di Paolo Ottolina - @pottolina

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Se fosse un calciatore sarebbe una punta alla Ibrahimovic. Enorme, inamovibile, ma anche tecnica. E con qualche colpo speciale da estrarre dal cilindro.
Se fosse un giocatore di basket sarebbe un centrone colossale, ma con le mani delicate e i piedi da ballerino. Uno tipo Hakeem Olajuwon o Nicola Jokic.
Invece è uno smartphone ed è l’undicesima versione del Galaxy Note che quest’anno, come per il Galaxy S (vai alla recensione di S20 Ultra), introduce una versione “Ultra“. Come tutti i Note rimane un dispositivo extralarge, potente e con un’arma segreta: lo stilo S-Pen, che nel mondo degli smartphone resta una caratteristica unica e sostanzialmente senza concorrenti di questa serie.

Il Galaxy Note 20 Ultra, la versione che stiamo usando da un paio di settimane, però ha un’anima un po’ diversa dai tanti Note che lo hanno preceduto. La serie Note è sempre stata quella pensata non solo per per i “techies” (gli appassionati delle primizie tecnologiche, che vanno sempre bene per tutti i prodotti ad alto costo…), ma anche per un pubblico professionale. Quello che un tempo aveva il BlackBerry e che oggi cerca uno smartphone al passo coi tempi per tutte le esigenze di lavoro. Ma visto che il confine tra lavoro e privato si è fatto (ahinoi) sempre più sfumato, questi professionisti cercano – a differenza dei BlackBerry che furono – dei dispositivi che siano anche ottimi per scattare una bella foto ai figli, per vedere al meglio una puntata di una serie mentre si spostano in treno o in aereo e, perché no, anche per fare una partita a un videogame ogni tanto. Questo Note 20 Ultra vuole essere tutto questo insieme: uno smartphone grande&grosso, un blocco digitale per appunti grazie alla S-Pen, un cameraphone per foto e video di qualità, uno strumento di svago per videogame e consumi multimediali. Non è una piccola ambizione ed è parametrata al prezzo, che a sua volta non è affatto piccolo: 1.329 euro di listino (salgono a 1.429 per la versione con 512 GB di memoria interna).

Note 10 Plus (a sinistra) e Note 20 Ultra

Note 10 Plus (a sinistra) e Note 20 Ultra

Il Note 20 Ultra riesce a essere all’altezza delle aspettative? Vediamolo insieme.

Il Note 20 Ultra è un insieme molto equilibrato di cura estetica, potenza e funzionalità, alcune delle quali assolutamente peculiari. Partiamo però dalle cose che non ci sono piaciute.
Il Note è sempre stato uno smartphone enorme, fin dalla prima edizione che ci impressionò favorevolmente proprio perché, con quelle dimensioni extra-large, cambiava le carte in tavola nell’uso quotidiano. In un certo senso il Note DEVE essere enorme. Qui, con tutte le ottimizzazioni possibili di uno schermo ormai praticamente senza bordi, siamo davvero al confine con il mondo tablet. 6,9 pollici di diagonale portano l’altezza del dispositivo a 164,8 mm. Con una custodia, fortemente consigliata perché con dimensioni simili è facile far cadere a terra i 1.329 euro del Note 20 Ultra, si arriva a circa 17 centimetri. Se non siete fan del borsello, auguri a trovare una tasca abbastanza capiente da alloggiare agevolmente questo Note 20. Il peso è contenuto, si far per dire, in 208 grammi, che non sono neppure troppi vista la stazza (ricordiamo che l’iPhone 11 Pro Max pesa 226 grammi, l’Asus Rog Phone III addirittura 240).

2020-08-04_14-45-52_275Sul retro c’è un “bozzo” delle fotocamere che non passa inosservato. Samsung ha lavorato benissimo a livello di materiali: un po’ come iPhone 11, il bozzo alterna materiali opachi e lucidi, metallo e vetro, creando un insieme che è volutamente molto visibile ma che ha anche molta personalità. Può non piacere ma è probabilmente lo smartphone su cui i designer Samsung hanno cesellato i dettagli minuti (la differenza con l’S20 Ultra, dove invece il blocco fotocamera era davvero buttato lì sul retro del telefono, è abissale). Tutto quel bozzo è davvero gigantesco e, al di là, dell’estetica sbilancia completamente il Note 20 Ultra quando è appoggiato su un tavolo. Non sarebbe poi questo enorme problema (di solito quando di digita sulla tastiera virtuale si tiene il dispositivo in mano), ma il Note nasce anche per scrivere a mano. E scrivere, o disegnare, con la S-Pen su un telefono così sbilanciato diventa davvero problematico se volete usare il Note 20 come un bloc notes: balla più di un tavolino zoppo.

Infine c’è lo schermo curvo. Il display è una delle cose più belle di questo Note 20 Ultra. Enorme, come già detto, con i suoi 6,9 pollici e di gran qualità (è un Super Amoled QHD+ da 3088×1440 pixel, con supporto ai 120 Hz di refresh). Purtroppo è anche curvo ai lati. Non è una curva gentile, misurata, come quella del Galaxy S20 Ultra, che ha raggiunto un interessante punto di equilibrio tra forma e funzionalità. Qui è molto curvo. E, a parte le fastidiose aberrazioni ottiche che un display simile necessariamente comporta ai lati (sui cui Samsung per altro ha lavorato bene, smorzandole molto), qui c’è la S-Pen. E la S-Pen sul pezzetto curvo funziona male o spesso non funziona proprio. Facciamo un esempio. Un uso classico della S-Pen è: acquisizione di una porzione di schermo, annotazione e condivisione con i colleghi per segnalare un errore da correggere o un punto a cui dare attenzione. Con lo schermo curvo, andare a selezionare bene il testo che arriva ai margini è un’impresa infernale. Il principio “forma prima delle funzioni” è già deprecabile di per sé (ma evidentemente fa vendere, se molti produttori vi si conformano) ma è ancor meno accettabile su un dispositivo come il Note, che dovrebbe avere la produttività come sua stella polare. Se Samsung vuole continuare a puntare sul display curvo – ed è ragionevole lo faccia visto che lo ha inventato lei – un suggerimento potrebbe essere invertire l’angolo della curvatura: più accentuato sui Galaxy S e molto meno sui Note (n.b.: il Note 20, il modello non-Ultra, ha un pratico display “flat”).

Screenshot_20200828-174503_Air commandLe cose apprezzabili di questo dispositivo invece sono tante. Molte sono quelle che da sempre distinguono i Samsung di fascia alta. La dotazione hardware in primis. Detto dello schermo, davvero ottimo anche se la frequenza a 120 Hz  può essere utilizzata solo impostando il display in FullHD+ e non in QHD+ (sinceramente, si vede una differenza concreta? No). La luminosità di picco è eccezionale: 1500 nits, che si traduce in un’ottima visibilità in qualunque condizione.
Ci sono ben 12 GB di Ram, 256 GB (o 512) di spazio dati, espandibile con micro SD (e non sono più molti gli smartphone top di gamma a permetterlo). Avevamo qualche timore per la batteria. L’autonomia dell’S20 Ultra era tutt’altro che degna di nota e anzi arrivava a una sufficienza stiracchiata. C’era qualche legittima preoccupazione, considerato che lo schermo è ancora più grande, che la batteria è più piccola (S20: 5.000 mAh; Note 20 Ultra: 4.500 mAh) e che il processore è lo stesso, l’energivoro Exynos 990. Invece Note 20 Ultra si comporta un po’ meglio dell’S20 Ultra. Non siamo di fronte a un campione di autonomia e neppure a un ottimo risultato, ma con un utilizzo standard, da telefono business (molte mail in push, messaggi, navigazione, documenti Office e pdf, annotazioni con la S-Pen, un po’ di streaming musicale e video), si arriva serenamente a fine giornata. Le cose peggiorano quando si prova a usare un po’ di più app che fanno scaldare molto lo smartphone, come giocare o girare video in alta risoluzione (4K o 8K). Allora sì che l’autonomia decresce rapidamente e si arriva a fine giornata con percentuali risicate di batteria o si rischia anche di rimanere a secco.
Il miglior risultato rispetto a S20 è merito di una miglior ottimizzazione dell’Exynos 990 ma anche e sopratutto della frequenza di aggiornamento del display variabile: quando non serve, per pagine web statiche o documenti di testo ad esempio, scende e non resta inutilmente fissa a 120 Hz. Nella confezione è comunque presente un alimentatore per ricarica rapida a 25W (in 1h40’ si va da 0 a 100%) e – ovviamente – il Note 20 Ultra è compatibile con la ricarica wireless e può alimentare a sua volta altri dispositivi (come le nuove cuffiette Galaxy Buds Live) con la ricarica a induzione inversa (Wireless reverse charge).
E’ compatibile con il 5G, è dual sim con supporto anche alle eSim, l’aggancio alle reti è stabile anche in aree con poco segnale, è impermeabile IP68 e considerata la presenza della S-Pen è un’ottima e non banale cosa. Manca invece il jack per le cuffie. Ha anche l’UWB, protocollo per condividere file e documenti con altri smartphone in prossimità compatibili con questa tecnologia, finora vista solo sugli iPhone più recenti.

