di Paolo Ottolina - @pottolina

Categoria "android"

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Se fosse un calciatore sarebbe una punta alla Ibrahimovic. Enorme, inamovibile, ma anche tecnica. E con qualche colpo speciale da estrarre dal cilindro.
Se fosse un giocatore di basket sarebbe un centrone colossale, ma con le mani delicate e i piedi da ballerino. Uno tipo Hakeem Olajuwon o Nicola Jokic.
Invece è uno smartphone ed è l’undicesima versione del Galaxy Note che quest’anno, come per il Galaxy S (vai alla recensione di S20 Ultra), introduce una versione “Ultra“. Come tutti i Note rimane un dispositivo extralarge, potente e con un’arma segreta: lo stilo S-Pen, che nel mondo degli smartphone resta una caratteristica unica e sostanzialmente senza concorrenti di questa serie.

Il Galaxy Note 20 Ultra, la versione che stiamo usando da un paio di settimane, però ha un’anima un po’ diversa dai tanti Note che lo hanno preceduto. La serie Note è sempre stata quella pensata non solo per per i “techies” (gli appassionati delle primizie tecnologiche, che vanno sempre bene per tutti i prodotti ad alto costo…), ma anche per un pubblico professionale. Quello che un tempo aveva il BlackBerry e che oggi cerca uno smartphone al passo coi tempi per tutte le esigenze di lavoro. Ma visto che il confine tra lavoro e privato si è fatto (ahinoi) sempre più sfumato, questi professionisti cercano – a differenza dei BlackBerry che furono – dei dispositivi che siano anche ottimi per scattare una bella foto ai figli, per vedere al meglio una puntata di una serie mentre si spostano in treno o in aereo e, perché no, anche per fare una partita a un videogame ogni tanto. Questo Note 20 Ultra vuole essere tutto questo insieme: uno smartphone grande&grosso, un blocco digitale per appunti grazie alla S-Pen, un cameraphone per foto e video di qualità, uno strumento di svago per videogame e consumi multimediali. Non è una piccola ambizione ed è parametrata al prezzo, che a sua volta non è affatto piccolo: 1.329 euro di listino (salgono a 1.429 per la versione con 512 GB di memoria interna).

Note 10 Plus (a sinistra) e Note 20 Ultra

Note 10 Plus (a sinistra) e Note 20 Ultra

Il Note 20 Ultra riesce a essere all’altezza delle aspettative? Vediamolo insieme.

Il Note 20 Ultra è un insieme molto equilibrato di cura estetica, potenza e funzionalità, alcune delle quali assolutamente peculiari. Partiamo però dalle cose che non ci sono piaciute.
Il Note è sempre stato uno smartphone enorme, fin dalla prima edizione che ci impressionò favorevolmente proprio perché, con quelle dimensioni extra-large, cambiava le carte in tavola nell’uso quotidiano. In un certo senso il Note DEVE essere enorme. Qui, con tutte le ottimizzazioni possibili di uno schermo ormai praticamente senza bordi, siamo davvero al confine con il mondo tablet. 6,9 pollici di diagonale portano l’altezza del dispositivo a 164,8 mm. Con una custodia, fortemente consigliata perché con dimensioni simili è facile far cadere a terra i 1.329 euro del Note 20 Ultra, si arriva a circa 17 centimetri. Se non siete fan del borsello, auguri a trovare una tasca abbastanza capiente da alloggiare agevolmente questo Note 20. Il peso è contenuto, si far per dire, in 208 grammi, che non sono neppure troppi vista la stazza (ricordiamo che l’iPhone 11 Pro Max pesa 226 grammi, l’Asus Rog Phone III addirittura 240).

2020-08-04_14-45-52_275Sul retro c’è un “bozzo” delle fotocamere che non passa inosservato. Samsung ha lavorato benissimo a livello di materiali: un po’ come iPhone 11, il bozzo alterna materiali opachi e lucidi, metallo e vetro, creando un insieme che è volutamente molto visibile ma che ha anche molta personalità. Può non piacere ma è probabilmente lo smartphone su cui i designer Samsung hanno cesellato i dettagli minuti (la differenza con l’S20 Ultra, dove invece il blocco fotocamera era davvero buttato lì sul retro del telefono, è abissale). Tutto quel bozzo è davvero gigantesco e, al di là, dell’estetica sbilancia completamente il Note 20 Ultra quando è appoggiato su un tavolo. Non sarebbe poi questo enorme problema (di solito quando di digita sulla tastiera virtuale si tiene il dispositivo in mano), ma il Note nasce anche per scrivere a mano. E scrivere, o disegnare, con la S-Pen su un telefono così sbilanciato diventa davvero problematico se volete usare il Note 20 come un bloc notes: balla più di un tavolino zoppo.

Infine c’è lo schermo curvo. Il display è una delle cose più belle di questo Note 20 Ultra. Enorme, come già detto, con i suoi 6,9 pollici e di gran qualità (è un Super Amoled QHD+ da 3088×1440 pixel, con supporto ai 120 Hz di refresh). Purtroppo è anche curvo ai lati. Non è una curva gentile, misurata, come quella del Galaxy S20 Ultra, che ha raggiunto un interessante punto di equilibrio tra forma e funzionalità. Qui è molto curvo. E, a parte le fastidiose aberrazioni ottiche che un display simile necessariamente comporta ai lati (sui cui Samsung per altro ha lavorato bene, smorzandole molto), qui c’è la S-Pen. E la S-Pen sul pezzetto curvo funziona male o spesso non funziona proprio. Facciamo un esempio. Un uso classico della S-Pen è: acquisizione di una porzione di schermo, annotazione e condivisione con i colleghi per segnalare un errore da correggere o un punto a cui dare attenzione. Con lo schermo curvo, andare a selezionare bene il testo che arriva ai margini è un’impresa infernale. Il principio “forma prima delle funzioni” è già deprecabile di per sé (ma evidentemente fa vendere, se molti produttori vi si conformano) ma è ancor meno accettabile su un dispositivo come il Note, che dovrebbe avere la produttività come sua stella polare. Se Samsung vuole continuare a puntare sul display curvo – ed è ragionevole lo faccia visto che lo ha inventato lei – un suggerimento potrebbe essere invertire l’angolo della curvatura: più accentuato sui Galaxy S e molto meno sui Note (n.b.: il Note 20, il modello non-Ultra, ha un pratico display “flat”).

Screenshot_20200828-174503_Air commandLe cose apprezzabili di questo dispositivo invece sono tante. Molte sono quelle che da sempre distinguono i Samsung di fascia alta. La dotazione hardware in primis. Detto dello schermo, davvero ottimo anche se la frequenza a 120 Hz  può essere utilizzata solo impostando il display in FullHD+ e non in QHD+ (sinceramente, si vede una differenza concreta? No). La luminosità di picco è eccezionale: 1500 nits, che si traduce in un’ottima visibilità in qualunque condizione.
Ci sono ben 12 GB di Ram, 256 GB (o 512) di spazio dati, espandibile con micro SD (e non sono più molti gli smartphone top di gamma a permetterlo). Avevamo qualche timore per la batteria. L’autonomia dell’S20 Ultra era tutt’altro che degna di nota e anzi arrivava a una sufficienza stiracchiata. C’era qualche legittima preoccupazione, considerato che lo schermo è ancora più grande, che la batteria è più piccola (S20: 5.000 mAh; Note 20 Ultra: 4.500 mAh) e che il processore è lo stesso, l’energivoro Exynos 990. Invece Note 20 Ultra si comporta un po’ meglio dell’S20 Ultra. Non siamo di fronte a un campione di autonomia e neppure a un ottimo risultato, ma con un utilizzo standard, da telefono business (molte mail in push, messaggi, navigazione, documenti Office e pdf, annotazioni con la S-Pen, un po’ di streaming musicale e video), si arriva serenamente a fine giornata. Le cose peggiorano quando si prova a usare un po’ di più app che fanno scaldare molto lo smartphone, come giocare o girare video in alta risoluzione (4K o 8K). Allora sì che l’autonomia decresce rapidamente e si arriva a fine giornata con percentuali risicate di batteria o si rischia anche di rimanere a secco.
Il miglior risultato rispetto a S20 è merito di una miglior ottimizzazione dell’Exynos 990 ma anche e sopratutto della frequenza di aggiornamento del display variabile: quando non serve, per pagine web statiche o documenti di testo ad esempio, scende e non resta inutilmente fissa a 120 Hz. Nella confezione è comunque presente un alimentatore per ricarica rapida a 25W (in 1h40’ si va da 0 a 100%) e – ovviamente – il Note 20 Ultra è compatibile con la ricarica wireless e può alimentare a sua volta altri dispositivi (come le nuove cuffiette Galaxy Buds Live) con la ricarica a induzione inversa (Wireless reverse charge).
E’ compatibile con il 5G, è dual sim con supporto anche alle eSim, l’aggancio alle reti è stabile anche in aree con poco segnale, è impermeabile IP68 e considerata la presenza della S-Pen è un’ottima e non banale cosa. Manca invece il jack per le cuffie. Ha anche l’UWB, protocollo per condividere file e documenti con altri smartphone in prossimità compatibili con questa tecnologia, finora vista solo sugli iPhone più recenti.

