Teaching Documents by Gianluca Caputo

Qualsiasi analisi razionale del nostro stare nel mondo ci porterebbe a concludere che la libertà ... more Qualsiasi analisi razionale del nostro stare nel mondo ci porterebbe a concludere che la libertà è inconcepibile, ciononostante non possiamo non pensare di esserlo. Avvertenze Non daremo qui una definizione di libertà (tema oltremodo analizzato in tutte le sue forme, positive e negative) ma ci concentriamo sul come essa viene vissuta ed esperita dal soggetto. Anche in questo contesto penseremo a un contesto di lavoro in classe dove questi "grandi" temi sono spesso oggetto di discussione, talvolta superficiale e troppo spesso senza una necessaria attenzione riguardo a quanto essi stiano a cuore dei discenti (molto più, ovviamente, delle definizioni che vengono loro offerte durante il corso). Quando Le occasioni in cui il tema può diventare oggetto di discussione sono molteplici ma per nostra esperienza possiamo circoscrivere alcuni momenti particolari: • Democrito o lo Stoicismo, nella classe terza • Tommaso Hobbs o Benedetto Spinoza, nella classe quarta • Rivoluzione scientifica del '900, nella classe quinta In tutti i casi dovrebbe colpirci, come insegnanti, quanto spesso freddamente vengono assorbite certe ipotesi/ teorie sull'illusorietà della libertà a favore di modelli meccanici o finalistici che pretendono che l'universo si muova secondo cause efficienti (o finali) che non lasciano spazio a nessun intervento umano (e non) arbitrario. Dovrebbe colpire perché è un chiaro segno di come i modelli filosofici proposti finiscano per diventare teoremi o idee (più o meno credibili, ma soprattutto meno) da ingoiare senza alcuna riflessione. Di fronte a una platea di adolescenti un tema come l'assenza della libertà non meriterebbe di essere liquidato come l'"idea di", ma come un invito alla riflessione sulla proprio consapevolezza di essere o meno liberi, anche quando essa (la libertà di cui ci sentiamo soggetti) sembra così scontata. Citando a memoria molte massime sul tema forse potremmo dire che la "libertà è quella cosa che nessuno conosce e per questo piace a tutti". Conoscerla, o sforzandosi di comprenderne il senso che nella nostra personale esperienza riusciamo a darle, forse la farebbe piacere meno, forse metterebbe il soggetto di fronte a un conflitto con ciò che sente di "possedere", dandola per scontata, e ciò che si rende consapevole di non saper neppure definire e quindi di conoscere, o addirittura che se focalizza come oggetto di riflessione è costretto addirittura a negare. In tribunale Eppure anche in contesti di vita quotidiana spesso mettiamo in dubbio la nostra libertà, in modo più o meno consapevole. Immaginiamo quanto spesso giustifichiamo ad esempio azioni, successi (o insuccessi) sulla base di condizioni familiari e/o economiche, istruzione ricevuta, opportunità esterne etc. Quando analizziamo a fondo ogni azione cercandone le cause prossime e remote ci rendiamo conto che lo spazio per la libertà, nella determinazione della volontà, è sempre più ristretto. Facilmente possiamo superare il dilemma mettendo l'accento sul fatto che la volontà non agisce solo secondo cause ma anche per fini e

Possiamo esprimere verità su una realtà che modifichiamo a seconda delle stesse verità che esprim... more Possiamo esprimere verità su una realtà che modifichiamo a seconda delle stesse verità che esprimiamo? Ascoltando due bambini Ascoltando alcuni bambini cimentarsi a un noto gioco da tavolo, due di essi cercano di spiegare le regole agli altri. Il primo inizia le sue sentenze così: "In verità la regola è questa, in verità questo non si può fare "; il secondo correda le sue affermazioni con altre che iniziano però con "In realtà però questo la regola non lo dice, in realtà questo si può fare". Scopro in seguito che il primo è figlia di un filosofo, il secondo di un ingegnere. Nel nostro parlato quotidiano sovrapponiamo, o scambiamo, molto spesso i due termini. Nel linguaggio quotidiano forse non è neppure un peccato così grave ma se la filosofia indossa il ruolo di critica del linguaggio forse vale la pena provare a formulare delle ipotesi sul perché lo facciamo. Verità La verità è uno di quei termini che usiamo così spesso, quotidianamente, che raramente ci interroghiamo sul suo significato anche perché, se lo facessimo, scopriremmo, terribilmente, che non si trova in quel "qualcosa" di cui parliamo, o perlomeno non è solo lì che si trova. Spesso confondiamo, nel nostro parlare quotidiano, la verità di ciò che la esprime con il suo rapporto con ciò che crediamo reale. I protagonisti di questo "gioco delle parti" possono essere tre: • Ciò che diciamo (l'enunciato) • Ciò di