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Zen - Chiara - IL DISTURBO BORDERLINE

Il documento tratta il tema del disturbo borderline di personalità, uno dei disturbi di personalità riconosciuti. Viene descritta l'origine storica del concetto di personalità e la diagnosi dei disturbi, per poi focalizzarsi sul BPD, analizzandone definizione, sintomi, cause e trattamento. Infine vengono esaminate le relazioni interpersonali tipiche di chi ne soffre.

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Zen - Chiara - IL DISTURBO BORDERLINE

Il documento tratta il tema del disturbo borderline di personalità, uno dei disturbi di personalità riconosciuti. Viene descritta l'origine storica del concetto di personalità e la diagnosi dei disturbi, per poi focalizzarsi sul BPD, analizzandone definizione, sintomi, cause e trattamento. Infine vengono esaminate le relazioni interpersonali tipiche di chi ne soffre.

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE, GIURIDICHE


E STUDI INTERNAZIONALI

Corso di laurea triennale in Servizio Sociale

IL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ:


vivere in balia di un sé fluttuante

Relatrice: [Link] Gianna Magnolfi


Laureanda: Chiara Zen
Matricola n. 1224473

A.A. 2021-2022
1
RINGRAZIAMENTI

Ai miei affetti più cari

e a me stessa

2
3
INDICE

INTRODUZIONE 6

CAPITOLO 1 – Disturbi di personalità: il disturbo borderline di personalità 9


1.1 Disturbi di personalità 9
1.1.1 Costrutto di personalità e la sua origine storica 9
1.1.2 Diagnosi di disturbo di personalità 10

1.2 Disturbo borderline di personalità (BPD) 12


1.2.1 Evoluzione del termine “borderline” 12
1.2.2 Epidemiologia 15
1.2.3 DSM-5: definizione e sintomatologia 16
1.2.4 Disregolazione emotiva e comportamentale 18

CAPITOLO 2 – Cause, trattamento e possibili conseguenze del BPD 22


2.1 Eziologia: interazione tra fattori genetici e ambientali 22
2.1.1 Trauma infantile 24
2.2 Cura e trattamento 25
2.2.1 Farmacoterapia 27
2.2.2 Psicoterapia 28
2.2.3 Trattamento ospedaliero 30
2.2.4 Terapia della famiglia 31
2.3 Conseguenze comportamentali correlate alla disregolazione emotiva 34

CAPITOLO 3 – Il mondo relazionale del paziente borderline 38


3.1 BPD e comorbilità psichiatriche 38
3.1.1 Disturbo dipendente 38
3.1.2 Ansia da separazione 39
3.2 Relazioni interpersonali 40
3.2.1 Rapporto con il partner 41
3.2.2 Rapporto con i professionisti 42
3.2.3 Rapporto con il proprio sé 45
3.3 Il caso di Anna 45

CONCLUSIONI 49

BIBLIOGRAFIA & SITOGRAFIA 54

4
5
INTRODUZIONE

L’elaborato affronta il tema relativo al disturbo borderline di personalità, in sigla “BPD”,


uno dei dieci disturbi di personalità attualmente riconosciuti e diagnosticati dai
professionisti della salute mentale. Esso si presenta come una patologia complessa e
poliedrica, i pazienti che ne sono affetti manifestano caratteristiche peculiari ed anche le
ragioni che portano ad un suo sviluppo sono diversificate e soggettive. Tuttavia, sono le
tempistiche dell’esordio, collocato per la maggior parte in adolescenza ed entro la prima
età adulta, ad essere uno dei tratti che accomuna le persone borderline. Inoltre, un ulteriore
elemento distintivo è correlato alle chiare problematicità in campi come il controllo degli
impulsi e le relazioni interpersonali, motivo per cui il funzionamento del soggetto nei vari
ambiti di vita risulta fortemente compromesso. La scelta del titolo richiama al fatto che
la persona con BPD soffre di continui sbalzi d’umore e veloci oscillazioni degli stati
emotivi, che la costringono a “vivere in balia di un sé fluttuante” e di conseguenza ad
agire in modo irrazionale e talvolta incomprensibile.

La motivazione che mi ha spinto ad approfondire tale argomento è stato lo svolgimento


di un tirocinio presso un Centro di Salute Mentale, intrapreso in virtù del forte interesse
nutrito nei confronti della psichiatria. Di quel luogo ricordo un corridoio sempre affollato:
sedute, varie persone, pazienti e familiari, ognuna con un’espressione differente e con un
linguaggio non verbale che puntualmente cercavo di decifrare con curiosità. Ricordo lo
spaesamento dei primi giorni, emozioni varie che parevano una fusione tra entusiasmo,
imbarazzo, tristezza e paura, probabilmente perché mai fino ad allora avevo avuto
l’occasione di vedere concretamente quanto prima immaginavo e leggevo tra i manuali.
Non è stato semplice varcare la soglia di quella porta, provare per osmosi il dolore dei
pazienti e il disagio che provavano a causa dei pregiudizi che ancora oggi sono rivolti alle
persone con malattie mentali. Già dal primo giorno di questa esperienza ho ritenuto
necessario riflettere su ogni stato d’animo che provavo, su ogni difficoltà che mi faceva
sentire impotente, su ogni sguardo che incrociavo implorante d’aiuto e che spesso mi
metteva soggezione. Ho capito che una riflessione interiore e un costante confronto con
gli operatori, anche e soprattutto sui lati emotivi, sarebbero stati degli strumenti
indispensabili per poter trarre il meglio da un tirocinio svolto in un contesto tanto delicato
e complesso. Affiancata da un’assistente sociale, ho avuto modo di ascoltare i racconti di

6
decine e decine di persone, ciascuno con delle specificità che rendevano imprescindibile
la definizione di percorsi di cura individualizzati e flessibili. Tra gli innumerevoli casi
però, è stato uno ad avermi particolarmente colpita, ossia quello di una donna che ho
deciso di chiamare Anna. Anna è una paziente affetta dal disturbo borderline di
personalità ed è la sua storia, caotica e burrascosa, ad avermi guidata nella scrittura di
questo elaborato. Dal primo momento in cui ho parlato con lei, è scaturita in me una
particolare curiosità nei confronti del BPD, che mi ha portata a renderlo il perno di questa
tesi.

Di seguito, si definiscono gli snodi tematici attraverso cui si struttura l’elaborato, il quale
presenta tre capitoli.