Hardware a parte, il Note resta unico nel panorama per almeno due aspetti. Al primo abbiamo già fatto cenno: la S-Pen. Ogni anno il pennino viene un po’ migliorato, si raffinano le funzioni e se ne aggiungono di nuove, anche se la maturità di questo accessorio è stata raggiunto da anni. Sull’Ultra, grazie al nuovo display a 120 Hz, il tempo di risposta dello stilo scende a soli 9 millisecondi: scrivere e disegnare diventa un gesto ancora più naturale e piacevole. Ci sono molte funzioni utili, come quelle per gestire l’autoscatto come con un telecomando. L’app Samsung Notes è molto migliorata, così come il riconoscimento del testo scritto, davvero molto buono. La nuova S-Pen introduce poi nuove Air Actions per controllare lo smartphone muovendo lo stilo nell’aria: in verità, almeno per questo aspetto, i movimenti sono un po’ cervellotici e funzionano ogni volta ogni tanto. Dopo un po’ li dimenticherete, senza rimpianti.

L’altro punto di eccellenza e peculiare di questo Note 20 Ultra è la capacità di essere utilizzato come un’alternativa a un classico computer o un’integrazione a esso. Intanto c’è DeX: è un software Samsung che permette di collegare gli smartphone compatibili a un monitor esterno e che permette di usare le app con un’interfaccia in modalità desktop. Collegando mouse e tastiera (bluetooth) si ottiene la possibilità di lavorare in trasferta, magari da una camera d’hotel, bene quanto alla scrivania dell’ufficio ma senza portarsi il notebook dietro: le app Office, ad esempio, sono compatibili. Note 20 Ultra fa un passo avanti: introduce la possibilità di far funzionare DeX completamente senza fili. Basta avere uno schermo, un tv ad esempio, compatibile con Mirrorlink. Si parla quindi di moltissimi modelli, non solo Samsung, e anche piuttosto datati. Abbiamo usato DeX in modalità wireless con un tv Samsung del 2019 e tutto funziona in modo perfetto e molto fluido. Il Note, inoltre, si può trasformare in un touchpad: molto comodo per una presentazione pubblica ad esempio.
Inoltre, grazie alla partnership tra Samsung e Microsoft, la gamma Note 20 avvia un’integrazione con Windows 10 davvero interessante. Qualcosa di simile esiste solo all’interno del mondo Apple, tra dispositivi iOS e Mac. Qui c’è il vantaggio che va bene un qualunque Pc. Con Note 20 è possibile eseguire le app Android all’interno di Windows 10. Un’integrazione che avviene tramite le app Your Phone (Il tuo telefono) per Windows 10 e Link to Windows (Collegamento a Windows) per Android. È persino possibile aggiungere le app alla barra delle applicazioni o al menu Start, proprio come si farebbe con un applicativo nativo di Windows 10. Al momento però questa possibilità non è attiva su tutte le app e non tutte gestiscono mouse e tastiera. In più le due aziende hanno lavorato su altre compatibilità: ad esempio gli appunti di Samsung Notes possono essere sincronizzati con l’app OneNote e con il feed OneNote di Outlook; oppure Samsung Reminders con Outlook, Microsoft To Do e Teams.
E se siete interessati anche al gaming, Note 20 fa comunella con Microsoft offrendo compatibilità con Xbox Game Pass Ultimate (per i pre-ordini del Note c’erano anche 3 mesi del servizi offerti insieme a un game controller), il servizio di giochi in streaming che andrà a far concorrenza a Google Stadia.

Infine, la fotocamera. Note 20 Ultra spinge ancora più in alto il livello già eccellente raggiunto con S20 Ultra. Ci sono due sensori già visti su S20 Ultra: il principale è un 108 Megapixel ƒ/1.8 stabilizzata otticamente, l’altro è un 12 Megapixel ƒ/2.2 ultra-grandangolare. Infine c’è un’ottica zoom (12 MP ƒ/3.0) con lenti periscopiche che spingono l’ingrandimento ottico a un notevole 5X. Una combinazione di sensori che funziona davvero bene e offre una grande versatilità. Difficile rimanere delusi dagli scatti, davvero molto buoni in qualunque situazione, compresi quelli notturni. Rispetto a S20 qui arriva un autofocus laser che migliora nettamente i tempi di messa a fuoco.
Per i video abbiamo apprezzato la nuova modalità Pro: non solo permette di intervenire manualmente sui parametri ma introduce un utile controllo sulle fonti auto. È possibile scegliere di registrare solo con i microfono posteriori, solo con quelli anteriori, con tutti quanti oppure con una fonte esterna come un auricolare Bluetooth. Davvero comodo per gli aspiranti videomaker (su iPhone ad esempio una soluzione simile è ottenibile con app di terze parti).

IN CONCLUSIONE

Ci sono voci che questa potrebbe essere l’ultima uscita agostana per la serie Note che, sempre secondo questi rumor, andrebbe sostituite da un modello pieghevole Fold e/o accorpata ai Galaxy S come variante con S-Pen. In effetti è già così e non da quest’anno. Via via il senso della serie Note si è perso, con i Galaxy S che diventavano grandi quanto i Note e on i Note che diventavano stilosi e versati nel gaming e nella multimedialità quanto i Galaxy S.
Se così fosse, se il Note 20 Ultra fosse l’ultimo Note della serie, beh allora sarebbe un degno finale. Al di là dei difetti che abbiamo elencato a inizio pezzo, la remora più grossa sull’acquisto di un Note 20 Ultra resta il prezzo. Un listino di oltre 1.300 euro resta di difficile appetibilità anche per un dispositivo che sa far così tante cose, e così tante cose al meglio, come questo maxi-smartphone di Samsung. I tanti produttori cinesi, ma anche la stessa Samsung, hanno in listino una serie di alternative a prezzo molto, molto più appetibile. Non avranno la S-Pen e altre chicche (fotocamere, integrazione con Windows 10, DeX wireless) di questo Note 20 Ultra, ma sono in grado di intercettare il 98% dei bisogni di qualunque utente. Compresi quei professionisti danarosi a cui il Note 20 Ultra strizza l’occhio.

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Qualche settimana fa abbiamo provato il P40 Pro di Huawei, raccontando i molti pregi e il problema non trascurabile dell’assenza delle app e dei servizi Google. Nel frattempo la casa cinese ha continuato a lavorare: negli ultimi tempi, per limitarsi alle ultimissime notizie, ha imbarcato sul suo store AppGallery applicazioni per i pagamenti e l’home banking come SatispayHype di Banca Sella e Ubi Banca, oltre a Dazn (qui trovate un’analisi della galassia dei servizi Huawei, già attivi e in arrivo).