Hardware a parte, il Note resta unico nel panorama per almeno due aspetti. Al primo abbiamo già fatto cenno: la S-Pen. Ogni anno il pennino viene un po’ migliorato, si raffinano le funzioni e se ne aggiungono di nuove, anche se la maturità di questo accessorio è stata raggiunto da anni. Sull’Ultra, grazie al nuovo display a 120 Hz, il tempo di risposta dello stilo scende a soli 9 millisecondi: scrivere e disegnare diventa un gesto ancora più naturale e piacevole. Ci sono molte funzioni utili, come quelle per gestire l’autoscatto come con un telecomando. L’app Samsung Notes è molto migliorata, così come il riconoscimento del testo scritto, davvero molto buono. La nuova S-Pen introduce poi nuove Air Actions per controllare lo smartphone muovendo lo stilo nell’aria: in verità, almeno per questo aspetto, i movimenti sono un po’ cervellotici e funzionano ogni volta ogni tanto. Dopo un po’ li dimenticherete, senza rimpianti.

L’altro punto di eccellenza e peculiare di questo Note 20 Ultra è la capacità di essere utilizzato come un’alternativa a un classico computer o un’integrazione a esso. Intanto c’è DeX: è un software Samsung che permette di collegare gli smartphone compatibili a un monitor esterno e che permette di usare le app con un’interfaccia in modalità desktop. Collegando mouse e tastiera (bluetooth) si ottiene la possibilità di lavorare in trasferta, magari da una camera d’hotel, bene quanto alla scrivania dell’ufficio ma senza portarsi il notebook dietro: le app Office, ad esempio, sono compatibili. Note 20 Ultra fa un passo avanti: introduce la possibilità di far funzionare DeX completamente senza fili. Basta avere uno schermo, un tv ad esempio, compatibile con Mirrorlink. Si parla quindi di moltissimi modelli, non solo Samsung, e anche piuttosto datati. Abbiamo usato DeX in modalità wireless con un tv Samsung del 2019 e tutto funziona in modo perfetto e molto fluido. Il Note, inoltre, si può trasformare in un touchpad: molto comodo per una presentazione pubblica ad esempio.
Inoltre, grazie alla partnership tra Samsung e Microsoft, la gamma Note 20 avvia un’integrazione con Windows 10 davvero interessante. Qualcosa di simile esiste solo all’interno del mondo Apple, tra dispositivi iOS e Mac. Qui c’è il vantaggio che va bene un qualunque Pc. Con Note 20 è possibile eseguire le app Android all’interno di Windows 10. Un’integrazione che avviene tramite le app Your Phone (Il tuo telefono) per Windows 10 e Link to Windows (Collegamento a Windows) per Android. È persino possibile aggiungere le app alla barra delle applicazioni o al menu Start, proprio come si farebbe con un applicativo nativo di Windows 10. Al momento però questa possibilità non è attiva su tutte le app e non tutte gestiscono mouse e tastiera. In più le due aziende hanno lavorato su altre compatibilità: ad esempio gli appunti di Samsung Notes possono essere sincronizzati con l’app OneNote e con il feed OneNote di Outlook; oppure Samsung Reminders con Outlook, Microsoft To Do e Teams.
E se siete interessati anche al gaming, Note 20 fa comunella con Microsoft offrendo compatibilità con Xbox Game Pass Ultimate (per i pre-ordini del Note c’erano anche 3 mesi del servizi offerti insieme a un game controller), il servizio di giochi in streaming che andrà a far concorrenza a Google Stadia.

Infine, la fotocamera. Note 20 Ultra spinge ancora più in alto il livello già eccellente raggiunto con S20 Ultra. Ci sono due sensori già visti su S20 Ultra: il principale è un 108 Megapixel ƒ/1.8 stabilizzata otticamente, l’altro è un 12 Megapixel ƒ/2.2 ultra-grandangolare. Infine c’è un’ottica zoom (12 MP ƒ/3.0) con lenti periscopiche che spingono l’ingrandimento ottico a un notevole 5X. Una combinazione di sensori che funziona davvero bene e offre una grande versatilità. Difficile rimanere delusi dagli scatti, davvero molto buoni in qualunque situazione, compresi quelli notturni. Rispetto a S20 qui arriva un autofocus laser che migliora nettamente i tempi di messa a fuoco.
Per i video abbiamo apprezzato la nuova modalità Pro: non solo permette di intervenire manualmente sui parametri ma introduce un utile controllo sulle fonti auto. È possibile scegliere di registrare solo con i microfono posteriori, solo con quelli anteriori, con tutti quanti oppure con una fonte esterna come un auricolare Bluetooth. Davvero comodo per gli aspiranti videomaker (su iPhone ad esempio una soluzione simile è ottenibile con app di terze parti).

IN CONCLUSIONE

Ci sono voci che questa potrebbe essere l’ultima uscita agostana per la serie Note che, sempre secondo questi rumor, andrebbe sostituite da un modello pieghevole Fold e/o accorpata ai Galaxy S come variante con S-Pen. In effetti è già così e non da quest’anno. Via via il senso della serie Note si è perso, con i Galaxy S che diventavano grandi quanto i Note e on i Note che diventavano stilosi e versati nel gaming e nella multimedialità quanto i Galaxy S.
Se così fosse, se il Note 20 Ultra fosse l’ultimo Note della serie, beh allora sarebbe un degno finale. Al di là dei difetti che abbiamo elencato a inizio pezzo, la remora più grossa sull’acquisto di un Note 20 Ultra resta il prezzo. Un listino di oltre 1.300 euro resta di difficile appetibilità anche per un dispositivo che sa far così tante cose, e così tante cose al meglio, come questo maxi-smartphone di Samsung. I tanti produttori cinesi, ma anche la stessa Samsung, hanno in listino una serie di alternative a prezzo molto, molto più appetibile. Non avranno la S-Pen e altre chicche (fotocamere, integrazione con Windows 10, DeX wireless) di questo Note 20 Ultra, ma sono in grado di intercettare il 98% dei bisogni di qualunque utente. Compresi quei professionisti danarosi a cui il Note 20 Ultra strizza l’occhio.

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Philips Hue Play HDMI Sync Box_Gaming STRISCIATADa sempre Philips ha un punto di forza sui suoi televisori: Ambilight. Se ne avete visto uno all’opera a casa di un amico o in negozio sapete di cosa parliamo, perché l’idea è originale ed è esclusivo appannaggio dei  tv olandesi (che oggi sono di TP Vision, a sua volta controllata dalla TPV di Hong Kong). Ambilight sfrutta una serie di led per “estendere” il piccolo schermo, proiettando giochi di luce coordinati con i colori mostrati in quel momento dal pannello del tv. Che cos’è la Philips Hue Play HDMI Sync Box che abbiamo provato? Un’idea per portare Ambilight su tutti i televisori, ma anche qualcosa di diverso, che si inserisce perfettamente nella filosofia delle luci Philips Hue. Le Hue non sono solo delle lampadine Led smart, controllabili tramite un’app (oggi anche con la voce tramite Alexa o Google Home). Sono ormai una famiglia completa di prodotti che allarga l’idea stessa di illuminazione, trasformandola da puramente funzionale (luce/buio) in qualcosa di “emozionale”, grazie alla capacità dei led di essere dimmerabili (è possibile regolarne l’intensità) e di cambiare colore fino a 16 milioni di diverse possibili tonalità.

Ma facciamo un passo indietro.

Immagine, suono e luce. Sono questi i tre elementi per “vedere bene” un film o una serie sul piccolo schermo domestico, che poi tanto piccolo ormai più non è visto che i televisori Lcd o Oled partono da 55 pollici per salire a 65, 75 e anche oltre. Chi è interessato a quello che una volta si chiamava Home Theater  è di solito attento alla qualità dell’immagine del tv che si mette in casa. Quanto al suono, i tv piatti non sono il massimo ma sempre più spesso si affianca una soundbar (più raramente un “vero” impianto surround 3.1, 5.1 o 7.1) che migliora e di molto la situazione.
Sul terzo punto, quello delle luci, la situazione è un po’ diversa. Immaginare e realizzare una buona illuminazione domestica non è semplice, anche per motivi pratici. L’arrivo delle luci Led ha complicato le cose, introducendo anche presso i profani (noi tutti, più o meno) unità di misura quali Lumen, Lux e gradi Kelvin. Quando poi si parla del salotto o comunque dell’angolo di casa dove il televisore è collocato si entra in un terreno ancora più specifico, da addetti ai lavori ma anche legato profondamente ai gusti personali. Meglio vedere con la stanza tutta buia? Con una luce d’ambiente soffusa? Con la stanza buia ma con la luce che filtra da un locale adiacente illuminato? Ognuno ha le sue preferenze.