Il primo capitolo introduce l’argomento in un’ottica ampia, descrivendo innanzitutto


l’origine storica del costrutto di personalità e i criteri per diagnosticare i disturbi di
personalità; successivamente, viene ristretto il campo al BPD, rispetto al quale viene
analizzata l’evoluzione del termine “borderline”, la distribuzione e frequenza della
patologia tra la popolazione generale, i sintomi e i criteri per effettuarne la diagnosi,
nonché la sua principale caratteristica, ovvero la disregolazione emotiva e
comportamentale.

Nel secondo capitolo si scende ancor più nello specifico del tema in questione. Viene
esaminata l’eziologia del disturbo borderline, legata ad una commistione tra fattori
biologico-individuali e fattori socio-culturali, in cui i primi predispongono il soggetto ad
una vulnerabilità genetica e i secondi, se negativi e stressogeni, lo portano con maggior
probabilità a sviluppare la malattia. Il sottoparagrafo 2.1.1 è totalmente dedicato al trauma
infantile che, in quanto causa principale dell’insorgenza del BPD, ricorre frequentemente
all’interno della tesi. Il capitolo due accompagna inoltre il lettore verso la conoscenza dei
principali trattamenti proposti dall’equipe socio-sanitaria sia per i pazienti borderline, la
cui cura è complessa e non sempre garantita, che per i caregiver, il cui coinvolgimento
all’interno del percorso di cambiamento risulta essenziale. Quanto agli interventi descritti,
viene sottolineata la maggior efficacia della psicoterapia rispetto alla farmacoterapia.
Successivamente, vengono riportate le conseguenze comportamentali del disturbo, intese
come atti impulsivi causati dalla disregolazione emotiva e che pongono la persona in una
costante situazione di rischio.

7
Infine, il terzo ed ultimo capitolo che, partendo dall’analisi di due comorbilità che spesso
si presentano in concomitanza al BPD, ossia il disturbo dipendente e il disturbo da ansia
da separazione, si concentra sulla questione relativa alle dinamiche relazionali
tipicamente vissute da un paziente borderline, con una particolare sottolineatura sui
rapporti disfunzionali che in genere intrattiene con il partner, con i professionisti
dell’aiuto e con sé stesso. A causa dell’instabilità emotiva e dell’impulsività della persona
borderline, le relazioni che intrattiene risultano altamente disadattive, vissute in modo
patologicamente altalenante e spesso destinate a terminare. In conclusione a questo
capitolo, ho scelto di collocare la storia di Anna, come dimostrazione concreta degli
approfondimenti teorici proposti nel corso della tesi.

L’obiettivo dell’elaborato, perciò, è quello di fornire, tramite un approccio descrittivo,


una vasta panoramica rispetto al disturbo borderline di personalità, accompagnando il
lettore nella comprensione delle sue molteplici sfaccettature e complessità
sintomatologiche. Inoltre, scrivere su questo argomento permetterà a me di approfondire
conoscenze e riflessioni in merito, dando un senso più completo alla preziosa esperienza
di tirocinio compiuta.

8
CAPITOLO 1
DISTURBI DI PERSONALITÀ: IL DISTURBO BORDERLINE DI
PERSONALITÀ

1.1 DISTURBI DI PERSONALITÀ


1.1.1 Costrutto di personalità e la sua origine storica

“Persona” in latino significa “maschera teatrale”, “personaggio sulla scena”; pertanto, il


termine “personalità” rimanda alla modalità di relazione fra l'agire dell'attore e il suo
teatro. Dunque, la personalità si presenta come un pattern che consente alla persona di
vedere, comprendere e relazionarsi con il mondo e con sé stessa. Nello specifico, si
definisce come una combinazione di pensieri, emozioni e comportamenti che rendono
ogni individuo unico, in altre parole è l’insieme dei tratti e delle qualità che lo
contraddistinguono e lo rendono diverso dagli altri. A differenziarla dal temperamento,
che è la componente più biologica e genetica dell’essere umano espressa attraverso
l’istinto, gli impulsi, le disposizioni naturali, le necessità e gli stati affettivi, è il fatto che
la personalità sia il risultato di due condizionamenti, ovvero i fattori genetico-biologici e
i fattori ambientali. Essa inizia a formarsi durante il periodo infantile, attraverso
l’interazione tra i fattori appena citati. Se nello sviluppo normo-tipico i bambini imparano
gradualmente ad interpretare i segnali sociali e a rispondervi in modo appropriato, al
contrario nello sviluppo atipico in cui ciò non avviene è possibile che si generi un disturbo
di personalità. Perciò, si può dire che se le strategie che permettono di adattarsi ai
cambiamenti esterni non vengono utilizzate efficacemente e finiscono per diventare
disfunzionali, la persona può sviluppare un disordine di questo genere.

Sul piano storico, il costrutto della personalità è molto antico. Già Ippocrate di Kos,
medico-filosofo vissuto tra il 460 e il 370 a.C., aveva introdotto il concetto di
“temperamento” identificandone alcune forme: il flemmatico era la persona tipicamente
pacata, il sanguigno era sicuro di sé, il collerico era costantemente arrabbiato, infine il
melanconico era triste e si ritirava socialmente. Gli umori, ossia le sostanze di cui era
composto il corpo umano secondo questa teoria, erano bile nera, bile gialla, flegma e
infine sangue o umore rosso, i quali dovevano essere proporzionati in ogni individuo e in
caso contrario, qualora sopraggiungesse uno squilibrio tra le parti, sorgeva la malattia, sia

9
del corpo che dello spirito. In altre parole, la malattia era sinonimo di un’alterazione nel
bilanciamento dei quattro umori essenziali, perciò per curarla era necessario ristabilire un
ordine. Con queste supposizioni Ippocrate ha definito la “Teoria dei Quattro Umori”, che
corrisponde al primo tentativo di classificazione dei diversi temperamenti dell’essere
umano e che lo ha reso il più antico precursore dello studio della personalità. Tale teoria
è stata accettata ed applicata dalla maggior parte dei medici fino alla metà dell’Ottocento,
proprio per questa peculiare scoperta dell’esistenza di tratti specifici e differenti di
persona in persona. È poi da evidenziare il fatto che già nell’Antica Grecia, periodo in cui
è emersa tale teoria, si percepivano la mente e il corpo come un’unica entità, pertanto la
malattia non era vista come una questione meramente organica.

