
Dario Calimani
Advisory Editor for Portales (University of Cagliari)Fellow Bogliasco Foundation - Centro di Studi LigureWeekly contributor to Moked - Pagine Ebraiche - Peer Reviewer for Italian and International Publishers
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Ne ha parlato il mondo intero di questo Mercante di Venezia in scena nel Ghetto della città lagunare. L’attesa è stata vibrante. Ad assistere alla sua rappresentazione sono venuti da ogni dove, e lo spettacolo non ha certo deluso. Vedere Shylock calcare i ‘masegni’ del Campo di Ghetto è stato un colpo d’occhio, e un’emozione che resterà dentro nel tempo, al di là di qualsiasi effetto la messa in scena abbia prodotto o abbia mancato di produrre. Ad accompagnare lo spettacolo, il frinire assordante e superfluo delle cicale, ma anche il complesso di concertisti che bene richiamavano le sinergie artistiche del teatro elisabettiano.
Certo, Shakespeare non dà segno di aver saputo che il Ghetto esistesse, né che i prestatori ebrei operassero lì e non a Rialto, e non sapeva del resto che il Doge non svolgeva attività di giudice e che un imputato o un avvocato non potevano assumere il ruolo di pubblici accusatori e giudici a loro volta. Il Mercante è una finzione, ed è bene continuare a ricordarlo, ma è una finzione che qualche recondito messaggio vuole veicolarlo, per quanto ambiguo, per quanto contraddittorio, per quanto enigmatico. E la messa in scena di Karin Coonrod, puntata sullo spettacolo, sulla commedia, sui costumi sobri ma eleganti, forse qualche cosa ha mancato di trasmetterlo. Una splendida occasione in fondo, ma un’occasione mancata. Il pubblico si è certamente divertito alle molte occasioni esteriori, alla vivace interpretazione del buffone, Lancillotto Gobbo; il critico, per parte sua, ha sofferto non poco per la mancata messa a fuoco degli interrogativi centrali. Ma, si sa, la critica è noiosa e il suo mestiere è di essere pedante.
Che il colpo d’occhio e l’effetto spettacolare della location potessero far passare in secondo piano i contenuti sottesi del testo era un rischio che si poteva immaginare di dover affrontare. Il fascino del Ghetto ha infatti condizionato la rappresentazione sin dal ridondante esordio ruzantiano, utile ad accentuare il contesto, ma decisamente deviante in relazione al testo. Molti degli effetti ricercati sono sembrati ad uso del turista più che tesi a scandagliare le profondità del dramma. A lasciare perplessi sono state certe scelte della regia. Un Antonio, ad esempio, cinico e sprezzante sin dall’inizio (per rendercelo antipatico?), di cui è rimasto peraltro annullato il riferimento all’ambiguo rapporto omoerotico con l’amico Bassanio (omesso dalla messinscena un patetico addio fra i due). Ma omessa anche una battuta chiave dell’infedele figlia Jessica che, mentre fugge con i preziosi rubati al padre, si attarda a rifornirsi di altri ducati con cui ‘agghindare’ il suo tradimento, oltre che il suo senso di colpa. Semplificazioni che non hanno fatto bene al dramma nel suo insieme, mentre, per una sua necessaria riduzione a tempi sopportabili, si potevano sacrificare altre scene di minor rilievo significante. È sempre questione di scelte, ma ogni scelta ha il suo motivo e propone una sua ideologia.
Originale l’idea di frammentare il personaggio di Shylock facendolo impersonare da cinque diversi attori, per metterne in risalto la complessità, secondo quanto riferisce la stampa. Se però un mio studente mi interrogasse su quali siano i cinque diversi aspetti del carattere di Shylock, devo confessare che non saprei che cosa rispondere. Nella mia non breve frequentazione del testo ne ho riconosciuti con certezza due, lo Shylock rancoroso e vendicativo e lo Shylock che, dopo aver rivendicato la sua umanità, viene disumanamente sconfitto e cancellato, convertito. Una scelta di sicuro effetto quella dei cinque Shylock sotto l’albero del Ghetto, ma di ben ardua ricezione da parte di un pubblico quanto meno ‘generalista’. E non si può dimenticare che il dovere di una regia, pur nella sua relativa libertà interpretativa, è quello di rendere il dramma fruibile in modo immediato e diretto.