cui parliamo (la realtà) • La corrispondenza fra i due (il valore di verità) Quando parliamo della verità a volte, invece, la trattiamo come se fosse un concetto o, addirittura, un oggetto. Cerchiamo quindi la verità come se fosse un oggetto, qualcosa che sta fuori di noi e che in qualche modo dobbiamo raccogliere ma se la verità è nella corrispondenza di ciò che diciamo con la realtà di cui si parla, non potendo modificare la realtà, parlandone, la verità non sta nelle cose, ma di conseguenza nel nostro modo di vederle e, di conseguenza, di parlarne. La verità, o meglio il suo valore, sembra essere dunque tutta nel nostro linguaggio. Facciamo un esempio molto semplice: esprimiamo una dichiarazione qualsiasi come un bambino potrebbe quotidianamento sostenere e cioè che "il Sole è giallo". Cosa rende questa dichiarazione vera? Ovvero: dove si trova questo valore di verità? Nel Sole? Al bambino che sosterrà , probabilmente questa verità, invitiamolo a riflettere: al Sole cambia qualcosa se diciamo di esso che
Ci sono due modi per parlare della felicità: chiedersi cosa sia (e quindi quale possa essere un m... more Ci sono due modi per parlare della felicità: chiedersi cosa sia (e quindi quale possa essere un modo per realizzarla) o non chiederselo affatto.
L'anonimato permette di mostrarmi agli altri per quello che vorrei essere e quindi per come realm... more L'anonimato permette di mostrarmi agli altri per quello che vorrei essere e quindi per come realmente sono.
Provate a chiedere, in una classe, quale possa essere una società ideale. Fatelo magari al quinto... more Provate a chiedere, in una classe, quale possa essere una società ideale. Fatelo magari al quinto anno, dopo aver svolto le grandi scuole filosofiche dell'Ottocento: Socialismo, Marxismo, Idealismo e Positivismo e delle loro previsioni sulle società ideali future. Chiedete di confrontare le loro utopie con quelle conosciute in passato nei grandi modelli letterari e infine confrontate i loro modelli con la società attuale. Se non altro una bella lezione di cittadinanza ne verrà fuori.

La filosofia non ha bisogno di certezze ma dubbi e confutazioni. Con questo articolo proviamo a s... more La filosofia non ha bisogno di certezze ma dubbi e confutazioni. Con questo articolo proviamo a sovvertire una delle più granitiche certezze della storia della filosofia: che Parmenide sia uno dei fondatori della metafisica. Avvertenze Attenzione, quello che diremo in questo breve articolo non ha pretesa di valore "scientifico" né accademico. Vuole altresì essere un esempio di come la filosofia, in classe, può, anzi deve, tentare di sviluppare senso critico e pensiero "divergente" (questo uno dei suoi fini, a nostro avviso, didattici). Altrove1 infatti abbiamo sostenuto che uno dei problemi dell'insegnamento della filosofia è il suo, talvolta, riportare tesi universalmente accettate con magari lo scopo, comunque interessante, di comprenderle e confrontarle con altre simili etc. Raramente si tenta però quella strada che a nostro avviso fa della filosofia una disciplina che prepari all'approccio scientifico: quella che tenta di ogni tesi la sua confutazione, ovvero il tentare contraddirla, in modo logico e razionale. L'antimetafisica di Parmenide Solitamente, in versioni più o meno simili, Parmenide è presentato come il "padre della metafisica" (termine che sappiamo non essere da lui coniato) per l'identità sostenuta tra pensiero, linguaggio ed essere che ha tra le conseguenze (note-non faremo qua una lezione su Parmenide) che solo l'essere è pensabile. Il pensiero dunque può andare oltre quelli che i sensi esperiscono come elementi contigenti, occupandosi della realtà più autentica. Andare oltre il contingente però ha il problema di non sapere più tornare indietro, ovvero il pensiero allo stesso tempo deve escludere dall'orizzonte della verità tutto ciò che non è risponde agli stessi attributi che solo dell'essere (in quanto tale) sono pensabili. Con Parmenide però la storia della filosofia, nel suo "racconto", sembra qui subire una sorta di brusca frenata. Se la filosofia nasce difatti come ricerca di un principio che dia fondamento alla conoscenza della realtà, o meglio a ciò che di vero, autentico, immutabile si può affermare di una realtà in (apparente) continuo cambiamento, ecco che Parmenide arriva alla sentenza secondo la quale di essa possiamo affermare con certezza qualcosa solo se tutto ciò che di essa esperiamo venga rigettato come falso. Premesso che quest'ultima affermazione potrebbe essere criticata alla luce della cosidetta terza via di Parmenide (di cui abbiamo discusso altrove2), per quello che è il fine della nostra lezione, in questa sede e in generale