Nel frattempo la casa cinese fa debuttare un’altra versione del P40 Pro, chiamata Pro+ (Pro Plus). Quest’anno anche Huawei si è adeguata al nuovo trend di smartphone che possiamo definire ultra-premium, con caratteristiche ancora più elevate di quelle dei modelli che fino all’anno scorso erano i top di gamma. Anche i prezzi sono ultra-premium: per il P40 Pro Plus, appena arrivato in Italia, si parla infatti di 1.399 euro. Quanti esemplari vengano effettivamente venduti di questi modelli super-costosi non è dato sapere, ma tutti gli indicatori ci dicono che solo Apple, con i suoi iPhone 11 Pro e Pro Max, muove volumi significativi quando si parla di telefoni da 1.200-1.300 (e oltre) euro.

HUAWEI P40 PRO+ (4)

Il P40 Pro+ di Huawei per di più è penalizzato dall’assenza dei servizi Google. Il senso di  questo dispositivo è allora, ancor più che nel P4o Pro, nella fotocamera, che allinea caratteristiche tecniche assolutamente straordinarie per uno smartphone. Una spia degli enormi progressi che Huawei ha fatto in questo ambito, investendo cifre rilevantissime con la partnership di Leica. Su questo Pro Plus c’è una “penta-cam” Ultra Vision Leica. C’è il sensore principale da 50 MP, dotato di un sensore su misura e di un filtro array RYYB, il primo al mondo a supportare il Full Pixel Octa PD AutoFocus,  che dovrebbe garantire una messa a fuoco senza imprecisioni a prescindere dalla complessità della scena e dalle condizioni di luce. A questo sensore si aggiunge un set di altre 3 fotocamere. C’è l’ultra-grandangolo da 40 MP, molto luminoso per un ultrawide (f/1.8) e con sensore molto grande per uno smartphone (1/1.54″). E ci sono ben due teleobiettivi. Uno con zoom 3X e un altro con zoom ottico addirittura 10X, grazie a un design inedito, estremamente sofisticato, basato su un  sistema periscopico con doppio prisma. Completa il set un ToF (Time of Flight, tempo di volo) per migliorare i ritratti. A livello di design, il Pro+ ha un retro della scocca realizzato in nano-tech ceramica (bianca o nera), e parlando di specifiche tecniche rispetto al P40 Pro abbiamo ben 512 GB di memoria interna mentre il processore resta il medesimo, il Kirin 990.

Cercheremo di provare le capacità fotografiche del P40 Pro+ nelle prossime settimane.
Nel frattempo, Huawei – oltre a lavorare sull’ecosistema delle app (un punto chiave per restare a galla e superare il veto Usa che l’ha privata della collaborazione con Google) – spinge sul fronte delle offerte commerciali. Per l’estate (fino al 31 agosto) l’azienda propone delle promozioni legate ai dispositivi recenti, come P40, P40 Pro, P40 Pro +, P40 lite e Y Series. “Oggi, la richiesta degli utenti è quella di avere device connessi che dialoghino tra di loro senza soluzione di continuità. Per questo abbiamo costruito un vero e proprio ecosistema fatto da prodotti, come smartphone, tablet, PC, cuffie o wearable ma anche, e soprattutto, servizi, come Huawei Video, Huawei Music o Huawei Cloud e, naturalmente Huawei AppGallery. Dato che l’estate è il momento di condivisione per eccellenza, abbiamo lavorato con le aziende per offrire a tutti gli utenti promozioni vantaggiose come sconti su viaggi, voucher, buoni o crediti per i propri acquisti” dice Isabella Lazzini, Marketing & Retail Director Huawei CBG Italia. Le varie offerte riguardano Cloud, Musica e Video, oltre ad accessori quali le cuffiette Freebuds 3i o il Huawei mini speaker. Ma sono legate anche ad aziende terze, come Alitalia, Italo, Hype, Burger King, Satispay, AliExpress (i dettagli sulla pagina Huawei Summer Campaign). Lo sforzo di Huawei è evidente: completare la “traversata del deserto”, tamponando l’assenza di Google con offerte allettanti, con la qualità hardware e con l’ecosistema (ne abbiamo parlato qui). In attesa  che l’App Gallery diventi più matura e ricca. O che, magari dopo le prossime elezioni presidenziali Usa, lo scenario legato a Google diventi meno duro per la casa di Shenzhen.

IMG_0961Huawei P40 Pro è il miglior smartphone possibile da comprare se vi sta molto, molto sulle scatole Donald Trump. O il migliore se volete restare alla larga dall’invadenza di Google. O ancora, più sul serio, se cercate un eccellente cameraphone e vi curate poco (ma molto poco) del resto. Perché il P40 Pro è una fuoriserie. Costretta a correre su tre ruote. La quarta gliel’ha sfilata l’amministrazione degli Stati Uniti con l’ormai nota e irrisolta vicenda che ha sottratto a Huawei la disponibilità delle app di Google, del Play Store e degli importantissimi Google Mobile Services (GMS).

Com’è fatto

Il P40 Pro è una meraviglia da tenere in mano. È alto come un iPhone 11 Pro Max, ma più snello, pratico da impugnare con il suo display allungato. È il più compatto tra i top di gamma del 2020 (sì, gli smartphone stanno diventando enormi): pesa tanto, 206 grammi, ma meno di altri come il già citato iPhone ed è nettamente più basso di colossi come Oppo Find X2 Pro o Samsung S20 Ultra.

Lo schermo si curva sui 4 lati, non solo su quelli lunghi come ormai da anni fanno i Galaxy S e Note di Samsung, ma anche sopra e sotto. L’effetto non piacerà a chi preferisce i più pratici schermi piatti, crea qualche problema con il design di alcune app, ma è di grande impatto estetico: il P40 Pro sembra un ciottolo levigato, con il bel display Oled da 6,58 pollici (2640×1200 pixel, 475ppi) che abbraccia l’intero profilo in metallo, con l’eccezione dei 4 angoli. A differenza del Mate 30 Pro per fortuna qui i tasti del volume sono fisici e non virtuali.
L’accesso biometrico è affidato all’impronta sotto lo schermo o al riconoscimento 2D (non 3D) del volto (entrambi velocissimi).
Il retro, almeno della versione Silver Frost che stiamo provando (foto in alto), è in vetro ma trattato con un particolare effetto, insieme opaco (anti-ditate) ma con riflessi luminescenti. Al tatto è setoso. Un risultato elegante e originale insieme, bello da vedere e da tenere in mano. Il telefono è certificato IP68 per la resistenza ad acqua e liquidi.IMG_0965

L’hardware

Se dal punto di vista costruttivo il P40 Pro è una bellezza, l’hardware è al livello dello standard elevatissimo cui Huawei ci ha abituato negli ultimi anni. Il processore Kirin 990 è un’evoluzione dei già convincenti 980 e 970. Spinge forte il sistema e consuma poco: la batteria da 4.200 mAh dura molto, grazie anche alla gestione aggressiva dei processi (app terminate se consumano in background) e all’assenza dei servizi Google, che hanno un impatto non trascurabile sulla batteria.
Gli 8 + 256 GB di memoria sono più che adeguati, la connettività è  5G ma manca il Wifi 6.
Il telefono è dual sim “fisica” oppure in configurazione Sim 1 + eSim per lasciare spazio a una nanoSD  (standard proprietario di Huawei) se non vi bastassero i 256 GB di memoria interna. Lo speaker è potente ma non è stereo.

La fotocamera

La fotocamera è una dimostrazione palese di forza di Huawei, un simbolo degli enormi investimenti in ricerca e sviluppo che l’azienda fa da anni. Il sensore principale da 50 Megapixel è il più grande oggi installato su uno smartphone con il suo 1/1,28” pollice e uno dei più grandi di sempre in questa categoria di prodotti (solo il mitologico e sfortunato Nokia 808 ne aveva uno più grosso). Il set di ottiche è completato da un teleobiettivo da 8 Megapixel con lenti periscopiche con ingrandimento ottico 5X (ibrido 10X) , da una “Cinelens” ultra-grandangolare da 40 Megapixel molto luminosa (F/1.9) che si usa anche per i video con stabilizzazione digitale; infine un TOF per i ritratti.
Il risultato è un set molto-completo e molto qualitativo. Le foto sono assolutamente convincenti in tutti i contesti, benché l’assistenza dell’AI (Intelligenza artificiale) continui a essere invasiva e non sempre efficace (di default è disabilitata e lasciatela così). Le foto notturne “tirano su” la luce in maniera impressionante, anche se i risultati siano assai innaturali, con una fastidiosa dominante verde e cieli che diventato viola/grigiastri.