Che la figura di Shylock costituisca un dilemma testuale è risultato chiaro anche dall’imbarazzo con cui è stata risolta la sua resa ‘corporea': da un lato la ‘r’ calcata e rotolante, una caricatura dell’ebreo ashkenazita, dall’altro l’elegante veste con fasciatura dorata ai fianchi, e la conseguente rinuncia all’ovvia e testuale ‘gabbana d’ebreo’ nera. Solo di fronte a questa evidente differenza d’abito si sarebbe colta tutta l’ironia di una Porzia che chiede ‘Chi è il mercante qui? E chi l’ebreo?’, fingendo un’equidistanza fra mercante cristiano e usuraio ebreo che avrebbe offerto un assaggio della sua strategia di simulazione. Con cinque Shylock eleganti, invece, l’ironia svanisce, e con essa svanisce per il pubblico ogni possibilità di cogliere una Porzia la cui palese essenza è quella del travestimento, della mimetizzazione, della dissimulazione e del raggiro.
Si ha la sensazione, nel complesso, che il testo sia stato vagamente eufemizzato, forse anche un po’ de-ebraizzato, certi significati passati sotto silenzio. Non emerge l’interesse fortemente economico della società veneziana e cristiana che, ben più di Shylock, non riesce a dissociare l’amore dal denaro. Non si coglie il fatto che Antonio, nel prestare denaro a Bassanio, sta di fatto esercitando un’usura emotiva, perché lega così a sé l’amico/amato con un debito materiale e morale insieme. Sottigliezze, fra le molte, che costruiscono però tutto il senso complesso e multivalente di questo problematicissimo dramma shakespeariano.
Deviante e blasfema, sul piano culturale, è poi la scritta che si proietta sulle case del Ghetto alla fine della rappresentazione: “Misericordia”, come se questo fosse il significato e l’invito che il pubblico deve portare a casa con sé. E si giunge invece, così, alla deformazione del testo, perché la misericordia è, per la società cristiana di Venezia, un ideale mancato. Tanto mancato quanto lo è la giustizia che la società nega a Shylock. È incontestabile, infatti, che la misericordia proclamata solennemente da Porzia in uno splendido monologo è solo ciò che si pretende da Shylock: la pietà che lo costringa a rinunciare alla sua giustizia e al denaro che ha prestato al cristiano. Ma quando toccherà a Porzia (e ad Antonio) dimostrare quanto sia spontanea la sua misericordia, Porzia dimentica le belle parole che ha pronunciato e dimentica la sua stessa fede, e infierisce su Shylock facendogli pagare il suo inflessibile rancore con l’espropriazione: denaro, come sempre, che passa dall’ebreo al cristiano. La misericordia cristiana, nel testo, non esiste. Esiste invece la vendetta, come aveva lamentato e predetto l’ebreo Shylock.
Buffa coincidenza, poi, che sulla misericordia cristiana stia insistendo in questo periodo anche il cardinale Ravasi, per opporla all’inflessibilità della legge ebraica. Un curioso malinteso, naturalmente, visto che l’ebraismo conosce bene la ‘Middat haRachamim’, l’attributo della misericordia divina. Non sia mai allora che, nel suo monologo sulla misericordia, Porzia stia citando la Torah? E se Porzia fosse una marrana? Ma questa è davvero un’altra incredibile storia.
Perché, dunque, proiettare ‘Misericordia’ sulle pareti del Ghetto? Forse per dire che questo è il messaggio finale da ricavare e il sentimento da riprodurre nell’oggi, amando il diverso, comunque si chiami, dovunque si trovi. Un messaggio universale che trascende l’ebraicità del personaggio Shylock e vede in lui, più che l’ebreo, il diverso tout court. ...... (per l'articolo intero vedi il link).