per la tradizione filosofica, possiamo prenderla per buona. Ma se essa è buona, non è una negazione della stessa ragion d'essere della metafisica? Anche lo studente (magari tra quelli più attenti) capisce che questa conclusione mina alle basi la stessa ragione d'esistenza della ricerca filosofica fino a quel momento studiata, rischiando di metterne una sorta di pietra tombale: affermando che la ragione coglie verità che non possono essere confermate nella realtà e tantomeno possono essere fondamento o legge della stessa. Basta poi attendere qualche lezione, fino a Platone, per scoprire che questa metafisica, per iniziare a fare quello che è il suo "mestiere" dovrà essere da questi in qualche modo uccisa per essere superata. Insomma per farla breve: se la metafisica è la ricerca di leggi eterne al di là dell'esperienza ma che possano di essa essere fondamento, legge immutabile, ciò che c'è di immutabile in un modo che cambia

La filosofia che cerca esempi per essere compresa è una filosofia che si svuota da sola. La filos... more La filosofia che cerca esempi per essere compresa è una filosofia che si svuota da sola. La filosofia non ha bisogno di esempi ma di confutazioni Partiamo da una semplice congettura che preleviamo, volutamente, non da dati statistici ma solo da impressioni. Una precisa scelta, questa, dettata dal fatto che il contenuto di questa riflessione vuol discutere di una impressione e quindi i suoi dati non possono e non devono essere oggettivi: la filosofia che cerca esempi per essere compresa è una filosofia che si svuota da sola, perde il suo senso (utilità) e ottiene l'effetto opposto di quello che cerca: non viene compresa ma marginalizzata nella sua ridondanza. Sentiamo spesso, anche senza frequentare corsi specialistici, accostare la filosofia a temi quotidiani e contemporanei... come un tentativo, forse, di rendere accettabile una scienza altrimenti ritenuta lontana, stantìa e anche un pochino inutile. Allo scopo di non apparire troppo snob ci affrettiamo anche a dire che è una operazione che anche il sottoscritto fa molto spesso in special modo durante le proprie lezioni, per renderla (solo apparentemente) comprensibile agli studenti o durante le cene con gli amici per rendere (qui con qualche effetto migliore) più "importanti" quelle che sono semplici opinioni. E allora ci si chiede, ad esempio, cosa avrebbe pensato Aristotele dei social network e Spinoza delle crisi di coppia, Locke della crisi del Welfare State e Rousseau del Movimento 5 Stelle... Il sottoscritto, che si è già dichiarato colpevole, vuol porsi almeno una domanda: "Stiamo cercando di adeguare la filosofia al quotidiano per renderla più gradevole o stiamo disperatamente cercando di giustificare la sua apparente inutilità?". Giustificazione è la parola che forse in questo ragionare fa più male. Conoscere l'etica e la philia aristotelica rende lo strumento di Facebook più interessante o il suo uso più cosciente? Non rischiamo di ottenere l'effetto opposto che tutto si possa giustificare utilizzando il filosofo/ pensiero più adeguato come a fornire un ammanto di importanza/coscienza/pseudo-critica a ciò che comunque fa già parte del mio quotidiano. Non rischio, in definitiva, di usare la "filosofia" (uso le virgolette consapevolmente) per giustificare l'esistente? E nemmeno per raggiungere questo obiettivo, ma solo per quello, forse ancora più triste: di giustificare la filosofia stessa (e il sottoscritto, come molti altri, che ha speso anni della sua vita a farne uno strumento di critica e non di giustificazione). Sono consapevole che terminato questo pensiero, ripresi i miei insegnamenti, tornerò a parlare del quotidiano citando a seconda della bisogna gli "eroi della filosofia" più adatti, o, al contrario, corredando di esempi tratti dal quotidiano le profonde riflessioni di questi eroi altrimenti "astratti" e incomprensibili ma finché questa illusione non termina ci permettiamo uno sfogo che spero possa aiutarci in questa riflessione: la filosofia non solo non ha bisogno di esempi per essere compresa, in quanto gli esempi non mettono in discussione il nostro modo di pensare, che è l'obiettivo ultimo della filosofia stessa, ma ha bisogno di modelli da contraddire o, meglio, conseguenze del suo ragionare che la mettano in discussione. Non abbiamo bisogno di Aristotele per discutere del concetto di amicizia ai tempi dei social network, abbiamo bisogno dei social network, del nostro disagio (eventuale) nei confronti di quello che sentiamo come modello di attuale di amicizia per mettere in discussione gli insegnamenti che Aristotele ci ha fornito, abbiamo introiettato e che possiamo utilizzare senza neppure necessariamente citarlo.