IMG_1058Con le nuovi luci Led smart è possibile però immaginare non solo un’illuminazione sensata per la stanza ma anche modificarla alla bisogna, passando da luce di lettura a luce potente fino a luce adatta ai nostri occhi che guardano la tv. Philips Hue Play HDMI Sync Box sfrutta quest’ultimo concetto. è uno scatolotto compatto dall’installazione piuttosto semplice. In confezione c’è un trasformatore con possibile di alimentare fino a 3 dispositivi (il Box e due luci ad esempio). Poi va collegato al tv tramite una porta Hdmi; sul retro ha 4 porte Hdmi per accogliere fino a 4 dispositivi. In questo modo fa anche da switch nel caso avessimo troppi dispositivi e non abbastanza porte Hdmi sul televisore. La commutazione da un dispositivo all’altra è gestita in maniera automatica dal Sync Box e funziona piuttosto bene, anche se ho avuto qualche problema con la Ps4, quand’era accesa in contemporanea alla Apple TV 4K. Per funzionare è necessario un Bridge Hue.

Poi si passa al software, che gioca un ruolo chiave. Si parte dall’app Hue, quella che si usa anche per le normali luci smart Philips, creando una area intrattenimento.
Si associano le luci Hue a disposizione: io ho avuto in prova due Hue Play, pensate proprio per l’uso in tandem con gli schermi domestici, e due lampadine Hue White and Color E27.
Si dice all’app dove sono collocate e a che altezza, infine si passa all’app Hue Sync, che è un’applicazione a se stante.

(da notare che le luci inserite nell’Area intrattenimento non vanno  escluse dalla normale illuminazione; vanno in modalità “sincro” solo quando il televisore è acceso)

IMG_1057Tramite l’app Hue Sync si dà il via alla sincronizzazione vera e propria. Ci sono tre modalità: Video, Gioco e Musica, a seconda che si voglia far modulare le luci in base a quanto compare sullo schermo, in base al videogame che si gioca o in base al ritmo della musica (quella di un contenuto video o tramite app quali Spotify o Amazon Music). La musica è quella con l’effetto migliore: si può trasformare la stanza in una piccola, ma impressionante discoteca, con luci e suoni che variano all’unisono. L’app permette di modulare l’intensità luminosa e la “reattività” delle luci (ci sono 4 livelli, da blanda a molto alta).
Con i film, le serie o con i giochi l’effetto è quello di Ambilight. Perché sia efficace bisogna posizionare in maniera ben ragionata le luci (una parete chiara di fondo aiuta, se invece come nel mio caso dietro al tv c’è un mobile con libri o altri oggetti la riflessione della luce perde un po’ di senso e bisogna studiare un setting diverso).  Il risultato, dopo un po’ di tentativi, è decisamente piacevole e non distrae dalla visione.

Ecco l’effetto durante una serie: le luci si adattano al colore dominante in quel momento e modificano il colore e l’intensità di conseguenza. (se il video non funziona lo potete aprire su YouTube cliccando su questo link)

Immagine anteprima YouTube

Restano diversi limiti. Quello principale è che Hue Sync Box non funziona se vedete tutti i contenuti direttamente dalle app della vostra smart tv. Serve necessariamente un box esterno che permetta allo “scatolotto” Philips di analizzare il segnale audiovideo. Io ho provato una Apple Tv 4K, una Amazon Fire Stick 4K, un box di Tim Vision e una Ps4 ma può funzionare benissimo ad esempio con un decoder satellitare, Sky o tivùsat.
philipshuebridge

Il secondo problema è che il box Philips non gestisce i formati video più sofisficati e di maggior qualità. Con contenuti Dolby Vision o Hdr 10+ il box fa da “passante” (i video si vedono correttamente al tv) ma le luci non si sincronizzano. Paradossalmente quindi sono penalizzati i tv di fascia alta, quelli che di solito comprano proprio le persone interessate a un’esperienza home theater completa e che potrebbero essere quindi più ingolosite da una soluzione come quella Philips.

Se comunque fate parte di questa platea, e soprattutto se apprezzate già le Hue, questo Philips Hue Play HDMI Sync Box è un’aggiunta che può dare una marcia in più alle visioni casalinghe. Che in tempi di cinema chiusi abbiamo imparato ad apprezzare ancor più di prima.
Il prezzo è però una variabile non secondaria. Si parte dai 249,95 euro per il Sync Box, cui vanno aggiunte le eventuali luci da collocare accanto al tv. Il pacchetto con due Hue Play ad esempio costa di listino altri 130 euro, una striscia led LightStrip (ottima soluzione per un televisore) si porta a casa con 70-80 euro.

IMG_0995Nell’epoca delle quarantene, del cosiddetto smart working e delle videolezioni, tutte le famiglie hanno scoperto (o riscoperto) l’importanza di una buona connessione Internet domestica. E quindi di un buon wifi. Se vivete in un appartamento non troppo grande probabilmente non vi siete mai posti il problema del wifi: il segnale che diffonde il modem-router che vi ha dato il fornitore di accesso è più che sufficiente a coprire tutte le stanze. Ma se vivete in una casa più grande, magari su più livelli, o anche in un’abitazione non troppo estesa ma con molti muri portanti in cemento armato o con pareti antiche e spesse, allora vi sarete accorti che il segnale wifi fatica ad arrivare in alcune stanze. Oppure non arriva affatto. Questi ragionamenti valgono, a maggior ragione, per uffici, negozi o superfici commerciali che, per loro natura, possono essere molto più grandi di un classico appartamento. Per superare i problemi legati alla portata limitata del wifi, da tempo esistono i cosiddetti extender, accessori che si collegano alla rete del router  e generano una rete “figlia” che copre un’area ulteriore. La gestione di questi oggetti non è sempre banale per chi è digiuno di questioni tecniche legate alle reti. Per questo negli ultimi anni sono arrivati sul mercato apparati che sfruttano il concetto di wifi mesh.

Che cos’è una rete mesh? È una rete formata da un gruppo di dispositivi che lavorano insieme: la copertura è generata  da più dispositivi, collocati in punti diversi e per questo in grado di coprire un’area superiore a quella di un singolo router. Agli occhi dell’utente risulta però un’unica rete wifi. In una rete wifi tradizionale, il telefono o il notebook (o il dispositivo per la smart home) sono connessi a un singolo router, da cui passano tutte le comunicazioni: più ti allontani dal router più il segnale è debole, fino a scomparire. Con un sistema mesh si può collocare un singolo punto d’acceso dove è necessario, in modo da avere sempre un buon segnale.

Nest Wifi è l’erede di Google Wifi, di cui avevamo parlato in questo articolo. Che cosa cambia? Il concetto rimane lo stesso, ma il design è tutto nuovo e Google ha inserito una novità gradita: tutti i “satelliti” per diffondere il wifi sono anche degli altoparlanti smart con l’Assistente Google.

IMG_0993Il punto chiave del sistema mesh di Google è la semplicità. Il dispositivo principale non è un modem: va sempre e comunque collegato al modem-router fornito dall’operatore. Poi si installano gli (eventuali) punti di accesso supplementari. La disposizione nella casa va studiata con intelligenza, collocando questi satelliti in maniera strategica, in modo da coprire tutte le stanze nel modo migliore. In pochi minuti si porta a termine la configurazione tramite l’app Google Home. Con il precedente Google Wifi si utilizzava l’app omonima che, curiosamente (e un po’ confusamente), resta necessaria se si vuole entrare nei settaggi avanzati della rete wifi. Il 99% degli acquirenti di un sistema come Nest Wifi non avrà però bisogno delle impostazioni avanzate, accontentandosi degli automatismi previsti dal sistema. L’app Google Home è il vero punto di forza del sistema e permette di accedere a tutte le funzioni principali con una grafica chiara e intuitiva. Si possono effettuare test per controllare la velocità di rete, attivare una rete Guest per gli ospiti e poi ci sono le interessanti funzioni di Parental control. È possibile impostare restrizioni di orario al funzionamento del wifi in base a certi orari o a certi dispositivi (quelli dei figli, anche creando dei gruppi che tengano insieme più dispositivi). Si possono bloccare certi siti e filtrare la navigazione grazie a Google Safesearch (genitori, sapete che potete attivare questa funzione sul motore di ricerca, vero?). Se non ricordate bene la password e dovete collegare un nuovo dispositivo alla rete Nest avrete “mostra password” bene in evidenza. Potete poi dare priorità a un dispositivo e attivare una Modalità gioco che ottimizza il traffico di rete per Google Stadia.