21.3.2017
È possibile semplificare il pensiero altrui fino a deformarlo? Certo che sì, se chi ha prodotto quel pensiero è morto e non può difendere la propria posizione. È ciò che fa il cardinale Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore, 10 luglio 2016) con Shakespeare e, in particolare, con Il mercante di Venezia, riproponendo la lettura ormai un po’ ammuffita che legge il dramma come un’opposizione fra l’implacabile giustizia ebraica (cita addirittura la legge del taglione) e la salvifica misericordia cristiana. E tutto ciò per convincersi che Shakespeare era pervaso da spirito cattolico. Ma Ravasi, teologo e biblista cui sfugge del tutto l’ironia ambigua del testo shakespeariano, si fida troppo ciecamente delle belle parole di Porzia: “La natura della misericordia è spontanea”. È vero, infatti, che nel testo la misericordia non compare affatto, se non come pura realtà linguistica: c’è imposizione, c’è castigo (più o meno giustificato), c’è sopruso, c’è annullamento della giustizia, ma non c’è misericordia. Perché la misericordia o vale sempre o non vale mai. Non vale, soprattutto, quando si applica a senso unico, al più forte e non anche al più debole. Una misericordia concessa dal più debole al più forte non è misericordia, ma privilegio e sopraffazione, conservazione dei diritti acquisiti dalla classe dominante, destinata a vincere sempre e in ogni caso.
Per fortuna, Shakespeare è assai più sottile di quanto non pensi il cardinale Ravasi. E se qualcuno ha dei dubbi, si procuri il mio Mercante di Venezia (Marsilio 2016). Ma si procuri anche una Tempesta shakespeariana, da cui potrà verificare che il cattivo Antonio, dopo aver spodestato il fratello Prospero, non si pente affatto cristianamente, come sostiene Ravasi, ma rimane il malvagio irredento che è, pronto a ripetere i suoi atti iniqui. Lo sanno anche gli studenti. Shakespeare è ben più realista di quanto non si voglia credere, e non si lascia tirare per la manica.
Siamo, come sempre, nel campo delle letture ideologiche, superficiali e partigiane, grazie alle quali si riesce a dimostrare l’indimostrabile per tirare l’acqua al proprio mulino. Ma io non mi occupo di teologia, e non estrapolo frasi sconnesse dai testi sacri per derivarne la mia idea di Dio. Si lasci Shakespeare – o chi per lui – riposare nella sua tranquilla tomba, e si rispetti il valore complesso delle sue parole.
Non ho mai saputo che cosa sia l’invidia, ma oggi più che mai invidio coloro che, da una parte e dall’altra, hanno risposte sicure per le proprie domande. Invidio i Guru del pensiero e invidio i generosi d’animo, invidio coloro che perdonano per professione e invidio coloro che per professione odiano. E invidio coloro che sanno bene che cosa si sarebbe dovuto fare ieri e sanno benissimo che cosa si dovrà fare domani.
Oggi più che mai sarebbe necessario trovare semplici risposte, e si riesce invece a porsi soltanto difficili domande. Quel che è certo, però, è che da oggi si può cominciare a dire ciò che ieri non si sarebbe osato dire. E proveremo almeno il gusto della sincerità, libera dalla retorica demagogica della diplomazia e dal ‘politically correct’.
Il terrore di questi giorni in Francia ci fa sentire tutti un po’ francesi, e non nel senso vuoto di una retorica che dura il tempo del dirlo, ma nel senso che ci riconosciamo finalmente tutti comparse di un momento storico che non permette a nessuno di chiamarsi fuori. Ciò che è successo lì, può accadere domani anche qui, ciò che è successo a loro può accadere domani anche a noi. Non un ‘noi’ improbabile, indefinito e lontano, ma a me e a te.
È utile allora interrogarsi su alcuni argomenti.