Quando parliamo del metodo scientifico ci riferiamo, senza citarlo, a quello classico galileiano,... more Quando parliamo del metodo scientifico ci riferiamo, senza citarlo, a quello classico galileiano, quasi unico metodo possibile almeno secondo l'attuale paradigma scientifico. Ma pensare che l'introduzione di un metodo possa aver eliminato e messo in disuso un metodo precedente è una semplificazione che riteniamo doveroso chiarire raccontando quanto ancora c'è di Aristotele nella scienza attuali.

Il problema dell'Archè mi si è svelato in tutta la sua potenza quando, a pochi giorni di un esame... more Il problema dell'Archè mi si è svelato in tutta la sua potenza quando, a pochi giorni di un esame di maturità di una scuola serale (tre anni in uno) una alunna mi pose la seguente questione: " perché devo sapere che per Talete l'Archè è l'acqua quando sappiamo che non è così? ". Riconosco che uno dei problemi della filosofia è forse quello di riuscire a separare il metodo dal contenuto, giacché del contenuto, per esporre il metodo, non può (per fortuna) essere eliminato. In questa lezione, da svolgere nelle prime ore del corso di Filosofia del triennio, si tenta di affrontare il problema della ricerca del Principio come un problema di metodo. Dal mito al logos Seguendo la Teogonia di Esiodo, in principio era il Caos, lo spazio aperto, l'abisso, il Tutto non definibile e di cui, di conseguenza, non si può parlare. Ma se il Caos è già il Tutto (che quindi non esclude niente), nel Caos si trova già tutta la realtà (che se ne parli o meno). Quella che manca, e di cui la Filosofia pone come suo obiettivo e oggetto di ricerca, è la Verità, cioè poter affermare qualcosa di quel Tutto per quello che è. Si rende necessario dunque un ordine, un principio che permetta del Caos di identificare qualcosa di predicabile, che il soggetto è in grado di riconoscere (perché il Caos, per definizione, è ingiudicabile). Nella cosiddetta terza generazione degli Dei, da Chronos (il Tempo), perché ci vuole il " tempo " per mettere " ordine " al Caos, nasce Zeus. Zeus a seguito della lotta con il padre (che metaforicamente potremmo leggere come " lotta contro il tempo ") diviene padre dei dèi. Gli dèi si vedono attribuiti ognuno un proprio ruolo nella legiferazione della natura. Quella natura che è per sua definizione il regno delle cose che cambiano (che nascono, da cui l'origine della stessa parola " natura " , e quindi muoiono, sempre nel " tempo "), ma di ciò che cambia, se non se ne conoscono le cause, non è possibile esprimere alcunché di vero. Da qui il bisogno di un principio (Zeus) che dia ordine tramite leggi (gli dèi) e queste non devono essere nel tempo, ma nell'eterno, perché, appunto, non siano soggette al cambiamento. Ma è possibile comprendere queste leggi? Se viviamo nel tempo come possiamo conoscere leggi che sono eterne? Seguendo un altro mito il problema si era già posto nella teogonia greca: è necessario possedere quel qualcosa del Tutto che permetta non solo di farne parte ma di comprenderlo come il tutto stesso, occorreva qualcosa di eterno anche nell'uomo che pretende di vivere sia nel tempo che nell'eterno. Il mito in questione è quello di Dioniso. Secondo una versione di questo mito, Dioniso, figlio di Zeus (uno dei tanti), fu divorato dai Titani (smembrato, bollito, arrostito e mangiato). Zeus, per punizione, folgorò e incenerì i Titani, e, dal resto delle loro ceneri, nacque il genere umano. Gli uomini sono dunque fatti di cenere (nascono e muoiono, ovvero si aggregano e decompongono nel tempo) ma hanno anche una sorta di natura divina perché i Titani, prima di essere inceneriti, hanno divorato Dioniso, e quindi qualcosa di divino si trova nei loro resti. Dal mito di Dioniso, l'orfismo (e non a caso una buona parte dei filosofi delle origini sono orfici) trae una serie di riflessioni sulla natura umana: nell'uomo, derivato dal " vapore " dei Titani, è presente una componente dionisiaca, che ne attesta l'appartenenza agli dèi. Detto in altro modo, l'orfismo presenta una visione dell'uomo caratterizzata da due componenti: il corpo titanico e corruttibile e l'anima dionisiaca immortale. Nel corpo alberga, infatti, una sorta di " scintilla divina " , un'anima immortale e destinata a tornare agli dèi, che vive la vita nel corpo in modo innaturale, doloroso, lacerante. Al di là degli scopi dei riti purificatori