Screenshot_20200501-190203Accedendo alle impostazioni avanzate, come detto, verrete rinviati all’app Google Wifi. Qui potrete intervenire sui classici parametri dei router quali Dns, UPnP, gestione delle porte.

Come va la rete creata da Nest Wifi?

Non aspettatevi miracoli. Non si comprano questi sistemi mesh per raggiungere chissà quali velocità fantascientifiche. Per altro Nest Wifi non è compatibile con Wifi 6, lo standard più evoluto del wifi, che in questo 2020 sta arrivando con altri sistemi wifi mesh come Orbi di Netgear (che stiamo provando) o ZenWifi AX di Asus, comunque più costosi della soluzione Google. Nei nostri test, con il solo router abbiamo rilevato una capacità di rete e una portata del tutto analoga a quella del modem-router fornito dal provider (un Home&Life Hub di Wind Tre, per la precisione). Nelle stanze dove i muri portanti di cemento smorzano il segnale del modem-router fino a rendere la rete inutilizzabile, anche il router di Nest Wifi non fa miracoli: è consigliabile dunque acquistare per lo meno il pack con 2 dispositivi (Nest router + 1 satellite) se avete problemi di portata del wifi. Dove invece non ci sono ostacoli si superano i 700 Mbps in download con una connessione in fibra FTTH. Google ha migliorato le performance di rete di questo Nest Wifi (è AC 2200, il router e AC 1200, i punti di accesso) rispetto alla precedente generazione Google Wifi (era tutto AC 1200), ma senza raggiungere comunque la qualità complessiva di Netgear Orbi che resta la soluzione più costosa ma anche più performante da noi testata  finora.

Tra le cose più piacevoli del set Nest Wifi c’è senza dubbio il design. Sia il router che i satelliti dei vasetti arrotondati, molto compatti, dal diametro intorno ai 10 cm (poco meno i satelliti e poco più il router). La plastica con cui sono costruiti è piacevole al tatto e per il 45% viene da materiali riciclati. Google ha pensato Nest Wifi per essere collocato su mensole e tavolini. Ben in vista, non nascosto come i classici, brutti router di una volta (ormai, in verità, molti router hanno un design piacevole o per lo meno interessante).
Le ridotte dimensione dei Nest Wifi però portano con un sé un problema, uno di quelli per me più rilevanti su un oggetto di questo tipo. Il router Nest ha solo una porta Ethernet disponibile, mentre sui satelliti non ve ne è neppure una. Quando si crea una rete mesh è molto pratico collegare ad essa tutti i gateway per la smart home (termostati, luci smart, etc) e gli eventuali Nas domestici, in modo che questi apparati siano sempre controllabili da smartphone/tablet/pc, che gioco forza verranno agganciati alla rete wifi mesh (e non a quella del modem-router del provider, che non copre tutta la casa).

IMG_0996Come  suona

Altro punto di forza, ma anche di debolezza, della soluzione Google è la parte audio. È una gran bella idea quella di unire in un unico oggetto dei dispositivi che per fattezze sono molto simili: smart speaker e satelliti del sistema mesh. Qui è esattamente così e questo permette di risparmiare una preziosa presa elettrica (non ce ne sono mai abbastanza) e di creare non solo un sistema per estendere il wifi ma al contempo anche sistema di audio multiroom. In più c’è anche l’assistente vocale (Google Assistant) sempre a portata di “Ok, Google”. Potete anche utilizzare l’Assistente per fare uno speedtest: basta chiedere “Qual è la velocità Internet?”.
Il rovescio della medaglia è che, nella volontà di contenere le dimensioni, i satelliti del Nest Wifi sono esattamente dei Nest mini dal punto di vista audio. Ovvero la versione migliorata del Google Home mini: ottimi per sentire podcast, webradio o audiolibri; appena sufficienti  se siete audiofili. Senza arrivare alle dimensioni extra-large e alla qualità sonora di un Echo Studio si poteva però forse fare di meglio, come è riuscito alla già citata Netgear con il suo Orbi Voice o ad Asus con Lyra Voice  (entrambi si appoggiano ad Amazon Alexa). Il router Nest inoltre non ha gli speaker, con una scelta non del tutto comprensibile. Dai punti di accesso è possibile effettuare o ricevere chiamate audio con Google Duo: i led integrati si accendono di colori diversi per le diverse funzioni (di blu per Google Duo).

Infine, i prezzi e le disponibilità: Nest Wifi è disponibile nel pacchetto composto da un router e un punto di accesso al prezzo di 259 euro, mentre l’acquisto del solo router (che ha poco senso) Nest Wifi richiede 159 euro; i singoli punti accesso Nest Wifi richiedono altri 139 euro a pezzo. I componenti del predecessore Google Wifi restano compatibili con questa nuova versione.

IMG_0961Huawei P40 Pro è il miglior smartphone possibile da comprare se vi sta molto, molto sulle scatole Donald Trump. O il migliore se volete restare alla larga dall’invadenza di Google. O ancora, più sul serio, se cercate un eccellente cameraphone e vi curate poco (ma molto poco) del resto. Perché il P40 Pro è una fuoriserie. Costretta a correre su tre ruote. La quarta gliel’ha sfilata l’amministrazione degli Stati Uniti con l’ormai nota e irrisolta vicenda che ha sottratto a Huawei la disponibilità delle app di Google, del Play Store e degli importantissimi Google Mobile Services (GMS).

Com’è fatto

Il P40 Pro è una meraviglia da tenere in mano. È alto come un iPhone 11 Pro Max, ma più snello, pratico da impugnare con il suo display allungato. È il più compatto tra i top di gamma del 2020 (sì, gli smartphone stanno diventando enormi): pesa tanto, 206 grammi, ma meno di altri come il già citato iPhone ed è nettamente più basso di colossi come Oppo Find X2 Pro o Samsung S20 Ultra.

Lo schermo si curva sui 4 lati, non solo su quelli lunghi come ormai da anni fanno i Galaxy S e Note di Samsung, ma anche sopra e sotto. L’effetto non piacerà a chi preferisce i più pratici schermi piatti, crea qualche problema con il design di alcune app, ma è di grande impatto estetico: il P40 Pro sembra un ciottolo levigato, con il bel display Oled da 6,58 pollici (2640×1200 pixel, 475ppi) che abbraccia l’intero profilo in metallo, con l’eccezione dei 4 angoli. A differenza del Mate 30 Pro per fortuna qui i tasti del volume sono fisici e non virtuali.
L’accesso biometrico è affidato all’impronta sotto lo schermo o al riconoscimento 2D (non 3D) del volto (entrambi velocissimi).
Il retro, almeno della versione Silver Frost che stiamo provando (foto in alto), è in vetro ma trattato con un particolare effetto, insieme opaco (anti-ditate) ma con riflessi luminescenti. Al tatto è setoso. Un risultato elegante e originale insieme, bello da vedere e da tenere in mano. Il telefono è certificato IP68 per la resistenza ad acqua e liquidi.IMG_0965

L’hardware

Se dal punto di vista costruttivo il P40 Pro è una bellezza, l’hardware è al livello dello standard elevatissimo cui Huawei ci ha abituato negli ultimi anni. Il processore Kirin 990 è un’evoluzione dei già convincenti 980 e 970. Spinge forte il sistema e consuma poco: la batteria da 4.200 mAh dura molto, grazie anche alla gestione aggressiva dei processi (app terminate se consumano in background) e all’assenza dei servizi Google, che hanno un impatto non trascurabile sulla batteria.
Gli 8 + 256 GB di memoria sono più che adeguati, la connettività è  5G ma manca il Wifi 6.
Il telefono è dual sim “fisica” oppure in configurazione Sim 1 + eSim per lasciare spazio a una nanoSD  (standard proprietario di Huawei) se non vi bastassero i 256 GB di memoria interna. Lo speaker è potente ma non è stereo.

La fotocamera

La fotocamera è una dimostrazione palese di forza di Huawei, un simbolo degli enormi investimenti in ricerca e sviluppo che l’azienda fa da anni. Il sensore principale da 50 Megapixel è il più grande oggi installato su uno smartphone con il suo 1/1,28” pollice e uno dei più grandi di sempre in questa categoria di prodotti (solo il mitologico e sfortunato Nokia 808 ne aveva uno più grosso). Il set di ottiche è completato da un teleobiettivo da 8 Megapixel con lenti periscopiche con ingrandimento ottico 5X (ibrido 10X) , da una “Cinelens” ultra-grandangolare da 40 Megapixel molto luminosa (F/1.9) che si usa anche per i video con stabilizzazione digitale; infine un TOF per i ritratti.
Il risultato è un set molto-completo e molto qualitativo. Le foto sono assolutamente convincenti in tutti i contesti, benché l’assistenza dell’AI (Intelligenza artificiale) continui a essere invasiva e non sempre efficace (di default è disabilitata e lasciatela così). Le foto notturne “tirano su” la luce in maniera impressionante, anche se i risultati siano assai innaturali, con una fastidiosa dominante verde e cieli che diventato viola/grigiastri.