Un altro importante e più recente studioso del costrutto della personalità è Kurt Schneider,
psichiatra e filosofo tedesco (1887-1966). Egli riteneva che i disturbi di personalità
risalissero da “Personalità in qualche modo abnormi, che per la loro anomalia soffrono
o fanno soffrire la società”; con questa definizione Schneider ha introdotto un dettaglio
rilevante ed estremamente attuale, dicendo che questi tratti patologici non riguardano solo
l’individuo, ma hanno dolorose conseguenze anche su chi lo circonda. Nello specifico,
sosteneva che queste “personalità abnormi” fossero dieci e si discostassero dai
comportamenti che rappresentavano la norma. Tuttavia, anche se egli è ritenuto il pioniere
della classificazione delle personalità psicopatiche, ad oggi la sua teoria è considerata
obsoleta. Uno dei limiti dei suoi studi è legato al fatto che non li abbia condotti con totale
oggettività, ma che abbia fuso un approccio medico ad uno più morale; ha delineato,
infatti, delle diagnosi di personalità basate prettamente su giudizi di valore che non sono
contemplabili dalla scienza. Ciò nonostante, alcune sue intuizioni sono state utilizzate
come punto di partenza per certe descrizioni successive, comprese le attuali
classificazioni di disturbi di personalità del DSM-5.

1.1.2 Diagnosi di disturbo di personalità

I disturbi di personalità costituiscono un gruppo eterogeneo di disturbi psichici, che sono


accomunati dal fatto di comportare nei pazienti sintomi come un pensiero distorto,
risposte emotive problematiche, difficoltà relazionali e un’eccessiva o ridotta capacità di
regolare gli impulsi. La modalità di intendere e di riconoscere questi disturbi è variata nel

10
corso del tempo di pari passo con le sempre nuove ricerche perseguite a livello
internazionale sui temi della psichiatria. Pertanto, il Manuale Diagnostico e Statistico dei
Disturbi Mentali (DSM), redatto dall’Associazione di Psichiatria Americana (APA) è nato
nel 1952 per cercare di creare un linguaggio comune di classificazione che fosse il più
condiviso possibile tra gli esperti di tutto il mondo. Il DSM-5, pubblicato nel 2013 negli
Stati Uniti e nel 2014 in Italia, è l’attuale edizione e si può considerare come il frutto di
anni di progressi nel campo della medicina e della scienza.

L’odierna edizione per fare diagnosi riprende il modello già presente nel DSM-IV, che
differenzia dieci tipi di personalità organizzati in tre cluster, ossia in tre insiemi. Il cluster
A include il disturbo paranoide, il disturbo schizoide e quello schizotipico, caratterizzati
da stravaganza ed eccentricità, disagio provato negli ambienti sociali, ritiro sociale e
sfiducia verso gli altri. Il cluster B comprende il disturbo borderline di personalità, il
disturbo narcisistico, il disturbo istrionico e quello antisociale; i pazienti mostrano una
difficoltà nel controllo degli impulsi e nella regolazione emotiva, perciò il loro
comportamento è drammatico, emotivo, disregolato ed imprevedibile. Infine, nel cluster
C rientrano il disturbo evitante, il disturbo dipendente e il disturbo ossessivo-compulsivo
di personalità, per cui gli individui che ne soffrono hanno alti livelli di inibizione sociale,
ansia e timore, sentimenti di inadeguatezza ed un’ipersensibilità ai giudizi negativi.

La diagnosi effettuata secondo questa classificazione in cluster prevede una valutazione


della presenza di quattro criteri:

• Il criterio A valuta il funzionamento e nello specifico afferma che per


diagnosticare un disturbo di personalità deve esserci una compromissione del
funzionamento della personalità, ovvero deve sussistere un modello abituale di
esperienza interiore e di comportamento che si discosta marcatamente rispetto alle
aspettative della cultura del soggetto. Questo modello si deve manifestare in
almeno due delle seguenti aree: la cognitività, intesa come il modo di percepire e
interpretare sé stessi, gli altri e gli eventi; la sfera affettiva, cioè la varietà,
l’intensità e l’adeguatezza della risposta emotiva; il funzionamento interpersonale
ed il controllo degli impulsi;
• Il criterio B, secondo cui tale condizione è inflessibile e pervasiva in diverse
situazioni, sia personali che sociali;

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• Il criterio C, per il quale è una condizione che genera disagio clinicamente
significativo e/o una compromissione del funzionamento socio-lavorativo ed
affettivo;
• Il criterio D, secondo cui le caratteristiche compromesse sono di lunga durata,
stabili nel tempo e costanti in vari contesti. Inoltre, sancisce come l’esordio
avvenga solitamente in adolescenza o nella prima età adulta;
• Il criterio E, per cui questo pattern non è dovuto ad altro disturbo mentale;
• Il criterio F, per cui non è una condizione attribuibile a effetti di sostanze (farmaci
o sostanze d’abuso) o di altra condizione medica (ad esempio un trauma cranico).

Questo procedimento per punti permette di guidare lo psichiatra verso la definizione di


diagnosi il più possibili esaustive. Sono comunque necessari ulteriori studi per definire
ancor meglio l’area della valutazione della personalità. Infatti, è evidente che un
approccio categoriale non sia del tutto rispondente alla realtà, poiché spesso i pazienti
presentano comorbilità e criteri delle varie tipologie di personalità, motivo per cui non vi
è una totale chiarezza nei confini posti tra i cluster e ciò conduce a diagnosi spesso incerte
o sovrapposte. Di conseguenza il prossimo DSM-6, attualmente in via di definizione, si
sta proponendo di introdurre una serie di novità per superare tali limiti, nella
consapevolezza che la mente umana e la personalità non si possano analizzare solo tramite
categorie. I disturbi di personalità non sono infatti entità a sé stanti e sotto la stessa
diagnosi categoriale possono presentarsi varie sfaccettature psicopatologiche anche molto
diverse fra loro. Pertanto, con le novità in arrivo i clinici dovranno gradualmente
abbandonare questa classificazione per gruppi e sviluppare una prospettiva più ampia dei
disturbi di personalità, al fine di ideare progetti sempre più individualizzati e rispettosi
della specificità e complessità di ogni singolo paziente.