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Sugli effetti psicologici e sociali che la scuola dell'obbligo scambiata per la scuola del "tutto... more Sugli effetti psicologici e sociali che la scuola dell'obbligo scambiata per la scuola del "tutto dovuto" può comportare: l'insofferenza agli insuccessi e la mancanza di empatia. Avvertenze Questa breve riflessione nasce dopo aver letto della proposta dell'attuale Ministro dell'Istruzione Fedeli di poter accedere all'Esame di Stato con la semplice media del Sei nel complesso di tutte le discipline (e non più per ogni singola disciplina). Si tratta senza dubbio di una enorme facilitazione per un accesso che già fino adesso si può dire tutto meno che difficile a fronte di uno stesso esame che di utile ha ormai solo il dare agli studenti la possibilità di cimentarsi in una sorta di "prova generale" per la loro crescita personale, giacché sanno molto bene che il non superarla è una possibilità assai remota. Questa riflessione si allarga istantaneamente sullo stato attuale dell'istruzione nei termini generali delle sue difficoltà e dell'impegno necessario, da parte di chi si cimenta, per superarle. Pensiamo alle prove in itinere fatte per essere superate e non per misurare gli effettivi apprendimenti, alle paure dei ricorsi da parte di genitori che non accettano più che i propri figli non siano "compresi", allo spettacolo di una classe docente, di cui facciamo parte, spesso arresa di fronte a un "fronte" in cui tutti sembrano nemici: studenti e genitori ma spesso anche dirigenti e società intera. Parliamo spesso con colleghi che non vogliono più saperne di entrare ogni giorno nella ormai proverbiale "trincea" invece che in aule dove sanno che il loro compito sarebbe insegnare e non difendersi da chi da quell'insegnamento dovrebbe formarsi come uomo e cittadino e che quindi preferiscono adeguarsi ai tempi che corrono e concedersi alle richieste di facilitazione, comprensione dei problemi di tutti, sorvolando sull'effettiva comprensione della disciplina chiamati a trasmettere. Tanto si dirà: in fondo nella vita la comprensione o meno di una materia non cambierà certo la mia esistenza. Il problema è che invece cambia, e molto, l'esistenza di tutti, come proveremo a spiegare qua sotto. La scuola facile La "scuola facile" ha certamente le sue ragioni (politiche, sociali, economiche) che potremmo analizzare ma che non interessano il nostro mestiere. La scuola facile, per quanto ci riguarda, ha soprattutto le sue notevoli conseguenze che invece devono, obbligatoriamente, farci interrogare sul nostro ruolo di formatori, perché queste, sì, vanno oltre la scuola stessa e il suo modo di viverla, hanno effetto, e a lungo termine, proprio in quella società che, seppure spesso "nemica" dell'istruzione e soprattutto degli insegnanti, ci ospiterà anche come cittadini. Non temiamo soltanto gli studenti difficili, quelli a cui la scuola non è in grado di trasferire nozioni di cittadinanza e di convivenza, spesso protetti (o abbandonati) dai genitori, ma anche e soprattutto quegli studenti a cui la scuola non ha saputo insegnare uno dei principi fondamentali dell'istruzione: che per raggungere obiettivi si deve lavorare, spesso con fatica e che il raggiiungimento di quegli obiettivi è più importante della promozione. Non ha saputo insegnare, quindi, che a volte si può anche fallire.
