
federica maria giallombardo
Federica Maria Giallombardo nasce a Biella il 22 gennaio del 1993. Consegue il diploma di Scuola Media Superiore presso il Liceo Scientifico Tradizionale “A. Avogadro” (2012) e partecipa a diversi stage organizzati dall’Assessorato alla Cultura della Provincia di Biella (2009-2012). Frequenta la Facoltà di Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Torino, laureandosi nel 2016 con una tesi di ricerca di Filologia Italiana sull’epistolario di Vittorio Alfieri dal titolo «L’anima morta, e il cuore sepolto». La lettera di Tommaso Valperga di Caluso alla Contessa d’Albany (1804-1807) e altri studi sulle ultime lettere di Vittorio Alfieri. Partecipa come relatrice alla X edizione della Scuola di Alta Formazione “Cattedra Vittorio Alfieri” nel settembre 2016, esponendo la sua edizione critica delle lettere inedite e divenendo così la più giovane alfierista italiana vivente. Collabora con la Fondazione Centro Studi Alfieriani e con Palazzo Alfieri. È associata alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, grazie alla quale può accedere ai codici manoscritti più antichi. Ancora nel 2016, scrive recensioni su mostre di arte moderna e contemporanea per la webzine «OUTsiders», divenendo parte della redazione e instaurando rapporti con importanti musei e gallerie torinesi come il Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto, il PAV (Parco Arte Vivente), la Galleria Alessio Moitre, la Galo Art Gallery nonché con l’Associazione Barriera, La Venaria Reale e il Museo di Arte Contemporanea del Castello di Rivoli. Nel novembre 2016, in occasione della fiera d’arte contemporanea Artissima, partecipa al progetto di Gianluigi Ricuperati, presentato da Luoghi delle Parole e «Artribune», “Ekphrasis 21”, pubblicando brevi recensioni sulle opere esposte sui social network Instagram e Facebook. Quest’ultima esperienza le ha permesso di accrescere i propri contatti anche a livello internazionale con gallerie e collezionisti privati (Loom Gallery, Sabrina Amrani Art Gallery, Blank, ChertLüdde, Molnár Gallery, Galeria Curro, Braverman Gallery, ecc.). Collabora con diversi artisti, tra cui Giuseppe Palmisano, Massimo Brunello e Stefania Fersini, dei quali cura il portfolio e i comunicati stampa. I suoi interessi spaziano dalla pittura alla fotografia alla musica; particolare è l’affinità con la letteratura del Settecento e del Romanticismo e con l’arte Contemporanea; è appassionata di antiquariato (mobili e libri soprattutto), incisione (acquaforte) e gioielli (colleziona spille).
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Thesis Chapters by federica maria giallombardo
Scritti sul teatro (1961), esprimendo una sua intuizione felice, ovvero che il potere evocativo del Tragico rimane immutato nei secoli grazie alla contemplazione della sacralità del momento creativo. Sacralità assolutamente laica, tutta proiettata al di fuori, vigorosa, maschia; eppure esternata da un’intimità fragile, impreziosita dall’amor di Gloria (come dall’amor di Libertà) e, paradossalmente, presuntuosa per l’incompatibilità tra il reale e il «bollore di cuore e di mente» (Del Principe e delle lettere). La peculiare grandezza di Alfieri si deve a questa tenace indole lunatica, sempre insoddisfatta, commossa dai trionfi poetici; a volte ironica nel fallimento; a volte eccessiva nella condotta e nel rifiuto. Eppure esiste un Alfieri che scende a compromessi con il reale; e ne paga il prezzo perdendosi in un groviglio di commissioni, richieste, conti, scartoffie, formalismi imbellettati, maniere precise e impoetiche; è l’Alfieri delle epistole. In quasi tutte le lettere, infatti, si possono trovare riferimenti alla routine del Poeta: vi sono anche molti incisi di prosa sublime; ma compiono voli pindarici, precipitando nel tedio delle faccende quotidiane. Proprio per tale motivo, all’interno della corrispondenza alfieriana, spiccano le ultime lettere del Poeta: la meccanicità tediosa ripiega nel conforto degli affetti, con una sincera sensibilità tremendamente generosa, finalmente, di concedersi. Nelle lettere prossime alla sua morte, Alfieri non si abbandona a patetismi impietosenti; bensì, con lucida dignità di nobile piemontese, coinvolge il lettore, riconducendo la narrazione dell’epistolario a quella della Vita; si rende persona e personaggio allo stesso tempo, sdoppiandosi senza equilibrio – pur mantenendo una brillante eleganza. Il lavoro filologico svolto mira a estorcere, nell’analisi di un campione di lettere del
1803, le impressioni sopra descritte.
