad. it. Don Chisciotte della Mancia, Rizzoli, Milano 1981, p.1056.

numero di parole 5610 numero di caratteri 34531 Caro Sancio, tu devi sapere ch"io nacqui, per vol... more numero di parole 5610 numero di caratteri 34531 Caro Sancio, tu devi sapere ch"io nacqui, per volere del cielo, in questa nostra età di ferro, per farvi risorgere quella dell"oro o aurea…io sono colui che ha da resuscitare i cavalieri…Poni ben mente, scudiero mio fedele e leale, al buio di questa notte, al suo meraviglioso silenzio, al sordo e confuso rumore di questi alberi… (Don Chisciotte, Miguel de Cervantes) Era venuto per lui il momento di andare a ovest. Sì, i giornali avevano ragione: nevicava su tutta l"Irlanda. Cadeva la neve in ogni parte della scura pianura centrale…E cadeva anche su ogni punto del solitario cimitero sulla collina in cui giaceva il corpo di Micheal Furey. S"ammucchiava fitta sulle croci piegate e sulle lapidi, sulle lance del cancelletto e sui roveti spogli. E pian piano l"anima gli svanì lenta mentre udiva la neve cadere stancamente e stancamente cadere, come la discesa della loro fine ultima, su tutti i vivi e su tutti i morti (I morti, James Joyce)
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Innanzitutto rispetto all`Iliade e all`Odissea, che narrano i conflitti "amorosi"
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