1.2 DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ (BPD)


1.2.1 Evoluzione del termine “borderline”

La diagnosi di disturbo di personalità borderline è attualmente una delle più frequenti, ma


sono trascorsi decenni prima di comprendere il vero contenuto dietro il termine
“borderline”. Infatti, circa un secolo fa, nel periodo prepsicoanalitico, gli studiosi si
interessavano primariamente alle due psicosi maggiori, ossia la schizofrenia (allora

12
definita “dementia precox” da Kraepelin) e la psicosi maniaco-depressiva.
Successivamente, nei primi anni del Novecento, con la diffusione della pratica
ambulatoriale i clinici hanno iniziato ad osservare e nutrire interesse anche per forme
comportamentali ibride, che si potevano collocare a metà tra ragione e follia (Hughes,
1884; Rosse, 1890); queste forme apparivano come pattern che oscillavano e fluttuavano
alternativamente da uno stato di normalità ad uno stato patologico. È in questo momento
che nasce il termine “borderline”, che appare per la prima volta in uno scritto scientifico
di Hughes del 1884 ed intitolato “Borderline psychiatric records. Prodromal symptoms
of neurologist”. La traduzione letterale del concetto è “zona di confine” o “limite” e sotto
questo cappello si comprendevano appunto tutti quei pazienti di difficile identificazione
che non rientravano all’interno di semplici ed abituali etichette diagnostiche e non
rispondevano bene né alle psicoterapie né agli psicofarmaci.

Successivamente la psicoanalisi ha approfondito l’argomento, ritenendo che questo


disturbo presentasse un quadro psicopatologico intermedio tra nevrosi e psicosi (Adolph
Stern, 1938), definito come “sindrome pseudo-nevrotica”, “stato limite” o “sindrome
marginale”. Sembrava come se il disturbo borderline di personalità si differenziasse o
fosse una forma più attenuata delle psicosi classiche, talvolta indicativo di forme atipiche
e più leggere di schizofrenia. “Borderline” era quindi un’appendice associata a quelle
persone che manifestavano queste forme morbose, al bordo delle psicosi. Tuttavia, il
concetto veniva ancora utilizzato raramente perché erano pochi i casi che allora erano
collocabili in quest’area intermedia.

Il costrutto “borderline” è poi emerso più frequentemente verso la metà del Novecento
con autori come Adolph Stern (1879-1958), Robert P. Knight (1902-1966) e Roy Grinker
(1900-1993). Stern nel 1938 ha descritto i pazienti borderline come ipersensibili,
idealizzatori e al contempo svalutatori dei terapeuti, con un costante senso di inferiorità e
con meccanismi proiettivi che tendevano a sconfinare in deliri. Quindici anni dopo Knight
ha intuito che fossero persone con un Io debole, a causa di disfunzioni come il pensiero
primario e l’incapacità di programmare realisticamente le azioni e di difendersi contro
impulsi primitivi; tuttavia, ad egli si deve soprattutto il fatto di aver iniziato a
categorizzare il disturbo borderline di personalità come un’entità autonoma.
Successivamente, negli anni ’60 Grinker sulla scia di Knight, ha condotto una ricerca che
ha portato alla definizione di alcuni criteri diagnostici del BPD: tendenza alla depressione

13
pervasiva, rabbia come emozione prevalente, difficoltà nelle relazioni interpersonali,
assenza di un’immagine di sé coerente. Il principale merito di Grinker è l’aver distinto il
disturbo borderline di personalità dalla schizofrenia, confutando in tal modo l’idea, al
tempo molto diffusa, che il borderline fosse in realtà uno schizofrenico.

Nel 1967 è stato Otto Kernberg ad approfondire ulteriormente l’argomento. Egli ha


coniato l’espressione “organizzazione borderline di personalità”, associandola ad una
modalità intrapsichica, stabile nel tempo e con caratteristiche specifiche, quali la presenza
di una diffusione di identità, di un esame di realtà integro e di operazioni difensive
primitive. Egli aveva identificato anche alcuni aspetti secondari, non necessari alla
diagnosi ma molto comuni tra questi pazienti, quali una bassa tollerabilità dell’ansia,
limitate capacità sublimatorie e un ridotto controllo degli impulsi. Anche per lo psichiatra,
dunque, le persone borderline manifestavano elementi sia della nevrosi che della psicosi,
ribadendo che tale condizione si trovasse in una zona di limite. Successivamente,
prendendo consapevolezza che i sintomi descrittivi non erano sufficienti per una diagnosi
definitiva, nel 1975 Kernberg ha svolto un’attenta analisi strutturale che ha rivelato altre
quattro caratteristiche chiave del BPD, tra cui: manifestazioni non specifiche di debolezza
dell’Io, quali una mancanza di tollerabilità, di controllo degli impulsi e di sublimazione
delle pulsioni più intense, le quali comportavano comportamenti disfunzionali e
disregolati; scivolamento verso processi di pensiero primario e simil-psicotico specie di
fronte ad affetti intensi, anche se prevalentemente associato ad un esame di realtà integro;
presenza di operazioni difensive specifiche, come l’idealizzazione primitiva,
l’onnipotenza e svalutazione, l’identificazione proiettiva e la scissione; presenza di
relazioni d’oggetto patologiche interiorizzate, che comporta il rapportarsi con gli altri
oscillando tra idealizzazione e svalutazione, guardare il mondo in modo totalmente
negativo o positivo senza riuscire a captare degli stati intermedi, tenere dei
comportamenti ed atteggiamenti contraddittori, nonché avere un’immagine di sé
altalenante. Il pensiero di Kernberg è stato molto rilevante all’epoca, ma i criteri
identificati non risultavano specifici del BPD, ma generalizzabili ai diversi disturbi di
personalità, quindi parlare di “organizzazione borderline di personalità” permetteva in
realtà di riferirsi a varie condizioni.

È stato John G. Gunderson (1942-2019), a superare tale limite e ad avvicinarsi molto alla
concezione attuale, delineando chiare caratteristiche specifiche del disturbo borderline di

14
personalità: basso rendimento lavorativo, tratti impulsivi, intenti suicidari e manipolatori,
brevi o lievi episodi psicotici, malfunzionamento a livello relazionale. In particolare,
rispetto a quest’ultimo criterio, lo studioso aveva notato che i pazienti tendono alla
depressione in presenza delle persone care, nonché all’ira, ai gesti suicidari o a reazioni
psicotiche quando percepiscono un timore di abbandono; inoltre, sentimenti come la
rabbia prevalgono sul calore emotivo.