A scuola è più importante adattarsi al mondo o immaginarne un altro?

Posso non essere me stesso? Ed essendo me stesso, posso agire altrimenti da quel che sono? Posso ... more Posso non essere me stesso? Ed essendo me stesso, posso agire altrimenti da quel che sono? Posso essere me stesso e un altro? E da quando sono al mondo, c'è stato un solo istante in cui ciò non sia stato vero? (D.Diderot in " Jacques il Fatalista ") Pippo Psicanalista Nel 1979 uscì sul settimanale "Topolino" (numero 1342), edito a quel tempo da Mondadori, una storia di Jerry Siegel (disegnata da Giorgio Bordini) che è a mio avviso una delle più ricche di spunti, sul versante cognitivo/psicologico della produzione disneyana: "Pippo psicanalista". In questa breve storia, Pippo, dopo aver seguito un corso per corrispondenza per diventare psicanalista si accorge ben presto di assumere la stessa malattia del suo paziente. Questa cosa lo rende mutevole, imprevedibile e spesso irascibile (contrariamente al suo solito carattere, quello che tutti gli amici conoscono). Pippo rappresenta quello che tutti facciamo, più o meno, quando ci confrontiamo con gli altri: ci mascheriamo per essere come gli altri ci vedono o crediamo che essi ci vogliano vedere. Pippo, inquesta storia simbolica, fa anche di più: diventa proprio gli altri, ma appunto perché è un simbolo, il simbolo della purezza e della ingenuità, che rappresenta al meglio questo nostro essere umani-camaleontici. Pippo però non è necessariamente felice di "essere gli altri", anche se la sua natura sembra non poterne fare a meno, e viene giustamente invitato dal suo amico Topolino a tornare ad essere "se stesso", facendo felice lui e quelli che si confrontano con lui. Topolino (come tutti i suoi amici) vogliono che Pippo torni però ad essere quale se stesso? Ovviamente quello che loro riconoscono! E allora ci chiediamo qual è il Pippo-Se stesso: quello che è quando per natura assume l'essere gli altri o quando è riconosciuto come tale dagli altri? "Da quando Pippo fa lo psicanalista non è più lo stesso!", si lamenta qualcuno. Topolino invita Pippo a rimettere la maschera che ha sempre avuto, quella che lo rende accettabile dagli altri. Tuttavia, nella storia si Siegel, è interessante notare come lo stesso Topolino debba utilizzare lui stesso una maschera (per non farsi riconoscere da Pippo) per far riprendere a Pippo la sua! Camaleonti Di maschere abbiamo bisogno, per non restare soli con la nostra (quella che mettiamo a noi stessi). L'idea che ci facciamo di noi stessi dipende in modo determinante dalla considerazione che gli altri hanno di noi. Tutti siamo un po' come Zelig, il noto personaggio diretto e interpretato da Woody Allen, o Pippo Psicanalista: camaleonti, ovvero diventare esattamente come le persone che ci stanno a fianco, cambiare il proprio comportamento, il proprio modo di parlare e persino il proprio aspetto: nero con i neri, psicanalista con gli psicanalisti, obeso con gli obesi, cinese con i cinesi, ebreo con gli ebrei, insomma chiunque e quantunque. Una lucida riflessione sull'ipocrisia della società moderna e sul pericolo di interferire con le libertà individuali, sulle difficoltà di integrazione che ha il singolo appartenente ad una minoranza. Zelig è la psicoanalisi di ognuno di noi, rappresenta le nostre insicurezze, la nostra volontà di assomigliare a tutti, il nostro bisogno di piacere a tutti per piacere a noi stessi.