(cliccate sulle foto per vedere le immagini in dimensione originale)

Com’è la faccenda che manca Google

Insomma, P40 Pro è una meraviglia ma è privo delle app di Google, del Play Store e dei GMS, i Google Mobile Services (poi spieghiamo cosa sono).
Rispondiamo a due domande.

1)     Si può vivere senza le app di Google?
Sì, anzi “ni”

2)     Si può vivere – in Occidente e nel 2020 – senza i Google Mobile Services?
No.

Partiamo dal punto 1.
Ognuno ha un rapporto più o meno assiduo con le app di Google, ma è certo che quasi tutte fanno parte del ristretto circolo dei software più utilizzati, su Android ma direi anche su iOS: Gmail, Google Maps, YouTube, Chrome, Google Drive, Google Foto, Google Home, l’Assistente. (Poi c’è il Play Store, ma di questo ne parliamo dopo).
Per alcune di esse è possibile andare alla ricerca di alternative. Più o meno valide.
Outlook in vece di Gmail, Onedrive o Dropbox per Google Drive, Amazon Photos per Google Foto, Firefox o Edge (o Brave o Opera o un altro browser) per Chrome.
Un po’ più complesso è fare a meno di Maps ma c’è Waze che funziona ed è un’alternativa di tutto rispetto (c’è anche Here Maps, volendo). YouTube può essere fruita, con molti fastidiosi limiti, via browser oppure con l’ottimo NewPipe.
Se siete strettamente legati al mondo Google comunque tutto questo comporta tempo e cambiamenti di abitudini, non è affatto indolore: se avete un archivio di anni su Google Foto abbandonarlo è penoso. Idem se avete una simbiosi di lustri con GMail o con Drive.
Per alcune delle app Google però tutto questo non è semplicemente possibile. Non le potrete usare sul P40 Pro.Screenshot_20200417_122634_com.velux.active

Veniamo al punto 2, i GMS.
Alcune delle app Google sono ancor più strettamente intrecciate ai GMS, i Google Mobile Services. Di cosa parliamo? Del “pacchetto” che Google impone di fatto a tutti i produttori Android, un sistema che è open source (ed è la base che utilizza Huawei). Dentro ci stanno molte delle app Google di cui sopra. Ma ci stanno anche le API (Application Programming Interfaces) che permettono agli sviluppatori cose fondamentali su Android. Tipo usare Google Maps per mostrare la posizione in un’app o sfruttare Google Drive per memorizzare i dati di backup o ancora fare login sfruttando username e password di Google (Google Sign-in). Iniziate a capire il problema?

Su P40 Pro non avrete a disposizione un assistente vocale.
Non potrete collegare il P40 alla macchina perché Android Auto non va.
Non potrete pagare in modalità contactless con lo smartphone.
Avete a casa dei Google Home o una Chromecast? Inutilizzabili.
Family Link per controllare gli smartphone dei ragazzi di casa? Scordatevelo.

Ma c’è di più. Anni e anni di chat di WhatsApp che su qualunque altro telefono sincronizzate con il backup su Google Drive? Persi (si può faticosamente sincronizzare trasferendo una cartella di sistema ma non è alla portata di tutti).
Le tessere fedeltà salvate su Stocard? Dovrete ri-scansionarle tutte.
I progressi sul tal giochino sincronizzati via Google Play? Andati.

Le app per la consegna di cibo a domicilio e quelle per lo sharing dei mezzi non funzionano senza Google Maps (qualcuna può funzionare via browser). Non posso comprare biglietti del treno su Trenord.
Ancora peggio? La maggior parte delle app per l’home banking non c’è e qualora riusciste a installarne una non permetterà l’operatività tramite il token in-app per motivi di sicurezza (manca la certificazione Google Play Protect).
Non potete utilizzare lo SPID con i servizi digitali della pubblica amministrazione.
Male anche le app della smart home: con il P40 non ho avuto modo di controllare il mio robot aspirapolvere Neato, le finestre Velux o utilizzare il geofencing con le camere di sicurezza Arlo  (le luci Philips Hue, il termostato Honeywell e le camere Logitech Circle invece funzionano).

In qualche modo i vari Netflix e Amazon Prime Video e Disney+ funzionano ma, senza i DRM Widevine (che sono di proprietà Google), vanno solo in bassa definizione (niente HD), con una qualità modesta che non rende merito al bel display del P40 Pro.

Insomma, avete capito il problema.

I limiti su un telefono privo di Play Store e di certificazioni Google non sono piccoli. Non sono affatto modesti fastidi. Non si tratta della banale sostituzione di Chrome con un’altra app per navigare o di tornare ai tempi di Windows Phone quando eri costretto a utilizzare YouTube via browser.

Il mondo di oggi gira pesantemente intorno alle app e quelle legate a doppio filo ai GMS sono tante, molte più di quelle che io stesso immaginavo

Anche se di tutte le app che ho sopracitato non ne utilizzaste neppure una, con un telefono privo di GMS vi mettete in una condizione di potenziale disagio. Domani potrebbe non essere compatibile con l’app dell’oggetto smart appena comprato, cosa che renderà il dispositivo più o meno un soprammobile. Oppure potrebbe capitare che il servizio che si è reso improvvisamente indispensabile nella vostra vita (il coronavirus ci ha insegnato il significato di “emergenza”…) non sia utilizzabile perché manca l’appoggio delle Google Maps.

Questo discorso vale a maggior ragione per uno smartphone flagship che costa più di 1.000 euro (1.049 euro di listino) e che, si suppone, venga acquistato per essere usato in maniera completa, profonda, da vero computer da taschino quale è uno smartphone come il P40 Pro.

Guardando a prodotti quali il P40 Lite o l’Honor 9X Pro il discorso può cambiare un po’. Sono smartphone proposti a prezzi aggressivi (grazie a interessanti promozioni), con un hardware molto completo e un design di qualità. Non ci sono particolari problemi se finiscono in mano a un utente magari non giovanissimo che usa per il 99,9% del tempo funzioni quali telefono, browser, fotocamera e soprattutto WhatsApp e Facebook. Tutti i principali social network e sistemi di instant messaging funzionano senza problemi, tolto quello del backup di WhatsApp di cui abbiamo parlato.

Ma quando si parla del P40 Pro, o anche del Mate 30 Pro di fine 2019, siamo di fronte a prodotti che sul mercato hanno concorrenti a prezzi comparabili, intorno e oltre i 1000 euro: Samsung S20+, S20 Ultra (la recensione), Oppo Find X2 Pro, OnePlus 8 Pro (la recensione), Lg V60, Sony Xperia 1 Mark II, Xiaomi Mi 10 Pro. Concorrenti che hanno fotocamere marginalmente inferiori rispetto al P40 Pro ma che hanno il pieno accesso al Play Store e a Google. Scegliere Huawei a 1.000 euro è un azzardo non sostenibile, a meno che – come dicevamo nell’incipit – consapevolmente non vogliate affrancarvi da Google o cerchiate più una fotocamera compatta che uno smartphone a tutto tondo (ma a questi prezzi ci sono le RX100 di Sony).