(cliccate sulle foto per vedere le immagini in dimensione originale)

Com’è la faccenda che manca Google

Insomma, P40 Pro è una meraviglia ma è privo delle app di Google, del Play Store e dei GMS, i Google Mobile Services (poi spieghiamo cosa sono).
Rispondiamo a due domande.

1)     Si può vivere senza le app di Google?
Sì, anzi “ni”

2)     Si può vivere – in Occidente e nel 2020 – senza i Google Mobile Services?
No.

Partiamo dal punto 1.
Ognuno ha un rapporto più o meno assiduo con le app di Google, ma è certo che quasi tutte fanno parte del ristretto circolo dei software più utilizzati, su Android ma direi anche su iOS: Gmail, Google Maps, YouTube, Chrome, Google Drive, Google Foto, Google Home, l’Assistente. (Poi c’è il Play Store, ma di questo ne parliamo dopo).
Per alcune di esse è possibile andare alla ricerca di alternative. Più o meno valide.
Outlook in vece di Gmail, Onedrive o Dropbox per Google Drive, Amazon Photos per Google Foto, Firefox o Edge (o Brave o Opera o un altro browser) per Chrome.
Un po’ più complesso è fare a meno di Maps ma c’è Waze che funziona ed è un’alternativa di tutto rispetto (c’è anche Here Maps, volendo). YouTube può essere fruita, con molti fastidiosi limiti, via browser oppure con l’ottimo NewPipe.
Se siete strettamente legati al mondo Google comunque tutto questo comporta tempo e cambiamenti di abitudini, non è affatto indolore: se avete un archivio di anni su Google Foto abbandonarlo è penoso. Idem se avete una simbiosi di lustri con GMail o con Drive.
Per alcune delle app Google però tutto questo non è semplicemente possibile. Non le potrete usare sul P40 Pro.Screenshot_20200417_122634_com.velux.active

Veniamo al punto 2, i GMS.
Alcune delle app Google sono ancor più strettamente intrecciate ai GMS, i Google Mobile Services. Di cosa parliamo? Del “pacchetto” che Google impone di fatto a tutti i produttori Android, un sistema che è open source (ed è la base che utilizza Huawei). Dentro ci stanno molte delle app Google di cui sopra. Ma ci stanno anche le API (Application Programming Interfaces) che permettono agli sviluppatori cose fondamentali su Android. Tipo usare Google Maps per mostrare la posizione in un’app o sfruttare Google Drive per memorizzare i dati di backup o ancora fare login sfruttando username e password di Google (Google Sign-in). Iniziate a capire il problema?

Su P40 Pro non avrete a disposizione un assistente vocale.
Non potrete collegare il P40 alla macchina perché Android Auto non va.
Non potrete pagare in modalità contactless con lo smartphone.
Avete a casa dei Google Home o una Chromecast? Inutilizzabili.
Family Link per controllare gli smartphone dei ragazzi di casa? Scordatevelo.

Ma c’è di più. Anni e anni di chat di WhatsApp che su qualunque altro telefono sincronizzate con il backup su Google Drive? Persi (si può faticosamente sincronizzare trasferendo una cartella di sistema ma non è alla portata di tutti).
Le tessere fedeltà salvate su Stocard? Dovrete ri-scansionarle tutte.
I progressi sul tal giochino sincronizzati via Google Play? Andati.

Le app per la consegna di cibo a domicilio e quelle per lo sharing dei mezzi non funzionano senza Google Maps (qualcuna può funzionare via browser). Non posso comprare biglietti del treno su Trenord.
Ancora peggio? La maggior parte delle app per l’home banking non c’è e qualora riusciste a installarne una non permetterà l’operatività tramite il token in-app per motivi di sicurezza (manca la certificazione Google Play Protect).
Non potete utilizzare lo SPID con i servizi digitali della pubblica amministrazione.
Male anche le app della smart home: con il P40 non ho avuto modo di controllare il mio robot aspirapolvere Neato, le finestre Velux o utilizzare il geofencing con le camere di sicurezza Arlo  (le luci Philips Hue, il termostato Honeywell e le camere Logitech Circle invece funzionano).

In qualche modo i vari Netflix e Amazon Prime Video e Disney+ funzionano ma, senza i DRM Widevine (che sono di proprietà Google), vanno solo in bassa definizione (niente HD), con una qualità modesta che non rende merito al bel display del P40 Pro.

Insomma, avete capito il problema.

I limiti su un telefono privo di Play Store e di certificazioni Google non sono piccoli. Non sono affatto modesti fastidi. Non si tratta della banale sostituzione di Chrome con un’altra app per navigare o di tornare ai tempi di Windows Phone quando eri costretto a utilizzare YouTube via browser.

Il mondo di oggi gira pesantemente intorno alle app e quelle legate a doppio filo ai GMS sono tante, molte più di quelle che io stesso immaginavo

Anche se di tutte le app che ho sopracitato non ne utilizzaste neppure una, con un telefono privo di GMS vi mettete in una condizione di potenziale disagio. Domani potrebbe non essere compatibile con l’app dell’oggetto smart appena comprato, cosa che renderà il dispositivo più o meno un soprammobile. Oppure potrebbe capitare che il servizio che si è reso improvvisamente indispensabile nella vostra vita (il coronavirus ci ha insegnato il significato di “emergenza”…) non sia utilizzabile perché manca l’appoggio delle Google Maps.

Questo discorso vale a maggior ragione per uno smartphone flagship che costa più di 1.000 euro (1.049 euro di listino) e che, si suppone, venga acquistato per essere usato in maniera completa, profonda, da vero computer da taschino quale è uno smartphone come il P40 Pro.

Guardando a prodotti quali il P40 Lite o l’Honor 9X Pro il discorso può cambiare un po’. Sono smartphone proposti a prezzi aggressivi (grazie a interessanti promozioni), con un hardware molto completo e un design di qualità. Non ci sono particolari problemi se finiscono in mano a un utente magari non giovanissimo che usa per il 99,9% del tempo funzioni quali telefono, browser, fotocamera e soprattutto WhatsApp e Facebook. Tutti i principali social network e sistemi di instant messaging funzionano senza problemi, tolto quello del backup di WhatsApp di cui abbiamo parlato.

Ma quando si parla del P40 Pro, o anche del Mate 30 Pro di fine 2019, siamo di fronte a prodotti che sul mercato hanno concorrenti a prezzi comparabili, intorno e oltre i 1000 euro: Samsung S20+, S20 Ultra (la recensione), Oppo Find X2 Pro, OnePlus 8 Pro (la recensione), Lg V60, Sony Xperia 1 Mark II, Xiaomi Mi 10 Pro. Concorrenti che hanno fotocamere marginalmente inferiori rispetto al P40 Pro ma che hanno il pieno accesso al Play Store e a Google. Scegliere Huawei a 1.000 euro è un azzardo non sostenibile, a meno che – come dicevamo nell’incipit – consapevolmente non vogliate affrancarvi da Google o cerchiate più una fotocamera compatta che uno smartphone a tutto tondo (ma a questi prezzi ci sono le RX100 di Sony).