Nel frattempo, anche il DSM-III era diventato un punto di riferimento per effettuare le
diagnosi. Infatti, nonostante la prima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei
Disturbi Mentale fosse stata pubblicata ancora nel 1952, solo con la terza edizione del
1980 si era diffuso questo sistema nosografico per l’analisi e diagnosi dei disturbi mentali.
Tale versione delineava i criteri diagnostici del BPD affidandosi ai contributi di Kernberg
e Gunderson e prevedendo inoltre una valutazione multiassiale, eliminata nel DSM-5,
secondo cui il disturbo borderline si poteva annoverare all’interno dell’asse II, appunto
tra i disturbi di personalità. Le successive due edizioni si sono poi sviluppate in coerenza
con i nuovi studi in tema di personalità patologiche; nel paragrafo 1.2.3 elenco i criteri
del DSM-5 attualmente validi.

Si può concludere che al giorno d’oggi non si segue più la distinzione tra nevrosi e psicosi,
ma la diagnosi di BPD si basa su segni di instabilità emotiva, sentimenti di depressione,
vuoto interiore, nonché sulla presenza di gravi problemi comportamentali e relazionali.
Nonostante la definizione e le modalità per diagnosticarlo siano cambiati, il termine
“borderline” è rimasto.

1.2.2 Epidemiologia

Il disturbo borderline di personalità non è un disordine raro. È molto comune sia fra gli
adulti che fra i più giovani, con i più alti tassi di incidenza nella fascia d’età compresa tra
i 18 e i 35 anni. Infatti, la fase della vita in cui tendenzialmente avviene l’esordio è la
prima età adulta.

Circa il 75% dei pazienti a cui viene diagnosticato è di sesso femminile, ciò è
probabilmente dovuto al fatto che negli uomini tende a manifestarsi con una
sintomatologia che dà origine ad un quadro clinico che in parte è differente da quello

15
presentato da una tipica paziente borderline; agli uomini, quindi, vengono più spesso
associate altre condizioni, come il disturbo antisociale di personalità, disturbo
narcisistico, oppure il disturbo provocato da uso di sostanze.

La prevalenza del BPD oscilla circa tra lo 0,7% e l’1,8% nella popolazione generale, ma
il tasso di prevalenza aumenta notevolmente al 15-20% nelle popolazioni cliniche, ossia
quando ci si riferisce ai pazienti che vengono ricoverati per disturbi mentali. Pertanto, si
può affermare che sia una delle patologie più diffuse nelle cliniche e reparti psichiatrici,
nonché uno tra i disturbi di personalità più rappresentati.

1.2.3 DSM-5: definizione e sintomatologia

Il disturbo borderline di personalità è uno dei disturbi di personalità riconosciuti dal


DSM-5 che, colpendo in primo luogo il comportamento di una persona piuttosto che la
sua percezione di benessere fisico, risulta essere una condizione fortemente debilitante.
Appartiene al cluster B, il quale comprende tutti quei disturbi di personalità
caratterizzati da una difficoltà nella gestione delle emozioni, da un’instabilità generale
e dall’incapacità di coltivare delle relazioni sociali e/o interpersonali stabili e
significative. Tra i disturbi del secondo cluster, accanto al BPD emergono il disturbo
narcisistico, quello istrionico e quello antisociale.

Date le molteplici manifestazioni che ogni disturbo può assumere, il Manuale Diagnostico
e Statistico dei Disturbi Mentali aiuta ad identificare diagnosi precise qualora sussista un
numero minimo di sintomi, che è specifico per ciascuna condizione psichica. Nel caso
del disturbo borderline di personalità, l’attuale edizione elenca nove criteri, ma perché sia
diagnosticato è sufficiente la presenza di almeno cinque; essi hanno tutti la medesima
rilevanza poiché non vengono effettuate distinzioni tra sintomi primari e secondari.

Nello specifico, il manuale afferma che si tratta di: << Un pattern pervasivo di instabilità
di relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore e una marcata impulsività,
che inizia nella prima età adulta ed è presente in svariati contesti, come indicato da
cinque (o più) dei seguenti elementi:

1) Sforzi disperati per evitare un reale o immaginario abbandono.

16
2) Un modello di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzato da
un’alternanza tra gli estremi di iperidealizzazione e svalutazione.
3) Alterazione dell'identità: immagini di sé e percezione di sé marcatamente e
persistentemente instabili.
4) Impulsività in almeno due aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto
(per esempio spese sconsiderate, sesso, abuso di sostanze, guida spericolata,
abbuffate).
5) Ricorrenti comportamenti, gesti o minacce suicidari, o comportamento auto-
mutilante.
6) Instabilità affettiva dovuta a una marcata reattività dell'umore (per esempio,
intensa disforia episodica, irritabilità o ansia, che di solito durano poche ore e
soltanto raramente più di pochi giorni).
7) Sentimenti cronici di vuoto.
8) Rabbia inappropriata, intensa, o difficoltà a controllare la rabbia (per esempio,
frequenti eccessi di ira, rabbia costante o ricorrenti scontri fisici).
9) Ideazione paranoide transitoria, associata allo stress, o gravi sintomi
dissociativi >>.

Analizzando i criteri clinici, si comprende che per diagnosticare questo disturbo i pazienti
devono presentare un modello persistente di instabilità ed impulsività in vari ambiti, tra
cui quello relazionale, emozionale, familiare e lavorativo. È un pattern pervasivo e stabile,
che emerge in giovane età e che è indipendente da altra condizione medica, altra patologia
mentale o dall’uso di sostanze.

Uno dei segni e dei sintomi distintivi del BPD è la propensione a comportamenti
impulsivi. Questa impulsività può manifestarsi in modo negativo, per esempio
attraverso atti di autolesionismo, che consistono nel ferirsi o prodursi della sofferenza
fisica oppure nel tenere dei comportamenti autodistruttivi, come assumere droghe.
Inoltre, chi ha questa diagnosi può essere incline a scoppi d’ira e talvolta può spingersi
persino a compiere reati come risultato di un’urgenza impulsiva ed un’incapacità di
valutare gli effetti dei propri comportamenti. Un’altra caratteristica tipica del disturbo
è la labilità affettiva o disregolazione emotiva, per cui il paziente è sottoposto ad
oscillazioni frequenti e repentine di emozioni, sentimenti e stati umorali, che non sa
gestire. Ulteriori elementi chiave del disturbo sono: la distorsione della realtà, la

17
tendenza a vedere gli eventi in “bianco e nero” senza comprendere il fatto che possano
esistere molteplici sfumature; la propensione alla depressione, una scarsa sensazione di
autoefficacia e una ridotta autostima, nonché comportamenti sia eccessivi come il gioco
d’azzardo e/o la promiscuità sessuale sia dipendenti come l’uso di alcol o sostanze.
Questi tratti tipici possono rendere molto complesso mantenere un buon rapporto con
una persona con disturbo borderline, poiché il suo pensiero e le sue azioni possono
essere difficili da capire e da tollerare agli occhi altrui, siano essi i familiari, le persone
significative o l’equipe medica, motivo per cui il trattamento risulta particolarmente
complicato e spesso inefficace. Ne deriva il fatto che oltre al paziente, soffre anche chi
lo circonda, così come affermava Schneider quando parlava di “Personalità abnormi
che per la loro anomalia soffrono o fanno soffrire la società”.