Che cosa fa Huawei e che cosa può fare in futuro

Se c’è un’azienda che può venir fuori dal baratro in cui l’ha spinta Trump è Huawei. Non solo è una corporation formidabile per volumi e investimenti, ma è evidente che ha dietro di sé un intero Paese, la Cina, che è molto più di un Paese.
IMG_0962Che cosa sta facendo Huawei?Amplia i suoi servizi: dopo Huawei Video ecco Huawei Musica, entrambi offerti gratis per 3 mesi ai neo-iscritti.
Un domani arriverà in italiano Celia, un assistente vocale.
Lavora con gran lena su App Gallery, la sua alternativa al Play Store. Finora non c’è gran che per noi occidentali, anche se le app crescono. E per installare quello che non c’è? Ci si può appoggiare agli store alternativi. Hanno un grado di sicurezza e un’affidabilità inferiore al Play Store ma, trafficando e sudando un po’, si trova tutto. Suggeriamo APKPure e Amazon Appstore, ma anche l’ottimo Aurora Store e per l’open source F-Droid. Huawei ha poi messo a disposizione l’interessante app di uno sviluppatore italiano, TrovApp: vi indirizza al giusto store per trovare le app più diffuse. Infine c’è Phone Clone, l’app di Huawei che “clona” il vostro precedente telefono e porta tutto, dati e anche applicazioni, sul P40 Pro.
Resta però la rogna degli aggiornamenti delle app installate da questi store alternativi, che raramente è automatica e spesso è inaffidabile (quella da APKPure si pianta una volta sì e l’altra anche).
Resta poi la rogna più grossa, quella delle app non funzionanti per l’assenza dei GMS. Qui il percorso è ancora più lungo: si tratta di convincere milioni di sviluppatori ad adattare le proprie app al framework HMS, Huawei Mobile Services. Alcune tessere del puzzle mancano. Ad esempio: Huawei ha stretto un’intesa con TomTom. Servirà a portare un’app per la navigazione Gps preinstallata sui telefoni dei cinesi (oggi non c’è), ma servirà anche da appoggio per la geolocalizzazione in tutte le app – dal food delivery al mobility sharing – che richiedono questi servizi e che vorranno adeguarsi agli HMS.

Per ora tuttavia questi pezzi sono assenti.

E il P40 è quello è: un magnifico albero a cui una volontà esterna ha amputato i rami con i frutti più preziosi.

P.S.: no, non è possibile fare un semplice sideload delle app di Google e portare tutto quanto su P40, sul Mate 30 o sull’affascinante e costosissimo pieghevole Mate Xs. Google interviene attivamente per bloccare queste procedure e quelle che funzionavano ieri potrebbero non funzionare più domani. Ci sono alcune guide online che, nel momento in cui scriviamo, sembrerebbero funzionare. Al di là dei dubbi sulla sicurezza, queste procedure sono lunghe e richiedono un’applicazione scrupolosa dei molti passaggi. Basta sbagliarne uno e bisogna resettare il telefono e ripartire da capo. Non sono affatto alla portata di tutti. Insomma: se pensate di comprare un telefono Huawei senza GMS, magari approfittando di un forte sconto, per poi farlo diventare in un attimo un “telefono uguale agli altri”… beh, no. Al momento non è esattamente così.

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OnePlus
è un marchio ancora giovane del colosso cinese BBK (comprende anche Oppo, Vivo, RealMe) che ha conquistato circa il 2% delle vendite mondiali di smartphone. Una quota pari a quella di Google con i suoi Pixel. Non male considerato che OnePlus propone pochi prodotti, nella sola fascia premium, quella oltre  i 500 euro. Ma più significativa ancora è la fanbase, lo zoccolo duro di appassionati, che OnePlus ha saputo creare: affolla i forum e gli eventi live, fa la coda nei pop-up store creati a ogni lancio in varie città del mondo. Da alcuni anni, dai modelli 3 e 3T, OnePlus ha impostato un ritmo di aggiornamento semestrale dei suoi smartphone. In primavera esce la nuova generazione, in autunno la versione “T”. Quest’anno però OnePlus ha sparigliato le carte, sdoppiato la linea con OnePlus 7 e OnePlus 7 Pro. Ora è arrivato l’autunno e sono quindi due gli smartphone da rinfrescare. Si parte con OnePlus 7T, che abbiamo usato negli ultimi 10 giorni.

Se OnePlus si era concentrata sui Pro qualche mese fa, tirando fuori un modello completamente rinnovato rispetto al passato, a questo giro è il modello “base” a beneficiare di parecchie novità.
Si parte dal design. Sul frontale c’è uno schermo Amoled da 6,55 pollici più allungato che in passato, in formato 20:9, con bordi molto ridotti e un piccolo “notch” a goccia. Risoluzione Full HD+ (1080×2400 pixel). La luminosità arriva fino a 1.000 Nits. Non manca il supporto a Hdr 10+ (Amazon Prime Video), ma non c’è quello a Dolby Vision (Netflix è in HD e niente di più). Il formato 20:9 permette di tenere in mano senza problemi il 7T, che è ben bilanciato e sembra pesare meno dei suoi 190 grammi. In più, lo schermo piatto sarà meno affascinante di quello curvo usato da OnePlus 7 Pro e da tanti competitor (da Samsung a Huawei), ma è decisamente più funzionale e pratico da usare.
Il display, ed è una delle novità principali, diventa come quello di OnePlus 7 Pro: è a 90 Hz. Una frequenza di aggiornamento superiore a quella standard ( 60 Hz) che regala a questo smartphone una piacevole fluidità nei giochi ma anche nello scrolling di contenuti (pagine web, documenti, etc). Una scelta strategica per OnePlus.
Piacevole di avere? Sì.
Fa la differenza rispetto a agli schermi “normali”? Non troppo, a dire il vero.
Anche perché qualche difettuccio lo schermo di OnePlus 7T ce l’ha: inclinandolo, ad esempio, la gradazione colore tende un po’ verso l’azzurro.

L’altra novità di design, ancor più visibile, è sul retro, dove spicca l’oblò tondo che ospita la tripla fotocamera più il flash. La forma vuole richiamare chiaramente quella di un obiettivo fotografico classico ed è simile (più discreta) a quella del Mate 30 Pro di Huawei e dei Moto G di Motorola.

A livello hardware, OnePlus ha inserito l’ultimissimo processore Snapdragon 855 Plus di Qualcomm: i benchmark lo collocano al vertice tra gli smartphone Android (Antutu fa segnare 396.418 punti). Completano la scheda tecnica 8 GB di memoria LPDDR4X e 128 GB di memoria interna UFS 3.0.2, non espandibile. Sarà questa l’unica versione disponibile in Italia, in due colori (azzurro e grigio).

Da sempre gli OnePlus sono i cellulari perfetti per chi vuole un dispositivo molto reattivo. Se possibile, questo OnePlus 7T è ancora più saettante dei modelli passati. Tutto è sempre davvero super-fluido e non c’è multitasking che metta in crisi il 7T. Un ottimo lavoro il cui merito va diviso anche con l’interfaccia Oxygen OS, che resta una delle nostre preferite su Android. Sobria e insieme ampiamente personalizzabile, basata su Android 10 (è il primo smartphone a uscire nativamente con la nuova release), guadagna una chicca utile: copia da iPhone X la «barretta» in basso che segnala dove bisogna strisciare il dito per le gesture dell’interfaccia. Così è molto più facile tornare alla Home o passare a un’altra app con il multitasking. Una delle piccole-grandi idee di Apple che ha molto senso implementare anche su Android (con buona pace dell’originalità, vabbé).
L’audio è stereo e non c’è il jack audio (OnePlus lancia anche le sue cuffiette Bullett Wireless 2 nella nuova colorazione Olive Green) ma restano le solite due mancanze storiche di OnePlus: niente ricarica wireless, niente certificazione per acqua e liquidi.

Sulla batteria (3.800 mAh) incide molto lo schermo a 90 Hz: si arriva a sera con uso moderato (3 ore, 3h30′ di schermo attivo) con il 30-35% di carica residua, che non è pochissimo ma neppure moltissimo. In compenso c’è la ricarica super-veloce, chiamata Warp Charge 30T: in 20 minuti arriva da 0 a 70%. In poco più di un’ora si ottiene una ricarica completa.

Le fotocamere, infine. Con il display, rappresentano il salto in avanti maggiore di questo 7T. I due sensori principali, il grandangolo (26 mm, 48 MP) e l’ultra-grandangolare (17 mm, 117 gradi, 16 MP), restituiscono scatti quasi sempre soddisfacenti, anche grazie a un HDR molto efficace. Bene le foto in Nightscape (modalità notte). Più rumoroso il terzo obiettivo, il tele con zoom ottico 2X, che tuttavia riesce a restituire buoni scontorni nelle foto Ritratto.
Arriva una funzione super-macro fino a 2,5 cm.
Fronte video: la novità è la modalità super-stabilizzata. Unisce quella digitale a quella ottica per offrire una stabilizzazione degna di un gimbal ma i video risultano, purtroppo, pieni di fastidiosi artefatti che li rendono poco digeribili. A livello software interessante la rotella virtuale per passare da un sensore all’altro: molto simile a quella di iPhone 11 Pro, anche se qui manca quasi completamente la continuità stilistica che Apple è riuscita a ottenere con la sua tripla ottica.
Nel complesso però il gap con i migliori camera-phone sembra sempre più ridotto: OnePlus sta lavorando molto bene su quello che era un suo classico punto di debolezza.