Quali sono i limiti della satira? Ho il diritto di uccidere chi offende il mio Dio? È un Dio quello che dopo aver creato l’uomo chiede a un altro uomo di ucciderlo? O quello che chiede di sfregiare una ragazzina che vuole studiare? Io penso di no, ma mi rendo conto che non tutti la pensiamo allo stesso modo. Spesso Charlie Hebdo ha fatto satira antisemita, e per questo il giornale mi può stare poco simpatico; magari ha anche confuso e prodotto confusione fra ebrei e israeliani, e non ha fatto certo divulgazione culturale obiettiva; forse non lo comprerò, ma non per questo ho mai desiderato distruggerne i giornalisti: me lo ha impedito la mia cultura, non solo la legge del mio paese. Allora, mi chiedo – e non avrei osato chiedermelo ieri – da dove viene la cultura che manda un uomo a uccidere per difendere il suo Dio, o la sua idea di Dio? L’autorevole Financial Times ha sostenuto che la satira ha superato i limiti e si è chiamata addosso una comprensibile ritorsione. Il Financial Times ha detto una grossa idiozia, indipendentemente dai se e dai ma che possono averla limitata. Molti hanno offeso la mia sensibilità, anche la più intima, amici e nemici, ebrei e non ebrei. Mai mi sono sognato che valesse la pena ucciderli. Va contro la mia cultura. Magari quando li incontro mi volto dall’altra parte e non li saluto. E questo mi basta.
Ora, la mia formazione di sinistra mi spinge a cercare le lontane cause sociali del presente, e mi dice che l’isolamento, l’emarginazione di tanti migranti hanno certamente prodotto il disagio che spinge alcuni di loro al riscatto del terrorismo. Ma i miei parenti licenziati dal lavoro in quanto ebrei, i miei genitori fuggiti in Svizzera e derubati di tutto, i miei nonni e i miei cugini gassati ad Auschwitz non hanno prodotto in me (e in nessuno degli ebrei che conosco) la voglia di ricambiare col terrore le istituzioni che ci emarginarono e ci abbandonarono e i vicini di casa che ci tradirono e magari si impossessarono di ciò che era nostro. Un’altra cultura, forse, o magari solo mancanza di fantasia e di intraprendenza.
Quel che è certo – e non avrei osato dirlo ieri – è che esiste una fetta di società e di cultura che fa un uso spregiudicato della religione. Lo fanno anche una parte dei miei amici israeliani, per occupare miserabili pezzetti di terra. E, detto questo – con timore e tremore –, posso aggiungere allora che lo fanno anche settori dell’Islam, appoggiati, o quanto meno ‘compresi’ da altri settori dell’Islam, un po’ più ampi, quei settori ai quali piace riconoscere in Israele la colpa di ogni male e l’obiettivo da colpire e annientare. Se poi si colpisce soltanto un povero ebreo che vive magari in Svezia, poco male. Il petardo fa rumore comunque.
Ai tempi delle Brigate Rosse si parlava di collateralismo, ed era quello degli idealisti di sinistra che, in un modo o nell’altro, giustificavano o quanto meno ‘comprendevano’ le ragioni dei brigatisti, che un certo ritegno impediva di chiamare terroristi. Bene, lo stesso è accaduto negli anni passati a proposito dei ‘combattenti’ per la libertà della Palestina, di coloro che piazzavano bombe alle fermate degli autobus. Intrepidi combattenti che con il loro kalashnikov facevano la guerra non ai soldati dell’esercito israeliano ma ai bambini delle scuole e agli avventori dei caffè. Collateralismo terzomondista, pacifista, di sinistra, anche quello.
Il terrorismo è la prassi di una minoranza? Non ne siamo certi, e la situazione che si sta svolgendo sotto i nostri occhi, per ora solo nello schermo televisivo, dovrebbe dirci quanto si stia diffondendo l’idea di un Islam espansionista, che vuole imporre i suoi modelli ideologici. Gli islamici moderati sono sicuramente una grandissima maggioranza, ma i terroristi e i loro adepti non sono più un numero esiguo, e non sono neppure più così lontani, e non siamo sicuri che siano del tutto soli. Se non ci fanno affetto le teste decapitate dalle bestie dell’ISIS, nella lontana Siria o i duemila massacrati di Boko Haram nella lontanissima Nigeria, devono preoccuparci almeno (anche se con un po’ di necessaria vergogna, almeno) i cinque o sei morti a Parigi, nel centro dell’Europa. Se a farci comprendere il rischio che corre l’Europa sono stati gli avvenimenti di Parigi, diremo allora, con infinitissimo imbarazzo, che era ora che accadesse. È come se l’Europa lo avesse atteso con trepidazione. L’Europa di sinistra, illuminata, pacifista e terzomondista, che finora ha scelto di voltare la faccia dall’altra parte, e l’Europa di destra che ora potrà servirsene per la propaganda della prossima tornata elettorale.