1.2.4 Disregolazione emotiva e comportamentale

Il disturbo borderline di personalità ruota attorno a due perni: la disregolazione delle


emozioni e il malfunzionamento relazionale; questo paragrafo sarà dedicato al primo di
questi elementi, che in realtà è anche la causa del secondo. Infatti, la disregolazione
emotiva è il sintomo cruciale del BPD, poiché riesce a spiegare tutte le caratteristiche del
disturbo, quali l’impulsività, le alterazioni del pensiero, i comportamenti pericolosi e
l’instabilità relazionale. Questa si definisce come una combinazione di fattori tramite cui
il paziente borderline si relaziona con il mondo, con sé stesso e con le sue emozioni. In
particolare, comporta una forte vulnerabilità emotiva, dunque un’elevata sensibilità agli
stimoli emotivi ed un’incapacità a modulare in modo costruttivo le risposte ad essi, che
quindi risultano insolite ed illogicamente intense. I pazienti sperimentano di frequente
emozioni molto negative: la rabbia, la vergogna, l’ansia e la depressione sono quelle che
prevalgono. Di conseguenza, temendo l’intensità di tali vissuti, cercano di evitarli o
almeno controllarli, mettendo in campo però strategie impulsive che per la maggior parte
delle volte risultano controproducenti, come l’uso e abuso di sostanze, i gesti autolesivi o
suicidari ed altre azioni eccessive e appunto disregolate. La principale motivazione per la
quale reagiscono in tal modo al caos psicologico e ai sentimenti di vuoto cronico che
vivono nel quotidiano, è il voler sentirsi vivi, provare una scarica adrenalinica in grado di
superare un dolore ritenuto insostenibile; per questo, hanno comportamenti estremi senza

18
però avere consapevolezza delle spiacevoli conseguenze degli stessi. Per altri, invece, si
tratta più di un desiderio di sentire temporaneamente la quiete, in contrapposizione alla
confusione della mente; altri ancora vogliono non sentire, o meglio non sentirsi, alienarsi.

In generale, la tendenza a perdere il controllo sulle proprie emozioni sembra essere un


fattore legato ad aspetti in parte cognitivi, tipici appunto delle persone con BPD.
Numerosi studi svolti su campioni ampi di pazienti borderline hanno dimostrato la
presenza in loro di un’iperattivazione basale dell’amigdala, ossia quella piccola struttura
presente nel cervello che regola le emozioni attribuendo appunto significato emotivo agli
stimoli provenienti dall’esterno. Ciò non significa che i pazienti che soffrono di questo
disturbo, avendo un’amigdala particolarmente sensibile, sono gli unici a sperimentare una
tale difficoltà a livello emotivo; infatti, questa disregolazione è presente nella maggior
parte dei disturbi di personalità, anche se è più marcata in quello borderline.

Ciò non può che comportare anche una disregolazione comportamentale, che si manifesta
su vari piani. Le relazioni interpersonali, innanzitutto, sono vissute in modo caotico tanto
quanto le emozioni; l’incapacità di mantenere rapporti stabili e duraturi nasce appunto
dall’essere “in balia di un sé fluttuante”, che fluttua alternando in modo repentino e senza
una logica stati emotivi differenti. Anche le varie crisi di aggressività, la difficoltà a
controllare i propri impulsi, la scarsa fiducia nelle proprie capacità e i vani tentativi di
impegnarsi nel comportamento finalizzato allo scopo in ambiti come quello lavorativo,
della cura di sé o della partecipazione sociale, non sono altro che delle conseguenze, sul
piano delle azioni, di un sé emotivamente disregolato ed instabile. Inoltre, uno dei fattori
che può amplificare queste reazioni inadatte è il sentirsi incompresi dalle persone, siano
essi familiari, amici o professionisti; spesso, infatti, si sentono dire di essere esagerati, di
ingigantire i problemi, di creare futili drammi e ciò non fa altro che peggiorare
ulteriormente lo stato d’animo di questi pazienti, nonché la loro cura. Si tratta dunque di
un circolo vizioso, in cui ad esempio ansia e depressione provocano un episodio di
disregolazione emotiva, la quale provoca comportamenti impulsivi che per la maggior
parte hanno effetti indesiderabili e sfociano, nuovamente, in ansia e depressione; si ripete
così il processo.

In generale, si può dire che questo temperamento emotivamente vulnerabile tipico del
paziente borderline deriva spesso dall’aver vissuto in un ambiente traumatico e/o

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invalidante che ha portato alla crescita di adulti caratterizzati da un’importante sofferenza
emotiva e da un’incapacità a governarla. Infatti, la regolazione emotiva è una competenza
che di norma dovrebbe svilupparsi a partire dall’infanzia, periodo in cui di frequente
queste persone vivono esperienze negative o traumi che li portano a non acquisire tale
abilità e a sviluppare spesso un BPD.

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21
CAPITOLO 2
CAUSE, TRATTAMENTO E POSSIBILI CONSEGUENZE DEL BPD

2.1 EZIOLOGIA: INTERAZIONE TRA FATTORI GENETICI E AMBIENTALI

La ricerca è attualmente ancora in via di definizione per quanto concerne l’analisi delle
cause relative ai disturbi di personalità. Sembra però evidente, oramai, la presenza di una
multifattorialità eziopatogenetica che vede coinvolti una varietà di aspetti, ancora in
parte sconosciuti. In particolare, tali disturbi sembrano essere il risultato della
combinazione ed interazione tra fattori genetici e fattori ambientali, che contribuiscono
nella medesima misura alla determinazione di queste patologie, tra cui anche del BPD.