Questo OnePlus 7T è un deciso passo avanti rispetto alla precedente generazione, che avvicina il telefono meno “nobile” del marchio cinese ai più costosi modelli Pro (vedremo come sarà OnePlus 7T Pro…). È consigliato a chi cerca uno smartphone super-veloce, ben seguito dall’azienda negli aggiornamenti (Android 10 arriverà a novembre su OnePlus 6 e 6T) e con una fotocamera all’altezza. Una buona opzione di aggiornamento per i fedeli fan del marchio che fossero fermi a OnePlus 3, 3T, 5 e persino un 5T. C’è la variabile prezzo, per ora non comunicato in Italia. Negli Stati Uniti sarà di 599 dollari: se fossero 599 euro si tratterebbe di un aumento di 50 euro su OnePlus 7. Le differenze di display e fotocamere li giustificano, ma il listino è sempre più vicino a quello dei marchi che un tempo OnePlus voleva abbattere con i suoi “flagship killer”.

A seguire qualche esempio di foto, con i vari obiettivi, in Nightscape, in super-macro, in modalità Ritratto.
Qui sotto invece un video super-stabilizzato:

Immagine anteprima YouTube

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Uno spettro si aggira nel mondo degli smartphone. Una bestia mitologica che va sotto il nome di “flagship killer”. Tradotto per i non addetti ai lavori: un modello in grado di seppellire i prodotti più costosi (flagship), proponendo le stesse caratteristiche a un prezzo più basso. Molto più basso. Anche la metà o addirittura un terzo di quanto può costare un nuovo iPhone oppure – rimanendo nel mondo Android – un Samsung Galaxy S/Galaxy Note o un Huawei P Pro/Mate Pro. Il titolo di flagship killer in passato è stato appannaggio di diversi modelli, dal Nexus 5 di Google ai primi OnePlus. A ben vedere c’è sempre stato “il trucco”, sottoforma di un prezzo fortemente sussidiato (Nexus) o di un listino creato apposta per far parlare di sé (OnePlus). In ogni caso si è trattato sempre di modelli che, sia per il design sia per la scheda tecnica, non erano realmente paragonabili ai telefoni più noti e costosi. Eppure, spesso, i flagship killer sono stati ottimi affari per chi li ha acquistati. Lo stesso discorso vale per il modello che, con buone ragioni, va ad a ereditare il titolo: il Mi 9T Pro di Xiaomi.

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Il marchio cinese ha attaccato l’Europa negli ultimi due anni moltiplicando modelli e famiglie di prodotti, con il risultato di una gamma complicata (anche troppo), con tanti (troppi) smartphone simili per nomi e caratteristiche. Una miscellanea con due caratteristiche comuni: l’utilizzo dell’interfaccia MIUI e prezzi (generalmente) molto aggressivi per la scheda tecnica che propongono. Il Mi 9T Pro è il nome occidentale di un prodotto uscito in Cina come Redmi K20 Pro. Redmi è il “B Brand” di Xiaomi, da poco costituito come divisione indipendente dall’azienda madre, ma in Europa si è deciso di commercializzare il prodotto sfruttando il marchio Xiaomi, già più noto e più adeguato a un prodotto che non si posizione nella fascia di prezzo bassa (o medio-bassa) dei Redmi.

Prima nel Mi 9T Pro sono usciti il Mi 9, il Mi 9 SE e Mi 9T. Pasticcio sui nomi a parte, il Mi 9T Pro è uno smartphone che offre molto a un prezzo non bassissimo in assoluto, ma decisamente basso per la scheda tecnica. Rispetto ai flagship killer del passato, come i Nexus o gli OnePlus degli esordi o il Pocophone F1 della stessa Xiaomi, ha anche un look molto curato, decisamente gradevole da vedere e da tenere in mano. Il retro è in vetro (nero o rosso) segnato da una trama simil-fibra di carbonio. Non è leggero (191 grammi) e non è particolarmente sottile (8,8 mm) ma non è gigantesco (è altro 15,6 cm) ed è ben bilanciato in mano. Apprezzabile che, nella spartana confezione (niente auricolari), ci sia una cover protettiva trasparente.

Xiaomi Mi 9T Pro gira che è una bellezza. Non avevamo motivo di pensare diversamente, visto che gli Xiaomi dal costo accessibile, come i bestseller Redmi Note 7 e Redmi Note 7 Pro, vanno benone. L’interfaccia Miui, arrivata alla versione 10.3, è ormai decisamente matura. Può non piacere perché è una delle tante interfacce grafiche cinesi nate per imitare in maniera pedissequa iOS, ma è decisamente fluida, ricca di opzioni e ampiamente personalizzabile (se l’app Temi non compare provate a impostare la regione su “Svizzera” nelle opzioni). Restano alcuni errori di traduzione e qualche bug grafico (con il Dark Mode ad esempio), che non inficiano l’esperienza ma che sono segno di fastidiosa sciatteria. Ottime le “gesture” simil-iPhone X/Xs/11 per usare Android senza tasti virtuali.

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Il Mi 9T Pro gira bene anche grazie alla scheda tecnica, che è il punto di forza di questo dispositivo e di Xiaomi in generale. Non esiste un altro smartphone che proponga a un prezzo così basso (449 euro di listino) il miglior processore Qualcomm, lo Snapdragon 855. Affiancato da 6 GB di Ram LPDDR4X e 128 GB di memoria interna UFS 2.1, memoria non espandibile con micro SD.
È una delle poche mancanze che separa questo 9T Pro da prodotti super-completi come il Galaxy S10+ o il Note 10+ di Samsung o il P30 Pro di Huawei. Le altre?
– niente ricarica wireless
niente certificazione per la resistenza ad acqua e liquidi
– audio mono (e di qualità non eccelsa).

Il Mi 9T Pro ha anche un bel display Amoled 6.39″ FHD+ senza tacche né fori. Non una cosa scontata a questo prezzo. L’accesso biometrico è assicurato da un sensore sotto lo schermo e da una fotocamera pop-up che sbuca dal lato superiore, impreziosita da due led rossi laterali, inutili ma scenografici. L’uscita della camera a scomparsa è un po’ lenta e anche il lettore d’impronte è talvolta impreciso; ma lavorando in tandem l’accesso al telefono è sempre assicurato. Ottima l’autonomia, grazie al processore e alla batteria da 4.000 mAh. È compatibile con la carica rapida a 25W ma l’alimentatore veloce va acquistato a parte.
Infine la fotocamera. Sul retro c’è una configurazione standard per la fascia alta 2019: sensore principale (è il Sony da 48 Mpixel che Xiaomi usa praticamente su tutti i suoi smartphone recenti, anche se per i modelli di fine 2019 sta passando al 64 Megapixel) grandangolare, sensore secondario ultra-grandangolare (125 gradi), tele con zoom 2X. Le foto con il sensore principale sono di livello decisamente buono. Anche i ritratti riescono bene, con uno scontorno dei bordi del soggetto piuttosto precisi (anche nei ritratti selfie con la camera frontale). La faccenda cambia con le altre due ottiche: il rumore aumenta appena cala la luminosità. Anche gli scatti notturni sono molto lontani dall’eccellenza rappresentata dai Google Pixel e da Huawei P30 Pro (e dai nuovi iPhone 11). Complessivamente, a questo prezzo, non ci si può comunque lamentare. A seguire qualche immagine scattata con il Mi 9T Pro (cliccate sulle foto per ingrandirle alla risoluzione originale).

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In conclusione: questo Xiaomi Mi 9T Pro costa 449 euro di listino. Se lo trovate intorno ai 400 euro o – meglio- sotto a questa soglia, è un acquisto assolutamente consigliato se volete uno smartphone potente che vi accompagni almeno per un paio d’anni.

Se viaggiate, per lavoro o per passione, con al seguito un set di dispositivi elettronici piuttosto nutrito allora conoscete l’importanza di trovare uno zaino adeguato per alloggiare il tutto. Anzi, uno zaino perfetto. Quello che sa essere allo stesso tempo bello, resistente, capiente, ben bilanciato sulle spalle. E soprattutto dotato di un numero di tasche congruo, ben accessibile, imbottito a sufficienza. Insomma: adeguato per portarsi dietro un notebook, un tablet, un ebook reader, uno smartphone di riserva, un paio di powerbank, diversi alimentatori e adattatori, cavi in abbondanza, spesso anche una fotocamera (reflex di piccole dimensioni o mirrorless) con un paio di ottiche e un treppiede compatto o uno stabilizzatore. Ovvero l’armamentario con cui spesso vado in giro. Nelle ultime settimane ho il sospetto di aver trovato lo zaino perfetto per alloggiare tutto questo (e altro).

Si chiama Crossover 2 Backpack e lo fa Thule, marchio svedese che molti conosceranno per gli accessori da auto (barre portatutto, portabici, box da tetto). La versione da 30 litri è un po’ pesante (1.340 grammi a vuoto) ma è incredibilmente capiente e ben organizzata (comunque c’è anche la versione più compatta da 20 litri).