Che cosa fa Huawei e che cosa può fare in futuro

Se c’è un’azienda che può venir fuori dal baratro in cui l’ha spinta Trump è Huawei. Non solo è una corporation formidabile per volumi e investimenti, ma è evidente che ha dietro di sé un intero Paese, la Cina, che è molto più di un Paese.
IMG_0962Che cosa sta facendo Huawei?Amplia i suoi servizi: dopo Huawei Video ecco Huawei Musica, entrambi offerti gratis per 3 mesi ai neo-iscritti.
Un domani arriverà in italiano Celia, un assistente vocale.
Lavora con gran lena su App Gallery, la sua alternativa al Play Store. Finora non c’è gran che per noi occidentali, anche se le app crescono. E per installare quello che non c’è? Ci si può appoggiare agli store alternativi. Hanno un grado di sicurezza e un’affidabilità inferiore al Play Store ma, trafficando e sudando un po’, si trova tutto. Suggeriamo APKPure e Amazon Appstore, ma anche l’ottimo Aurora Store e per l’open source F-Droid. Huawei ha poi messo a disposizione l’interessante app di uno sviluppatore italiano, TrovApp: vi indirizza al giusto store per trovare le app più diffuse. Infine c’è Phone Clone, l’app di Huawei che “clona” il vostro precedente telefono e porta tutto, dati e anche applicazioni, sul P40 Pro.
Resta però la rogna degli aggiornamenti delle app installate da questi store alternativi, che raramente è automatica e spesso è inaffidabile (quella da APKPure si pianta una volta sì e l’altra anche).
Resta poi la rogna più grossa, quella delle app non funzionanti per l’assenza dei GMS. Qui il percorso è ancora più lungo: si tratta di convincere milioni di sviluppatori ad adattare le proprie app al framework HMS, Huawei Mobile Services. Alcune tessere del puzzle mancano. Ad esempio: Huawei ha stretto un’intesa con TomTom. Servirà a portare un’app per la navigazione Gps preinstallata sui telefoni dei cinesi (oggi non c’è), ma servirà anche da appoggio per la geolocalizzazione in tutte le app – dal food delivery al mobility sharing – che richiedono questi servizi e che vorranno adeguarsi agli HMS.

Per ora tuttavia questi pezzi sono assenti.

E il P40 è quello è: un magnifico albero a cui una volontà esterna ha amputato i rami con i frutti più preziosi.

P.S.: no, non è possibile fare un semplice sideload delle app di Google e portare tutto quanto su P40, sul Mate 30 o sull’affascinante e costosissimo pieghevole Mate Xs. Google interviene attivamente per bloccare queste procedure e quelle che funzionavano ieri potrebbero non funzionare più domani. Ci sono alcune guide online che, nel momento in cui scriviamo, sembrerebbero funzionare. Al di là dei dubbi sulla sicurezza, queste procedure sono lunghe e richiedono un’applicazione scrupolosa dei molti passaggi. Basta sbagliarne uno e bisogna resettare il telefono e ripartire da capo. Non sono affatto alla portata di tutti. Insomma: se pensate di comprare un telefono Huawei senza GMS, magari approfittando di un forte sconto, per poi farlo diventare in un attimo un “telefono uguale agli altri”… beh, no. Al momento non è esattamente così.

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OnePlus
è un marchio ancora giovane del colosso cinese BBK (comprende anche Oppo, Vivo, RealMe) che ha conquistato circa il 2% delle vendite mondiali di smartphone. Una quota pari a quella di Google con i suoi Pixel. Non male considerato che OnePlus propone pochi prodotti, nella sola fascia premium, quella oltre  i 500 euro. Ma più significativa ancora è la fanbase, lo zoccolo duro di appassionati, che OnePlus ha saputo creare: affolla i forum e gli eventi live, fa la coda nei pop-up store creati a ogni lancio in varie città del mondo. Da alcuni anni, dai modelli 3 e 3T, OnePlus ha impostato un ritmo di aggiornamento semestrale dei suoi smartphone. In primavera esce la nuova generazione, in autunno la versione “T”. Quest’anno però OnePlus ha sparigliato le carte, sdoppiato la linea con OnePlus 7 e OnePlus 7 Pro. Ora è arrivato l’autunno e sono quindi due gli smartphone da rinfrescare. Si parte con OnePlus 7T, che abbiamo usato negli ultimi 10 giorni.

Se OnePlus si era concentrata sui Pro qualche mese fa, tirando fuori un modello completamente rinnovato rispetto al passato, a questo giro è il modello “base” a beneficiare di parecchie novità.
Si parte dal design. Sul frontale c’è uno schermo Amoled da 6,55 pollici più allungato che in passato, in formato 20:9, con bordi molto ridotti e un piccolo “notch” a goccia. Risoluzione Full HD+ (1080×2400 pixel). La luminosità arriva fino a 1.000 Nits. Non manca il supporto a Hdr 10+ (Amazon Prime Video), ma non c’è quello a Dolby Vision (Netflix è in HD e niente di più). Il formato 20:9 permette di tenere in mano senza problemi il 7T, che è ben bilanciato e sembra pesare meno dei suoi 190 grammi. In più, lo schermo piatto sarà meno affascinante di quello curvo usato da OnePlus 7 Pro e da tanti competitor (da Samsung a Huawei), ma è decisamente più funzionale e pratico da usare.
Il display, ed è una delle novità principali, diventa come quello di OnePlus 7 Pro: è a 90 Hz. Una frequenza di aggiornamento superiore a quella standard ( 60 Hz) che regala a questo smartphone una piacevole fluidità nei giochi ma anche nello scrolling di contenuti (pagine web, documenti, etc). Una scelta strategica per OnePlus.
Piacevole di avere? Sì.
Fa la differenza rispetto a agli schermi “normali”? Non troppo, a dire il vero.
Anche perché qualche difettuccio lo schermo di OnePlus 7T ce l’ha: inclinandolo, ad esempio, la gradazione colore tende un po’ verso l’azzurro.

L’altra novità di design, ancor più visibile, è sul retro, dove spicca l’oblò tondo che ospita la tripla fotocamera più il flash. La forma vuole richiamare chiaramente quella di un obiettivo fotografico classico ed è simile (più discreta) a quella del Mate 30 Pro di Huawei e dei Moto G di Motorola.

A livello hardware, OnePlus ha inserito l’ultimissimo processore Snapdragon 855 Plus di Qualcomm: i benchmark lo collocano al vertice tra gli smartphone Android (Antutu fa segnare 396.418 punti). Completano la scheda tecnica 8 GB di memoria LPDDR4X e 128 GB di memoria interna UFS 3.0.2, non espandibile. Sarà questa l’unica versione disponibile in Italia, in due colori (azzurro e grigio).

Da sempre gli OnePlus sono i cellulari perfetti per chi vuole un dispositivo molto reattivo. Se possibile, questo OnePlus 7T è ancora più saettante dei modelli passati. Tutto è sempre davvero super-fluido e non c’è multitasking che metta in crisi il 7T. Un ottimo lavoro il cui merito va diviso anche con l’interfaccia Oxygen OS, che resta una delle nostre preferite su Android. Sobria e insieme ampiamente personalizzabile, basata su Android 10 (è il primo smartphone a uscire nativamente con la nuova release), guadagna una chicca utile: copia da iPhone X la «barretta» in basso che segnala dove bisogna strisciare il dito per le gesture dell’interfaccia. Così è molto più facile tornare alla Home o passare a un’altra app con il multitasking. Una delle piccole-grandi idee di Apple che ha molto senso implementare anche su Android (con buona pace dell’originalità, vabbé).
L’audio è stereo e non c’è il jack audio (OnePlus lancia anche le sue cuffiette Bullett Wireless 2 nella nuova colorazione Olive Green) ma restano le solite due mancanze storiche di OnePlus: niente ricarica wireless, niente certificazione per acqua e liquidi.

Sulla batteria (3.800 mAh) incide molto lo schermo a 90 Hz: si arriva a sera con uso moderato (3 ore, 3h30′ di schermo attivo) con il 30-35% di carica residua, che non è pochissimo ma neppure moltissimo. In compenso c’è la ricarica super-veloce, chiamata Warp Charge 30T: in 20 minuti arriva da 0 a 70%. In poco più di un’ora si ottiene una ricarica completa.