Rispetto alla componente più biologica, si può affermare che alcuni individui nascano
con una tendenza a sviluppare maggiormente questo genere di disturbi, poiché sono
naturalmente portati a reagire in modo disadattivo agli stress della vita. Questo perché
l’ereditarietà gioca un ruolo importante, per cui i parenti di primo grado o ad esempio, i
gemelli omozigoti di persone con un disturbo di personalità, possono facilmente ereditare
una vulnerabilità biologica che li espone con più probabilità al rischio di vedersi
diagnosticata la medesima condizione rispetto alla popolazione generale. Si può, detto
diversamente, essere più predisposti a soffrire di un disturbo di personalità solo per il fatto
di nascere in un contesto genetico particolarmente sfortunato.

Nonostante siano ancora limitate le evidenze a pieno supporto dell’influenza dei fattori
biologico-individuali, molti studi di imaging strutturale hanno evidenziato che i pazienti
con un BPD sembrano avere delle anomalie a livello di strutture cerebrali. Alcune parti
del cervello responsabili del processamento emotivo, cognitivo e sociale coinvolte sia
nella gestione degli impulsi che nella regolazione delle emozioni e dell’umore sembrano
alterate e non totalmente funzionanti. Più specificatamente, sono persone che hanno una
funzionalità serotoninergica più bassa rispetto ai soggetti non affetti da questo disturbo:
ridotti livelli del neurotrasmettitore serotonina, anche detto “ormone del buonumore”,
sembrano essere una delle cause coinvolte nella vulnerabilità emotiva che porta i pazienti
borderline a percepire eventi di rilevanza minima in modo inspiegabilmente intenso e a
mettere in atto risposte disregolate. Inoltre, un’area cerebrale coinvolta in tali meccanismi

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è il sistema limbico in cui si trova anche l’amigdala, che si attiva eccessivamente in
risposta a stimoli emotivi. L’iperattività di questa zona provoca un’ipervigilanza, dunque
un’intensa attivazione dell’arousal, caratterizzato da un forte stato attentivo-cognitivo di
risposta, il quale porta a sviluppare alterazioni dell’attenzione, come la tendenza a
interpretare gli eventi neutri come negativi o a captare segnali di futili minacce. Ciò
comporta anche notevoli problematiche relazionali, proprio per l’estrema sensibilità che
tali pazienti hanno rispetto alle espressioni dei volti altrui, spesso percepite come
inaffidabili e ostili, mai neutrali.

Gunderson nel 2014 ha portato il proprio contributo rispetto alla questione eziologica,
ipotizzando che alla base del BPD possa esserci un temperamento innato, geneticamente
determinato, costituito da un’ipersensibilità interpersonale a causa della quale il paziente
ha difficoltà fin dalla tenera età a contenere le emozioni. Questa sensibilità individuale va
a condizionare negativamente le esperienze che vive il bambino a partire dai rapporti che
intrattiene con le figure curanti, ponendo in tal modo le basi per un attaccamento
disfunzionale ed una personalità patologica. Questo permette di comprendere l’influenza
bidirezionale tra geni e ambiente. Anche Zanarini e Frankenburg (1997) hanno parlato a
proposito della stretta relazione tra fattori biologici e contestuali, identificando tre
elementi principali che fungono da catalizzatori capaci di attivare la sintomatologia del
BPD: un temperamento costituzionalmente vulnerabile che può aumentare la probabilità
di esposizione a condizioni di vita negative; un ambiente familiare traumatico e caotico
costituito da disaccordo emozionale, separazioni precoci, atteggiamenti di rifiuto,
insensibilità e negazione; eventi scatenanti come violenze, abusi, rapporti interpersonali
disadattivi.

Si può quindi capire che la vulnerabilità individuale sia solo uno degli aspetti compresi
nell’eziologia del disturbo di personalità, poiché essa può essere soppressa o più spesso
amplificata dai fattori ambientali, ugualmente coinvolti. Il contesto socio-familiare di
riferimento del soggetto risulta centrale, condizionando ed essendo condizionato dalla
malattia, motivo per cui spesso per il trattamento dei pazienti borderline si chiede la
partecipazione anche dei caregiver.

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2.1.1 Trauma infantile

Il percorso che porta a sviluppare un disturbo borderline di personalità è attualmente


ancora oggetto di dibattito scientifico, ma come già detto in precedenza, vi sono alcune
cause rispetto alle quali concordano la maggior parte dei ricercatori. Questo paragrafo è
dedicato ad uno dei fattori di rischio principali, ossia vivere esperienze traumatiche
durante l’infanzia come l’esposizione a psicopatologia familiare, presenza di genitori
abusatori di sostanze e/o di alcol, atti di trascuratezza e negligenza, abbandoni,
maltrattamenti e violenze, abusi di vario genere. Spesso infatti ricostruendo le storie di
vita di questi pazienti, si nota la presenza di contesti di crescita invalidanti che hanno
comportato traumi ed intensi stress psico-sociali che, soprattutto se vissuti in età precoce,
hanno contribuito allo sviluppo del BPD. Porre il focus sul periodo infantile è importante
proprio perché è in questa finestra temporale che il bambino impara molto su sé stesso e
sul mondo che lo circonda, definendo il proprio sé soprattutto attraverso il legame che
costruisce con le figure di riferimento; per questo, quando si parla di disturbo borderline
è necessario comprendere la presenza di eventuali rapporti patologici che il bambino
instaura nell’infanzia. Creare un rapporto disfunzionale con i caregiver e specie con la
madre, può comportare difficoltà a strutturare una personalità solida ed unitaria e ad
acquisire competenze come la regolazione emotiva. Si può costituire infatti un tipo di
attaccamento disorganizzato (J. Bowlby, 1907-1990) che, a causa dell’incoerenza degli
stati emotivi dei genitori e della contraddittorietà delle loro risposte verso il figlio, crea
nel bambino un vissuto interiore fatto di incertezze, negatività e sfiducia verso gli altri.
In tale contesto si creano le basi per la nascita di possibili psicopatologie.