Metamorfosi speculare si palesa nella lettera dell’Abate di Caluso alla Contessa d’Albany; i sonetti in dedica al Poeta e la descrizione dei suoi ultimi giorni non solo fondono in un unico racconto persona e personaggio di Alfieri (collegando realtà e immagine ideale); ma inseriscono una nuova voce narrante che si amalgama alla precedente, rendendo Caluso stesso un personaggio dell’autobiografia del Tragico. La solennità dell’epistola rende l’Abate ultimo testimone della somma magnificenza dell’Amico; questa consapevolezza deve essere rimasta ben presente a Caluso quando
la scrisse (soprattutto nel momento in cui compose i sonetti); ciò lo si evince dalle molte correzioni, elisioni, aggiunte e modifiche avvenute nel corso della stesura, tanto da generarne più versioni, ovvero la minuta e la redazione ufficiale (pubblicata in fondo alla Vita come finale dell’opera). Il confronto dei due esemplari della medesima epistola – uno del 1804, è conservato all’Archivio della Fondazione Centro di Studi Alfieriani di Asti; l’altro del 1807, è custodito presso la Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze – costituisce il fulcro di questa ricerca. L’analisi di questi manoscritti è aggiornata rispetto alle passate, poiché le trascrizioni precedentemente svolte sono incomplete a causa della mancanza di tecnologie adeguate per decifrare molte parole, rese poco riconoscibili dalla consunzione (inchiostro evanito, macchie di umidità, ecc.) nonché comprensibili solamente con un ingrandimento dell’immagine, poiché le numerose correzioni, accumulandosi, hanno reso oscure la maggior parte delle varianti. La trascrizione più accurata (e, nonostante la precisione, limitata per quanto spiegato poc’anzi) fu realizzata da Marco Sterpos ed è contenuta tra le Aggiunte alla Vita nelle Opere di Vittorio Alfieri da Asti (Asti, Casa d’Alfieri, 1983, vol. XXXIX, pp. 157-176). La ricerca qui proposta, inoltre, tenta un approccio più dettagliato dei contenuti della lettera, con l’aggiunta di un commento specificamente letterario, note di critica intertestuale, precisazioni storico-biografiche e considerazioni esegetiche. Lo studio è suddiviso in tre grandi sezioni: Gli affetti, La morte e Le lettere. La prima parte è dedicata al rapporto di Alfieri con le persone a lui care (la sorella Giulia, la Contessa e l’Abate); la seconda tenta di interpretare la visione della morte secondo il Poeta; la terza consiste nell’analisi filologica delle lettere selezionate. Le epistole appaiono così introdotte dall’approfondimento sull’animo di Alfieri (per quanto si riesca a raggiungerne l’essenza) e sulla sua concezione di amore e morte. Sono state aggiunte, in appendice, le fotografie dei manoscritti presi in analisi. Il lavoro filologico permette di entrare nel testo da ospite privilegiato o, considerato da un altro punto di vista, da curiosissimo intruso: qualunque sia l’ottica al riguardo, l’amore per l’Autore ha percorso interamente questo studio, non separandosi mai dall’entusiasmo per i contenuti (si aggiunga una incredibile quanto intensa affinità con il Poeta). Si è cercato sempre di trattare gli argomenti con la massima delicatezza possibile; ogni considerazione è stata riportata alla luce di riflessioni derivate dai testi osservati – lettere, poesie e Vita.