Ora ci confrontiamo con i nostri preconcetti di sinistra, vergognandoci non poco di cominciare a condividere i distorti e disumani preconcetti della destra, barricata da sempre dietro alle idee di ordine e di ‘tradizione cristiana’, affidando il rapporto con la diversità alla mera pratica della discriminazione. Rischieremo un giorno non troppo lontano di votare Matteo Salvini, o Marine Le Pen?
Ora l’Europa si risveglia dal torpore. Ma non si è svegliata troppo, e comunque si è ben presto riassopita, quando il terrore islamico ha assaltato sinagoghe e scuole e ammazzato ebrei in Francia (Tolosa 2012) e in Belgio (giugno 2014 al Museo ebraico di Bruxelles). Lo scandalo è durato un attimo e poi è passato nel dimenticatoio della storia, quella grande e lontana degli archivi polverosi. L’antisemitismo non era problema francese, quando l’ebreo ventitreenne Ilan Halimi fu torturato per un mese e ucciso da Youssuf Fofana e dai suoi giovani amici in una banlieue parigina. E la Francia sta ancora dormendo sonni tranquilli di fronte agli ebrei che da qualche anno lasciano a migliaia il paese per trovare il solito, unico rifugio in Israele. Qualche benevolo antisemita potrà affermare trattarsi di un’emigrazione a fini di colonizzazione sionista. Fatto sta che forse l’emigrazione ebraica alleggerirà, agli occhi dei francesi, la tensione fra i cinquecentomila ebrei e i sei milioni di islamici. Un vero sollievo.
Alla Francia, in questo momento, va naturalmente tutta la solidarietà del mondo civile, ma la Francia si sveglia oggi di fronte alla ferita che le viene inferta al cuore. Delle ferite marginali non si era curata troppo: erano solo graffietti. Ora la Francia ha paura, e ha paura l’Europa. Ma in Francia e in Europa c’è chi vive da anni nella paura, abituato a guardarsi le spalle. Le nostre sinagoghe sono presidiate da anni, in tutta Europa. A Parigi da anni si consiglia agli ebrei osservanti di mimetizzarsi, di non girare con la kippà in testa. Nascondersi è la norma, come ai bei tempi dell’Inquisizione o del nazismo. Vivere nascosti, da marrani. Questo non è affatto grave quanto lo sono le vignette sul Profeta, naturalmente.
Resta infine un problema da affrontare, ed è quello della retorica, intesa nel peggiore dei sensi possibili: l’enfasi vuota che falsa i sentimenti e deforma la realtà stessa. Tutti oggi si vantano di affermare “Je suis Charlie”. Bene, IO NON SONO CHARLIE, perché Charlie può non essermi piaciuto in tempi passati, e tuttavia Charlie aveva il diritto di continuare a vivere anche se non era proprio me stesso. Ma io non sono neppure l’Islam, perché certo Islam può non piacermi e quell’altro Islam, quello dal volto gradevole, non ho avuto modo di conoscerlo, e avrei voluto sentirlo più vicino agli ideali di rispetto dell’altro, anche quando non si trattava proprio di rivendicare i suoi propri diritti, ma i diritti dell’altro. Credo che il motto di cui ci si dovrebbe appropriare sia “Io non sono Charlie, ma Charlie ha, ciò malgrado, il diritto di vivere e di essere rispettato”. Io sono per la convivenza civile e per il rispetto reciproco. E sono a favore dei rapporti civili con tutti color che sanno distinguere il diverso da sé e rispettarlo proprio in quanto diverso. In un rapporto di perfetta reciprocità. È troppo facile amare il prossimo, quando lo senti uguale a te. Il problema è sopportare chi non ti piace, senza per questo meditare di sopprimerlo. Del resto, se così non fosse, non saremmo brutalmente umani.
con: Emanuela Bassetti, Piero Boitani, Angelo Righetti, Dario Calimani. Modera: Luigi Perissinotto