L'essenza di ogni essere è il suo realizzarsi nell'appartenenza al genere di cui esso fa parte. S... more L'essenza di ogni essere è il suo realizzarsi nell'appartenenza al genere di cui esso fa parte. Seguendo in questo ragionamento Karl Marx, nel caso particolare del genere umano, il contrassegno decisivo di questa realizzazione è ciò che distingue l'uomo dall'animale: la capacità di creare, in un rapporto costitutivo con la natura, i mezzi per soddisfare i bisogni naturali per la propria sopravvivenza, e questo lo fa tramite il lavoro. Il lavoro Alla base della storia vi è dunque il lavoro, inteso come creatore di civiltà e di cultura. Se ci concentriamo sull'asserto che il lavoro produce cultura, aggiungiamo noi, non possiamo fare a meno di notare che il fatto è così poco evidente di per sé che siamo costretti a sottolineare, in certi contesti, che stiamo parlando di cultura del lavoro, ammettendo in pratica che possa concepirsi e praticarsi un lavoro senza cultura, senza farla e senza averne. Questo avviene perché, lungi dal considerare il lavoro come segno distintivo dell'essenza dell'uomo nella sua globalità, esso è stato diviso, all'interno dell'umanità, tra più classi sociali: i lavoratori, i proprietari dei mezzi di produzione, gli intellettuali o i tecnici; e raramente le tre classi si sovrappongono. Il lavoro da cultura diventa così alienazione ed impedisce, a chi crea, di raggiungere la piena consapevolezza, sia storica che teorica, del proprio fare. Questa divisione si è ben mantenuta all'interno della tradizione della storia dell'uomo, in tutti i domini di interesse umano, a partire da quello che per eccellenza dovrebbe essere il luogo in cui si formano gli uomini come cittadini, lavoratori e intellettuali: la scuola. La teoria dei due popoli Da sempre si parla della Scuola Italiana come di una struttura inadeguata ed incapace di formare gli studenti al mondo del lavoro. Il problema si ripresenta ogni qualvolta viene nominato un nuovo ministro dell'Istruzione, in quale, puntualmente, annuncia finalmente la tanto sospirata epocale riforma capace di riparare alla storica dicotomia tra fare e imparare. Il fatto curioso è che la singola riforma annunciata dal singolo ministro non è mai contrapposta alla riforma immediatamente precedente (sottintendendo che questa ultima non vale la pena di essere neppure ricordata) ma a all' " unica " riforma riconosciuta come tale nel nostro paese: la riforma Gentile. Per capire quanto questa storica riforma abbia influenzato il nostro modo di pensare il lavoro, dobbiamo tuttavia fare un passo più indietro. Se nello statuto Albertino la scuola come diritto non era nemmeno nominata, dopo la riunificazione dell'Italia si pose il problema di " fare gli italiani " , e questo si traduceva nella necessità di riformare una scuola a livello nazionale per avere una lingua e una cultura comune. E' interessante notare come l'obbligo scolastico si chiamasse difatti " leva " scolastica, a indicare il carattere parallelo di coercizione come l'obbligo della " leva " militare. Per la nuova Italia unita il dibattito sulla scolarizzazione si connette dunque al problema del controllo sociale, economico e politico e due erano le tesi su cui si articolava: • controllo sociale attraverso l'alfabetizzazione: dove vi è più istruzione di massa il popolo ha maggiori costumi, riconosce le leggi e le rispetta; • controllo economico e politico attraverso l'ignoranza: la teoria dei due popoli, uno che sia istruito alla dirigenza, l'altro al lavoro. Nella seconda metà dell'Ottocento la rivoluzione industriale porta un cambiamento radicale nel mondo del lavoro e in tutta la società. Le idee illuministiche che sostengono il principio
Con Parmenide la filosofia sembra essere arrivata già al suo " capolinea " : se percorro la via d... more Con Parmenide la filosofia sembra essere arrivata già al suo " capolinea " : se percorro la via della verità, devo inevitabilmente " lasciar perdere " il mondo della physis, il mondo del cambiamento e rinunciare a cercare leggi e princìpi, perché di esso, del cambiamento, non posso neppure parlare. Ma Parmenide stesso offre, forse, una via d'uscita, completata dai pensatori successivi, da Empedocle ad Anassagora. Vediamo in che modo.
La questione degli universali è spesso trattata, in un corso di filosofia, durante lo svolgimento... more La questione degli universali è spesso trattata, in un corso di filosofia, durante lo svolgimento della filosofia scolastica (quando va bene e non è addirittura saltata) e altrettanto spesso come una questione puramente accademica anche un po' fine a se stessa. La questione degli universali, uscendo dalla stretta terminologia scolastica, è invece non soltanto questione che ha attraversato tutta la storia della filosofia, dalle origini fino alla filosofia analitica contemporanea, ma rappresenta uno dei cardini della gnoseologia (quale realtà è conoscibile attraverso il linguaggio) e della epistemologia fin dalle loro origini (se sia possibile determinare, attraverso il linguaggio, i criteri per una conoscenza scientifica, quindi rispondente alle leggi della natura).
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