Papers by federica maria giallombardo
L’isolamento pittorico di alcuni particolari del corpo umano rende le opere astratte nella misura in cui la raffigurazione stessa rifiuta la sua possibile completezza; ciò mostra l’elevata incertezza nella sua totalità. Il tentativo di descrivere – oggi e nella storia – un soggetto sensitivamente immerso nella contemporanea elaborazione culturale non poteva che scheggiarsi, sdoppiarsi, sgretolarsi nel particolare, lasciando sospeso il discorso sull’unicum in pennellate laceranti e grumose – in altre parole, la tecnica pittorica precipita tra i frammenti di un discorso incompiuto. Il particolare diventa perciò movimento e motivo necessario nella trama narrativa delle opere dell’artista; una trama che si inerpica attendendo e aspirando la propria autonomia in uno spazio espositivo che avrebbe potuto, con la sua accecante tormentata bellezza, soffocarla senza redimerla. Un martirio non documentato perché mutilo, un dolore sordo e familiare: non restano che le macerie, che solo un occhio plagiato dalla gentilezza retorica, come quello di Castelli, può raccogliere e assimilare.
Scritti sul teatro (1961), esprimendo una sua intuizione felice, ovvero che il potere evocativo del Tragico rimane immutato nei secoli grazie alla contemplazione della sacralità del momento creativo. Sacralità assolutamente laica, tutta proiettata al di fuori, vigorosa, maschia; eppure esternata da un’intimità fragile, impreziosita dall’amor di Gloria (come dall’amor di Libertà) e, paradossalmente, presuntuosa per l’incompatibilità tra il reale e il «bollore di cuore e di mente» (Del Principe e delle lettere). La peculiare grandezza di Alfieri si deve a questa tenace indole lunatica, sempre insoddisfatta, commossa dai trionfi poetici; a volte ironica nel fallimento; a volte eccessiva nella condotta e nel rifiuto. Eppure esiste un Alfieri che scende a compromessi con il reale; e ne paga il prezzo perdendosi in un groviglio di commissioni, richieste, conti, scartoffie, formalismi imbellettati, maniere precise e impoetiche; è l’Alfieri delle epistole. In quasi tutte le lettere, infatti, si possono trovare riferimenti alla routine del Poeta: vi sono anche molti incisi di prosa sublime; ma compiono voli pindarici, precipitando nel tedio delle faccende quotidiane. Proprio per tale motivo, all’interno della corrispondenza alfieriana, spiccano le ultime lettere del Poeta: la meccanicità tediosa ripiega nel conforto degli affetti, con una sincera sensibilità tremendamente generosa, finalmente, di concedersi. Nelle lettere prossime alla sua morte, Alfieri non si abbandona a patetismi impietosenti; bensì, con lucida dignità di nobile piemontese, coinvolge il lettore, riconducendo la narrazione dell’epistolario a quella della Vita; si rende persona e personaggio allo stesso tempo, sdoppiandosi senza equilibrio – pur mantenendo una brillante eleganza. Il lavoro filologico svolto mira a estorcere, nell’analisi di un campione di lettere del
1803, le impressioni sopra descritte.