Le fotocamere, infine. Con il display, rappresentano il salto in avanti maggiore di questo 7T. I due sensori principali, il grandangolo (26 mm, 48 MP) e l’ultra-grandangolare (17 mm, 117 gradi, 16 MP), restituiscono scatti quasi sempre soddisfacenti, anche grazie a un HDR molto efficace. Bene le foto in Nightscape (modalità notte). Più rumoroso il terzo obiettivo, il tele con zoom ottico 2X, che tuttavia riesce a restituire buoni scontorni nelle foto Ritratto.
Arriva una funzione super-macro fino a 2,5 cm.
Fronte video: la novità è la modalità super-stabilizzata. Unisce quella digitale a quella ottica per offrire una stabilizzazione degna di un gimbal ma i video risultano, purtroppo, pieni di fastidiosi artefatti che li rendono poco digeribili. A livello software interessante la rotella virtuale per passare da un sensore all’altro: molto simile a quella di iPhone 11 Pro, anche se qui manca quasi completamente la continuità stilistica che Apple è riuscita a ottenere con la sua tripla ottica.
Nel complesso però il gap con i migliori camera-phone sembra sempre più ridotto: OnePlus sta lavorando molto bene su quello che era un suo classico punto di debolezza.

Questo OnePlus 7T è un deciso passo avanti rispetto alla precedente generazione, che avvicina il telefono meno “nobile” del marchio cinese ai più costosi modelli Pro (vedremo come sarà OnePlus 7T Pro…). È consigliato a chi cerca uno smartphone super-veloce, ben seguito dall’azienda negli aggiornamenti (Android 10 arriverà a novembre su OnePlus 6 e 6T) e con una fotocamera all’altezza. Una buona opzione di aggiornamento per i fedeli fan del marchio che fossero fermi a OnePlus 3, 3T, 5 e persino un 5T. C’è la variabile prezzo, per ora non comunicato in Italia. Negli Stati Uniti sarà di 599 dollari: se fossero 599 euro si tratterebbe di un aumento di 50 euro su OnePlus 7. Le differenze di display e fotocamere li giustificano, ma il listino è sempre più vicino a quello dei marchi che un tempo OnePlus voleva abbattere con i suoi “flagship killer”.

A seguire qualche esempio di foto, con i vari obiettivi, in Nightscape, in super-macro, in modalità Ritratto.
Qui sotto invece un video super-stabilizzato:

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Uno spettro si aggira nel mondo degli smartphone. Una bestia mitologica che va sotto il nome di “flagship killer”. Tradotto per i non addetti ai lavori: un modello in grado di seppellire i prodotti più costosi (flagship), proponendo le stesse caratteristiche a un prezzo più basso. Molto più basso. Anche la metà o addirittura un terzo di quanto può costare un nuovo iPhone oppure – rimanendo nel mondo Android – un Samsung Galaxy S/Galaxy Note o un Huawei P Pro/Mate Pro. Il titolo di flagship killer in passato è stato appannaggio di diversi modelli, dal Nexus 5 di Google ai primi OnePlus. A ben vedere c’è sempre stato “il trucco”, sottoforma di un prezzo fortemente sussidiato (Nexus) o di un listino creato apposta per far parlare di sé (OnePlus). In ogni caso si è trattato sempre di modelli che, sia per il design sia per la scheda tecnica, non erano realmente paragonabili ai telefoni più noti e costosi. Eppure, spesso, i flagship killer sono stati ottimi affari per chi li ha acquistati. Lo stesso discorso vale per il modello che, con buone ragioni, va ad a ereditare il titolo: il Mi 9T Pro di Xiaomi.

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Il marchio cinese ha attaccato l’Europa negli ultimi due anni moltiplicando modelli e famiglie di prodotti, con il risultato di una gamma complicata (anche troppo), con tanti (troppi) smartphone simili per nomi e caratteristiche. Una miscellanea con due caratteristiche comuni: l’utilizzo dell’interfaccia MIUI e prezzi (generalmente) molto aggressivi per la scheda tecnica che propongono. Il Mi 9T Pro è il nome occidentale di un prodotto uscito in Cina come Redmi K20 Pro. Redmi è il “B Brand” di Xiaomi, da poco costituito come divisione indipendente dall’azienda madre, ma in Europa si è deciso di commercializzare il prodotto sfruttando il marchio Xiaomi, già più noto e più adeguato a un prodotto che non si posizione nella fascia di prezzo bassa (o medio-bassa) dei Redmi.

Prima nel Mi 9T Pro sono usciti il Mi 9, il Mi 9 SE e Mi 9T. Pasticcio sui nomi a parte, il Mi 9T Pro è uno smartphone che offre molto a un prezzo non bassissimo in assoluto, ma decisamente basso per la scheda tecnica. Rispetto ai flagship killer del passato, come i Nexus o gli OnePlus degli esordi o il Pocophone F1 della stessa Xiaomi, ha anche un look molto curato, decisamente gradevole da vedere e da tenere in mano. Il retro è in vetro (nero o rosso) segnato da una trama simil-fibra di carbonio. Non è leggero (191 grammi) e non è particolarmente sottile (8,8 mm) ma non è gigantesco (è altro 15,6 cm) ed è ben bilanciato in mano. Apprezzabile che, nella spartana confezione (niente auricolari), ci sia una cover protettiva trasparente.

Xiaomi Mi 9T Pro gira che è una bellezza. Non avevamo motivo di pensare diversamente, visto che gli Xiaomi dal costo accessibile, come i bestseller Redmi Note 7 e Redmi Note 7 Pro, vanno benone. L’interfaccia Miui, arrivata alla versione 10.3, è ormai decisamente matura. Può non piacere perché è una delle tante interfacce grafiche cinesi nate per imitare in maniera pedissequa iOS, ma è decisamente fluida, ricca di opzioni e ampiamente personalizzabile (se l’app Temi non compare provate a impostare la regione su “Svizzera” nelle opzioni). Restano alcuni errori di traduzione e qualche bug grafico (con il Dark Mode ad esempio), che non inficiano l’esperienza ma che sono segno di fastidiosa sciatteria. Ottime le “gesture” simil-iPhone X/Xs/11 per usare Android senza tasti virtuali.

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Il Mi 9T Pro gira bene anche grazie alla scheda tecnica, che è il punto di forza di questo dispositivo e di Xiaomi in generale. Non esiste un altro smartphone che proponga a un prezzo così basso (449 euro di listino) il miglior processore Qualcomm, lo Snapdragon 855. Affiancato da 6 GB di Ram LPDDR4X e 128 GB di memoria interna UFS 2.1, memoria non espandibile con micro SD.
È una delle poche mancanze che separa questo 9T Pro da prodotti super-completi come il Galaxy S10+ o il Note 10+ di Samsung o il P30 Pro di Huawei. Le altre?
– niente ricarica wireless
niente certificazione per la resistenza ad acqua e liquidi
– audio mono (e di qualità non eccelsa).

Il Mi 9T Pro ha anche un bel display Amoled 6.39″ FHD+ senza tacche né fori. Non una cosa scontata a questo prezzo. L’accesso biometrico è assicurato da un sensore sotto lo schermo e da una fotocamera pop-up che sbuca dal lato superiore, impreziosita da due led rossi laterali, inutili ma scenografici. L’uscita della camera a scomparsa è un po’ lenta e anche il lettore d’impronte è talvolta impreciso; ma lavorando in tandem l’accesso al telefono è sempre assicurato. Ottima l’autonomia, grazie al processore e alla batteria da 4.000 mAh. È compatibile con la carica rapida a 25W ma l’alimentatore veloce va acquistato a parte.
Infine la fotocamera. Sul retro c’è una configurazione standard per la fascia alta 2019: sensore principale (è il Sony da 48 Mpixel che Xiaomi usa praticamente su tutti i suoi smartphone recenti, anche se per i modelli di fine 2019 sta passando al 64 Megapixel) grandangolare, sensore secondario ultra-grandangolare (125 gradi), tele con zoom 2X. Le foto con il sensore principale sono di livello decisamente buono. Anche i ritratti riescono bene, con uno scontorno dei bordi del soggetto piuttosto precisi (anche nei ritratti selfie con la camera frontale). La faccenda cambia con le altre due ottiche: il rumore aumenta appena cala la luminosità. Anche gli scatti notturni sono molto lontani dall’eccellenza rappresentata dai Google Pixel e da Huawei P30 Pro (e dai nuovi iPhone 11). Complessivamente, a questo prezzo, non ci si può comunque lamentare. A seguire qualche immagine scattata con il Mi 9T Pro (cliccate sulle foto per ingrandirle alla risoluzione originale).