Ha una tasca posteriore per un pc fino a 15,6 pollici super-protetta più uno spazio (a sua volta ammortizzato) per un tablet. C’è un enorme scomparto centrale (con altre due tasche per tablet) dove alloggiare una fotocamera oppure lo stabilizzatore o ancora vestiti di ricambio per una notte fuori.

Altre due cerniere anteriori ospitano una mezza dozzina di tasche con tessuto a rete, taschini, asole elastiche, perfette per stipare documenti, chiavi di casa e dell’auto, cavi e accessori minuti. C’è persino uno scomparto «corazzato» per riporre gli occhiali da sole. Infine due scomparti laterali a soffietto sono l’ideale per borracce, ombrelli o un cavalletto compatto, uno dei quali dotato di «antifurto» schermato per passaporti elettronici o carte contactless.

Ci sono fin troppe zip e tasche, tanto che alla prima uscite può capitare di dimenticarsi dove si è infilato un certo oggetto. Ma quando si prende la mano, si diventa dipendenti dalla logica dell’organizzazione di questo zaino Thule e si apprezza la qualità delle finiture (bello il tessuto zigrinato del rivestimento) e la resistenza di zip, imbottiture ed esterno. Abbiamo maltrattato il Crossover 2 negli ultimi mesi, portandolo a spasso in un paio di giri del globo, in ogni clima, e ad oggi sembra come nuovo. L’unico punto da valutare è il prezzo: il listino è salato (230 euro), anche 4-5 volte zaini simili, ma la qualità complessiva è elevatissima. Sul lungo periodo il prezzo potrebbe ripagarsi da sé, tanto in termini di durata quanto di comodità.

lenovo_tablet_yogabook_c930_2Yoga è la linea di notebook convertibili di Lenovo che, grazie a una cerniera brevettata, si trasformano da pc in tablet. Yoga Book C930 (da 999 euro) è un’estremizzazione di questa filosofia, un dispositivo sperimentale che si propone come 4-in-1: notebook, tablet, tavoletta grafica, lettore di ebook.

Yoga Book C930 è un computer Windows 10 con un hardware da ultraportatile (cpu Intel Core i5-7Y54, Ram 4 GB, disco Ssd 256 GB) e con due schermi. Uno è un classico Lcd Ips da 10,8 pollici con risoluzione 2560×1600. L’altro è a inchiostro elettronico: sostituisce la classica tastiera fisica e si adatta agli usi. Può fungere da tastiera virtuale con tanto di touchpad oppure diventare un foglio di carta elettronica pronto per prendere appunti o per disegnare. In quest’ultima configurazione, come tavoletta grafica, il pc Lenovo è molto interessante, grazie alla penna inclusa in confezione, che riconosce fino a 4.096 livelli di pressione e funziona con entrambi gli schermi.

Per quanto non disastrosa, invece la tastiera virtuale non è proprio l’ideale per chi volesse scrivere di frequente e a lungo con il pc: siamo molto lontani dal feeling di una tastiera fisica. Ed è questo il limite più evidente di questo Yoga Book: trovare un pubblico di riferimento reale. Se cercate un notebook meglio guardare altrove, se volete un tablet anche (Windows 10 in modalità tavoletta resta limitato e spesso frustrante rispetto a un iPad). Come lettore di ebook è invece interessante ma purtroppo lo schermo e-Ink non è retroilluminato e un Kindle o un Kobo sono decisamente più pratici. Peccato perché lo Yoga Book C930 porta un’idea innovativa in un design superbo: sottile (9,9 mm) e leggerissimo (775 grammi), con soluzioni avveniristiche come il doppio tocco con la nocca che fa aprire, come per magia, il pc.

Vorwerk è una di quelle aziende che dividono. Ci sono schiere di fan, con un culto trasmesso di generazione in generazione, e detrattori, di solito terrorizzati dai tenaci venditori porta a porta. I due capisaldi di Vorwerk restano il Bimby, tuttofare da cucina, e l’immarcescibile Folletto, che ora propone anche aspirapolvere robot. Abbiamo provato il nuovo VR300. Se assomiglia ai modelli Neato non è un caso: Vorwerk ha acquisito nel 2017 l’azienda americana, che «presta» al VR300 il peculiare design a «D» e la torretta laser per la navigazione.Folletto_PIU_VR300_Vacuuming_VK_demo_4997-hpr

Questo sistema, in collaborazione con 15 sensori (a ultrasuoni, di contatto, a infrarosso), permette al robot di spostarsi con sicurezza nella casa, senza urti né troppi movimenti casuali o angoli dimenticati. La spazzola di aspirazione, grazie alla forma a «D», è più ampia dei concorrenti e il motore made in Vorwerk è potente ed efficace anche con lo sporco più fine (lo abbiamo messo alla prova con 1 kg di zucchero incautamente finito a terra). L’autonomia non è da record: 60 minuti, 90 in modalità Eco, dopo di che il robot torna da sé alla base per la ricarica, che dura un paio d’ore: con un appartamento ampio i tempi di pulizia si allungano.

La novità rispetto ai precedenti modelli della casa tedesca sta nella capacità di acquisire una vera mappa della casa. Una volta acquisita, è possibile creare tramite l’app per smartphone dei «muri virtuali», per escludere aree o intere stanze. Un metodo funzionale, ma forse meno pratico di quello del Roomba i7 (che permette di dare un nome ai vari ambienti). Bell’idea per svuotare il contenitore: ha un foro che permette di risucchiare lo sporco con un aspirapolvere tradizionale, senza sporcarsi le mani (vedi foto).

Prezzo elevato, 950 euro, ma il marchio Vorwerk è una garanzia per ricambi e assistenza.

robot
Chi già possiede un aspirapolvere robot sa bene quanto siano pratici ma sa anche che non fanno tutto da sé. Prima di avviare la pulizia bisogna liberare la stanza dagli ostacoli in eccesso (se avete bambini per casa conoscete bene il problema) e il dispositivo ha bisogno di una manutenzione periodica, che nel caso del serbatoio da svuotare è piuttosto assidua. Per il problema degli oggetti a terra dobbiamo aspettare l’epoca dei robot antropomorfi (arriverà mai?). Per la manutenzione invece iRobot propone qualcosa di nuovo con il suo Roomba i7+. La base di ricarica diventa una sorta di torretta, la CleanBase, non enorme ma comunque ingombrante (bisogna avere lo spazio adatto in casa) che contiene un sacchetto. Quando l’i7+ torna a casa apre uno sportellino in basso e la CleanBase aspira al suo interno lo sporco raccolto dal robot nelle stanze. I proprietari sono così dispensati dal periodico lavoro di svuotamento del serbatoio del Roomba. Il sacchetto della CleanBase con un uso normale impiega diversi mesi a essere riempito, dopo di che va sostituito (i ricambi costano una ventina di euro). Attraverso l’app ci viene anche segnalato lo stato delle altri parti da sostituire (spazzole e filtri).

Con i7+ iRobot inaugura una nuova e più intelligente generazione di Roomba. Non solo si svuota da sé ma introduce una modalità di mappatura della casa che, nel nostro test, si è rivelata davvero comoda. Se effettuare tre pulizie complete della casa, il robot crea una mappa dell’abitazione e, grazie ai suoi algoritmi, la suddivide in zone. Non necessariamente corrispondono alle stanze (un ampio open space ad esempio viene suddiviso in più aree) ed è possibile ritoccare la mappa tramite l’app in caso di imprecisioni (nel nostro test ne abbiamo rilevate diverse, nessuna però decisiva) e dare a ogni zona un nome personalizzato. A questo punto le operazioni di pulizia quotidiana (si possono programmare o far partire manualmente, anche in remoto tramite il wi-fi) si possono gestire in maniera super-facile: è possibile dire al Roomba di pulire ogni mattina“la cucina”, solo il martedì e il venerdì “tutto l’appartamento”, nei giorni dispari anche “ingresso”, “corridoio” e “bagno”, e così via.
Non manca la compatibilità con Amazon Alexa e Google Assistant anche se i comandi sono limitati e l’esperienza a volte un po’ frustrante. La batteria non è esaltante: Roomba i7+ non riesce a completare la pulizia di un appartamento di circa 100 metri quadri (l’autonomia è stimata di 75 minuti) e deve tornare a ricaricarsi, impiegando circa 2h e 30 minuti nel complesso. La pulizia di una stanza (cucina) impiega invece una ventina di minuti. L’aspirazione è potente ma meno rumorosa che nei vecchi Roomba e grazie ai sensori rileva aree particolarmente sporche e “insiste” sulla posizione, aumentando la forza aspirante.
i7+ si è rivelato un’evoluzione interessante del classico Roomba, con il difetto principale di un prezzo (1.199 euro) adatto a poche tasche.