Metamorfosi speculare si palesa nella lettera dell’Abate di Caluso alla Contessa d’Albany; i sonetti in dedica al Poeta e la descrizione dei suoi ultimi giorni non solo fondono in un unico racconto persona e personaggio di Alfieri (collegando realtà e immagine ideale); ma inseriscono una nuova voce narrante che si amalgama alla precedente, rendendo Caluso stesso un personaggio dell’autobiografia del Tragico. La solennità dell’epistola rende l’Abate ultimo testimone della somma magnificenza dell’Amico; questa consapevolezza deve essere rimasta ben presente a Caluso quando
la scrisse (soprattutto nel momento in cui compose i sonetti); ciò lo si evince dalle molte correzioni, elisioni, aggiunte e modifiche avvenute nel corso della stesura, tanto da generarne più versioni, ovvero la minuta e la redazione ufficiale (pubblicata in fondo alla Vita come finale dell’opera). Il confronto dei due esemplari della medesima epistola – uno del 1804, è conservato all’Archivio della Fondazione Centro di Studi Alfieriani di Asti; l’altro del 1807, è custodito presso la Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze – costituisce il fulcro di questa ricerca. L’analisi di questi manoscritti è aggiornata rispetto alle passate, poiché le trascrizioni precedentemente svolte sono incomplete a causa della mancanza di tecnologie adeguate per decifrare molte parole, rese poco riconoscibili dalla consunzione (inchiostro evanito, macchie di umidità, ecc.) nonché comprensibili solamente con un ingrandimento dell’immagine, poiché le numerose correzioni, accumulandosi, hanno reso oscure la maggior parte delle varianti. La trascrizione più accurata (e, nonostante la precisione, limitata per quanto spiegato poc’anzi) fu realizzata da Marco Sterpos ed è contenuta tra le Aggiunte alla Vita nelle Opere di Vittorio Alfieri da Asti (Asti, Casa d’Alfieri, 1983, vol. XXXIX, pp. 157-176). La ricerca qui proposta, inoltre, tenta un approccio più dettagliato dei contenuti della lettera, con l’aggiunta di un commento specificamente letterario, note di critica intertestuale, precisazioni storico-biografiche e considerazioni esegetiche. Lo studio è suddiviso in tre grandi sezioni: Gli affetti, La morte e Le lettere. La prima parte è dedicata al rapporto di Alfieri con le persone a lui care (la sorella Giulia, la Contessa e l’Abate); la seconda tenta di interpretare la visione della morte secondo il Poeta; la terza consiste nell’analisi filologica delle lettere selezionate. Le epistole appaiono così introdotte dall’approfondimento sull’animo di Alfieri (per quanto si riesca a raggiungerne l’essenza) e sulla sua concezione di amore e morte. Sono state aggiunte, in appendice, le fotografie dei manoscritti presi in analisi. Il lavoro filologico permette di entrare nel testo da ospite privilegiato o, considerato da un altro punto di vista, da curiosissimo intruso: qualunque sia l’ottica al riguardo, l’amore per l’Autore ha percorso interamente questo studio, non separandosi mai dall’entusiasmo per i contenuti (si aggiunga una incredibile quanto intensa affinità con il Poeta). Si è cercato sempre di trattare gli argomenti con la massima delicatezza possibile; ogni considerazione è stata riportata alla luce di riflessioni derivate dai testi osservati – lettere, poesie e Vita.
L’isolamento pittorico di alcuni particolari del corpo umano rende le opere astratte nella misura in cui la raffigurazione stessa rifiuta la sua possibile completezza; ciò mostra l’elevata incertezza nella sua totalità. Il tentativo di descrivere – oggi e nella storia – un soggetto sensitivamente immerso nella contemporanea elaborazione culturale non poteva che scheggiarsi, sdoppiarsi, sgretolarsi nel particolare, lasciando sospeso il discorso sull’unicum in pennellate laceranti e grumose – in altre parole, la tecnica pittorica precipita tra i frammenti di un discorso incompiuto. Il particolare diventa perciò movimento e motivo necessario nella trama narrativa delle opere dell’artista; una trama che si inerpica attendendo e aspirando la propria autonomia in uno spazio espositivo che avrebbe potuto, con la sua accecante tormentata bellezza, soffocarla senza redimerla. Un martirio non documentato perché mutilo, un dolore sordo e familiare: non restano che le macerie, che solo un occhio plagiato dalla gentilezza retorica, come quello di Castelli, può raccogliere e assimilare.