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In conclusione: questo Xiaomi Mi 9T Pro costa 449 euro di listino. Se lo trovate intorno ai 400 euro o – meglio- sotto a questa soglia, è un acquisto assolutamente consigliato se volete uno smartphone potente che vi accompagni almeno per un paio d’anni.

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Lusso e tecnologia possono stare insieme? Ci sono marchi che da sempre hanno fatto proprio questo binomio, come la danese Bang & Olufsen. Ma il cosiddetto High Tech Luxury resta un settore particolare perché il prodotto, oltre che bello, deve rimanere anche utile e di qualità intrinseca elevata. Altrimenti si fa la fine della britannica Vertu, che vendeva smartphone mediocri in confezione extra lusso (cuoio pregiato, pelle di coccodrillo e preziosi) e che ha chiuso l’anno scorso.

Eppure in tanti strizzano l’occhio a questo filone: per intercettare una clientela affluente, per rafforzare il brand, per aumentare i margini in un’industria che ha ricavi enormi ma utili risicati. È soprattutto la Cina a cercare partnership con marchi prestigiosi di altri settori.
Una via perseguita per prima da Huawei, l’azienda che dichiaratamente punta a diventare il primo «brand premium» del Dragone. Per i suoi smartphone ha sposato prima la tedesca Leica, leggendario marchio della fotografia, e poi Porsche Design: lo smartphone Mate RS, dotato di un design esclusivo e dello stato dell’arte dell’hardware (sensore di impronte sotto il display, 512 GB di memoria) arriva alla folle cifra di 2.095 euro. Oppo, altra cinese, quarto produttore mondiale di telefonini, a fine estate debutterà anche in Italia con il suo avveniristico Find X, smartphone con fotocamera a scomparsa.

Se Huawei sceglie Porsche, Oppo abbraccia Lamborghini, con lo stemma del toro a impreziosire un’edizione limitata da 1.699 euro. E ancora: OnePlus, ennesimo marchio made in China, ha optato per la moda francese, con edizioni speciali Colette e Jean-Charles de Castelbajac. In passato avevamo visto i matrimoni (brevi) Samsung-Armani e Lg-Prada.
E poi c’è Apple, che per il suo Watch ha un bracciale Hermès. Ma lì è difficile capire quale marchio porta lustro all’altro: la Mela si sta spostando sempre più verso il «lusso possibile». Con l’accento su lusso e un po’ meno su possibile.

(pubblicato sul L’Economia del Corriere della Sera, 2 luglio 2018)

pixe-visual-core-tramontoGoogle “accende” il co-processore dei suoi smartphone Pixel 2 e fa salire la qualità delle fotografie scattate con i suoi più recenti telefoni. Una qualità già molto elevata, considerata da tutti i recensori di tecnologia tra le migliori del settore (vai alla nostra recensione del Pixel 2 XL), ma che ora fa un salto ulteriore sfruttando un chip, chiamato Pixel Visual Core, inserito in fase di progettazione all’interno dello smartphone ma finora non utilizzato. Il “trucco” di Google non è puramente hardware ma punta decisamente sull’integrazione tra il processore dedicato e il software: utilizzando la fotografia computazionale e il machine learning (che già alimenta la tecnologia HDR+ di Pixel), il Pixel Visual Core migliora la qualità delle immagini nelle app per le foto. Il risultato è una sorta di super-HDR, che migliora in particolare le foto con forti contrasti tra luce e ombra.

Scrive in un post sul blog ufficiale Ofer Shacham, Engineering Manager for Pixel Visual Core:

“Con Pixel 2 abbiamo costruito la migliore fotocamera per smartphone di sempre. Il merito è anche della tecnologia HDR+, che vi aiuta a scattare foto migliori in condizioni di scarsa luminosità, che si tratti di foto con luci e ombre o in penombra. È la tecnologia alla base delle foto che scattate dalla fotocamera principale del vostro Pixel e da oggi la integriamo nelle app per foto e social media da voi preferite (…)
Pixel Visual Core – aggiunge Shacham fornisce anche potenza di calcolo e vi consente di far durare di più la batteria del vostro dispositivo. Utilizziamo la potenza di calcolo aggiuntiva per un’elaborazione più intelligente, che si traduce in immagini migliori. La versione speciale di HDR+ ottimizzata per funzionare con Pixel Visual Core riduce i tempi e il dispendio energetico. Pixel Visual Core sfrutta anche RAISR; ciò significa che gli scatti ingranditi sono più nitidi e dettagliati che mai. Inoltre, come la fotocamera principale dei Pixel, dispone della funzione Zero Shutter Lag, che cattura il fotogramma giusto quando si preme l’otturatore, in modo da poter effettuare scatti perfetti. La cosa interessante è che queste nuove funzionalità sono disponibili per qualsiasi app, gli sviluppatori possono trovare informazioni su Google Open Source”.

Google ha anche annunciato che al termine della settimana aggiungere ai Pixel 2 nuovi adesivi AR (realtà aumentata) a tema Olimpiadi invernali, con cui si potranno “vestire” video e foto con sciatori freestyle, pattinatori su ghiaccio, giocatori di hockey e molto altro. Come tutti gli adesivi AR, questi personaggi interagiscono sia con la fotocamera che tra loro. pixe-visual-core-bici

La mossa di Google testimonia come l’attenzione dei principali produttori per gli smartphone top di gamma sia sempre più focalizzata sulla fotografia, vero elemento discriminante nella scelta dei consumatori sulla fascia altissima. Non a caso su questo punto presto vedremo le mosse di Samsung con il nuovo Galaxy S9 (qui tutti i rumor) e di Huawei con il P20, in rampa di lancio a fine marzo.pixe-visual-core-ragazza

IASUS CEO Jerry Shen opens the We Love Photo press conference launching the new ZenFone 4 family in Europe.ntelligenza artificiale. La parola chiave a cui tutta la tecnologia di consumo vuole legarsi in qualche modo. Ne è convinto anche Jerry Shen, amministratore delegato dei taiwanesi di Asus, uno che nell’industria hi-tech vive da protagonista dalla fine degli anni Novanta. «Qual è la mia visione per i prossimi 5 anni? – ci ha raccontato -. Al centro ci sarà l’intelligenza artificiale, la AI. Intorno a essa quattro categorie di prodotti. La prima è il pc, poi c’è lo smartphone, il terzo è l’Internet delle cose che come numeri di dispositivi supererà anche i cellulari benché la telefonia mobile rimarrà il mercato principale. Poi i processori per device portatili. La AI legherà il tutto, insieme al cloud».

Shen, che abbiamo sentito a Roma dove ha da poco lanciato la nuova linea di telefoni Zenfone 4, prova a spiegare che cosa farà la differenza nel mondo degli smartphone: «Il design innanzitutto. Poi la fotocamera. Infine la connettività». Sono i tre assi, guarda caso, su cui Asus ha ricostruito la sua linea di telefoni, con modelli che partono dallo ZenFone 4 Pro e arrivano all’economico 4 Max. Il primo è uno dei pochi smartphone con connettività Gigabit: la capacità di supportare reti 4.5G e wi-fi con download fino a 1.000 Megabit al secondo. Spiega l’ad di Asus: «Lo smartphone è l’oggetto che consuma più dati. Gli utenti vogliono connettività più veloce, anche quando devono inviare dati perché la maggior qualità della fotocamera comporta immagini e video più pesanti. Ormai è impossibile separare la connettività dall’esperienza utente, perché è il mondo stesso ad essere sempre più connesso». Poi Shen conclude: «Un modem Gigabit sugli smartphone è un passo verso il 5G, che includerà non solo i telefoni ma tutti gli oggetti. Il 5G cambierà il mondo».

(articolo pubblicato su Corriere Economia di lunedì 23 gennaio 2017)
andy-rubinIl mercato dell’elettronica di consumo quest’anno toccherà i 754 miliardi di dollari (dati Ces Las Vegas). Di questi, il 47% saranno frutto degli smartphone che dunque continuano a essere la forza trainante del settore. Una forza stanca, però: secondo le previsioni, quest’anno il fatturato totale sarà di 432 miliardi, contro i 431 dell’anno scorso. Un sostanziale stallo: i mercati più ricchi sono saturi e non bastano quelli emergenti per continuare a correre (solo 3 anni fa la crescita era stata del 21%). Sorprende quindi che ci siano start-up che puntino sull’hardware e sugli smartphone. Tanto più se non parliamo di una delle tante aziende cinesi che lanciano prodotti low cost più o meno scopiazzati dai big del settore. L’idea arriva invece dagli Stati Unit, come ha anticipato Bloomberg: un’azienda chiamata Essential sta lavorando a un super-smartphone che vuole competere con i top di gamma come iPhone, Samsung Galaxy S o Google Pixel. Il suo punto di forza sarà un sistema di intelligenza artificiale, a bordo anche di altri oggetti smart prodotti dalla start-up. Prima di liquidare la faccenda come folle o inconsistente è bene aggiungere che il regista dell’operazione non è uno qualunque, ma è Andy Rubin. Ovvero il padre di Android, il sistema operativo mobile di Google che domina il mercato, installato su quasi l’88% degli smartphone in circolazione. Informatico, nato nel 1963 nello stato di New York, Rubin ha prima fondato Danger, azienda che ha prodotto uno dei primissimi smartphone, un anti-BlackBerry con tastiera estraibile (Danger fu acquisita da Microsoft). Poi ha creato Android Inc., che nel luglio 2005 passò sotto il controllo di Google, insieme ai suoi dipendenti. Lì cominciò l’ascesa di Rubin, man mano che il robottino verde (logo del sistema operativo) si trasformava da promettente idea a forza dominante del mercato dei device mobili. Fino al 2013 quando Rubin fece un passo indietro, lasciando spazio a Sundar Pichai, oggi ceo di Google. Andò ad occuparsi di robotica, una delle sue grandi passioni. Un anno dopo Andy lasciò definitivamente il colosso di Mountain View. Una separazione che ha fatto discutere e lasciato molti interrogativi. Non solo perché Rubin faceva parte del circolo ristretto di Larry Page ma anche perché Rubin era Android. Lo era letteralmente: «Android» era il soprannome che i colleghi gli diedero nel 1989 quando lavorava in Apple, un po’ per l’assonanza «Andy-Android», un po’ per l’amore per i robot. Android.com è stato persino il suo sito personale fino al 2008.

Leggi l’intervista di Rubin al “Corriere della Sera”

Finita l’avventura con Big G, è cominciata quella di Playground Global, un incubatore di start-up che ha raccolto 300 milioni di dollari di finanziamenti e si è concentrato su trend emergenti quali intelligenza artificiale, robotica e realtà aumentata. Anzi su un concetto di fondo ancora più audace: l’idea che il mondo reale può interagire con Internet e con i dati. «Penso che la nuova opportunità sia prendere dati da fonti offline — ha spiegato Rubin a Bloomberg — e non dal cloud. Qui è dove entrano in gioco i robot. I robot si spostano, li si può dotare di sensori che percepiscono l’ambiente, farli interagire e apprendere da queste azioni. Se fai cose nel cloud, resti imprigionato nella nuvola». In Playground Rubin e il suo team, 15 ingegneri con esperienze differenti, stanno incubando una quindicina di aziende. C’è chi lavora sui computer quantistico, nuova (e quasi fantascientifica) frontiera dell’informatica, e chi pensa a portare l’intelligenza artificiale a nuovo livello. Rubin è convinto che la AI (Artificial Intelligence) sia la prossima ondata che sconvolgerà la tecnologia. «I cambi di scenario nell’informatica accadono ogni 10-12 anni. Qual è il prossimo? Riguarda i dati e gli esseri umani che insegnano alle AI come imparare» ha detto nel giugno scorso alla Bloomberg Technology Conference. Per questo, si ritiene che la sua Essential punterà per il futuro smartphone anche sull’intelligenza artificiale, un terreno di battaglia che vede in pista tutti i big (da Amazon a Google, da Microsoft a Apple, da Samsung a Huawei).

Che cos’altro si sa di questo fantomatico telefono? Dovrebbe avere uno schermo più grande dell’iPhone 7 Plus (5,5 pollici) ma avere dimensioni più compatti grazie a bordi ridottissimi. Sarà in materiali pregiati, in metallo e ceramica ad alta resistenza: lo produrrà la cinese Foxconn. Lo schermo sarà in grado di recepire differenti livelli di pressione, come l’iPhone. Ma in più, gli ingegneri al lavoro con Andy Rubin starebbero studiando uno speciale connettore magnetico in grado di espandere e aggiornare le funzionalità del dispositivo. Ad esempio con accessori quali una videocamera sferica a 360 gradi. La data di arrivo sul mercato è stimata, secondo l’anticipazione di Bloomberg, intorno a metà 2017 con un prezzo simile a quello dell’iPhone 7 (650 dollari). Con Rubin è al lavoro una squadra di esperti hardware e software, molti dei quali ex Google ed ex Apple. Uno dei più stretti collaboratori è un italiano: il giovane Niccolò De Masi, nominato presidente e Coo (Chief Operating Officer) dell’azienda. De Masi è stato per anni ad di Glu, azienda di videogame per dispositivi mobili: nel 2015, a 33 anni, fece notizia per la paga record di 7,7 milioni di dollari l’anno (più di Zuckerberg) . «L’abilità di Rubin — racconta a Business Insider una fonte anonima che lo conosce bene — è di attirare talenti e di convincerli ad avere fiducia nel percorso che lui ha scelto. È il suo tocco magico».

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Di smartphone ce ne sono tantissimi. E molti in passato hanno proclamato di voler far meglio di Apple e del suo iPhone. Se però la promessa viene da Andy Rubin bisogna prestare attenzione, visto che si tratta del padre di Android, il sistema operativo di Google che domina il mercato della telefonia con oltre l’85% delle quote globali.

Rubin ha venduto la sua società Android a Google nel 2005, ha trascorso a Mountain View i successivi 8 anni facendo decollare il sistema del robottino verde per poi fare un passo indietro nel 2013 e uscire dall’azienda l’anno seguente. Ha creato quindi un incubatore di start-up, chiamato Playground Global, che si è concentrato su intelligenza artificiale, robotica e realtà aumentata. Anche secondo Rubin è la AI (artificial intelligence) la prossima grande ondata dell’industria tecnologica. Proprio sulla AI – rivela Bloomberg – sarebbe concentrata tutta la strategia del visionario manager e di un’azienda non ancora ufficialmente annunciata al pubblico. La società, battezzata Essential, di cui Rubin è CFO (Chief Execuitve Officer), è stata fondata nel novembre 2015 e sarebbe pronta a lanciare nel corso di quest’anno un super-smartphone con caratteristiche da top di gamma e con la presenza a bordo di sofisticati algoritmi di AI. Il telefono sarebbe solo l’architrave di una strategia più complessa, basata su vari dispositivi legati dai software di intelligenza artificiale.

Il progetto sarebbe già stato discusso con i vertici di alcune compagnie telefoniche statunitensi (tra cui Sprint) al Ces di Las Vegas. Durante la prossima grande fiera di tecnologia, il Mobile World Congress di Barcellona, previsto a fine febbraio, potrebbero saltare fuori altri dettagli. Anche se è più probabile che i veri e propri annunci arrivino più avanti nel corso dell’anno.