Tra i tanti ricercatori, ad approfondire l’argomento è stata anche la psicologa americana


Marsha Linehan (1943-) che nei primi anni ’90 ha elaborato la “Teoria biosociale”.
Secondo questa teoria, la componente biologica che comporta una predisposizione
genetica alla fragilità emotiva si associa sempre ad un ambiente familiare invalidante che
rifiuta o punisce l’espressione delle emozioni, l’esperienza interiore e i bisogni del
bambino. Nello specifico, si tratterebbe per Linehan di ambienti dove le figure curanti
non sono in grado di riconoscere gli stati emotivi del figlio e tendono a rispondervi con
modalità inappropriate, caotiche ed eccessive, svalutandoli, punendoli, criticandoli e
maltrattandoli sul piano emotivo, psicologico e talvolta anche fisico. Il futuro paziente,
dunque, privato di cure e attenzioni, è un bambino che non ha imparato a raccontare le

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sue sofferenze interiori, né a darvi un nome o un senso. Le emozioni represse,
accumulandosi, finiscono per esplodere generando una più intensa disregolazione
emotiva che con gli anni può sfociare in una diagnosi di BPD.

Tuttavia, se non per una negazione di emozioni come appena descritto, il disturbo può
sorgere anche a causa di esperienze traumatiche come gli abusi sessuali, che Linehan
considera la più grave forma di invalidazione che si può presentare in età precoce. È stato
scoperto che i tassi di questa forma di abuso sono significativamente più alti nel disturbo
borderline di personalità rispetto ad altri tipi di patologie psichiatriche; alcuni dati
sperimentali hanno indicato che la percentuale di pazienti con BPD che hanno subito uno
o più abusi sessuali durante l’infanzia varia dal 40% al 76% (Crowell et al., 2009) e circa
il 25% ha una storia di incesto familiare. Inoltre, i sintomi più gravi si presentano nelle
bambine che hanno subito atti sessuali completi con penetrazione (Luthra, 2009);
frequenti episodi di derealizzazione e depersonalizzazione ne sono un esempio.

Chiaramente, tali avversità rimangono indelebili e, compromettendo la capacità di placare


emozioni spiacevoli, di regolare gli stati d’animo e di avere fiducia in sé stessi e negli
altri, rischiano di essere invalidanti per tutta la vita. Ciò fa intravedere le possibili
complicazioni nel trattamento, sia esso somatico o psicologico.

In conclusione, è necessario ribadire che ogni paziente borderline può avere alle spalle
un quadro eziopatogenetico differente, che coinvolge in varia misura i fattori
predisponenti. Infatti, anche se accade di frequente, non tutte le persone con BPD hanno
alle spalle esperienze traumatiche come quelle sopra indicate, poiché in sé e per sé non
risultano essere necessarie né sufficienti per lo sviluppo della patologia.

2.2 CURA E TRATTAMENTO

Per lungo tempo si è mantenuta l’idea che il disturbo borderline di personalità fosse una
condizione cronica resistente alla maggior parte delle cure. La realtà oggi è diversa: le
scoperte relative alla sua complessa eziopatogenesi e i numerosi studi longitudinali,
hanno permesso di comprendere maggiormente la patologia, rilevare il fatto che la
maggioranza dei pazienti risponde bene ai trattamenti combinati e quindi sperare che ci
possa essere una prognosi favorevole. È per questo che lo psichiatra canadese Joel Paris,

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nel 2012, ha affermato che “Il disturbo borderline non è, come si pensava in passato, una
condanna all’ergastolo”.

Alcune ricerche prospettiche di follow-up a lungo termine hanno evidenziato che i


sintomi acuti più comuni, quali la disregolazione emotiva, l’impulsività e i
comportamenti auto-mutilanti, tendono generalmente ad una remissione anche in assenza
di cure. Tuttavia, la remissione dei sintomi non equivale sempre ad una remissione
completa, che invece sta ad indicare un buon funzionamento sociale, lavorativo e/o
scolastico. Si può comprendere che nonostante si possa non soddisfare più tutti i criteri,
si possano continuare ad avere difficoltà legate ad un malfunzionamento generale come
strascico della malattia e che necessita di un trattamento continuativo. Considerato ciò, la
soluzione per i pazienti borderline, appresa anche e soprattutto grazie al sostegno dei
familiari e alla psicoterapia, è imparare a condurre una vita soddisfacente
indipendentemente dai problemi che possono persistere. Nel 2011, l’Organizzazione
Mondiale della Sanità ha a proposito coniato il concetto di “salute” identificandolo come
la “Capacità di adattamento e di autogestione di fronte alle sfide sociali, fisiche ed
emotive”; la salute, perciò, è intesa come convivenza e accettazione del proprio stato di
salute, nella consapevolezza che certe condizioni non possano prevedere una cura totale
ma almeno un miglioramento grazie ad un’autogestione del problema. “Salute”, in altre
parole, non è da intendere come “assenza di malattia”, ma come capacità di vivere anche
in condizioni di irreversibile raggiungimento di piena guarigione.

Quanto alla possibile cura del BPD, le evidenze dimostrano come il trattamento generale
sia il medesimo rispetto a quello proposto per tutti i disturbi di personalità previsti dal
DSM-5. La terapia consiste nella presa in carico da parte di un’equipe socio-sanitaria, la
quale pone in essere trattamenti che prevedono un’integrazione di psicoterapia e
farmacoterapia, nella consapevolezza però che i farmaci non siano sempre una soluzione
efficace per curare questo specifico disturbo; a tal proposito, Gunderson ha affermato che
nessun farmaco si è dimostrato uniformemente e straordinariamente utile nel caso del
BPD. Ciò significa che non tutti i pazienti rilevano lo stesso beneficio da una medesima
terapia farmacologica, il che è influenzato anche dalla tendenza impulsiva dei pazienti
borderline a modificare, variare o sospendere in autonomia le cure. Pertanto, è
indispensabile andare a costituire una solida alleanza terapeutica, in cui tali persone siano
motivate a consultare il medico prima di agire dei cambiamenti. La trasparenza e l’onestà

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devono essere caratteristiche principali nella relazione equipe-paziente, nella quale i
professionisti devono proporre progetti concreti e raggiungibili proponendo alla persona
un chiaro esame di realtà, senza infonderle speranze eccessive sugli eventuali effetti attesi
che potrebbero non verificarsi; si ricorda che il disturbo borderline è tra le patologie
psichiatriche più complesse da trattare. Per le peculiarità di questi pazienti, è anche
essenziale non presentare la terapia come un obbligo, il che sarebbe controproducente,
ma al contrario discutere sinceramente rispetto ai vantaggi e svantaggi delle cure
proposte, lavorando sulla loro motivazione ad intraprendere il percorso più adatto per il
loro benessere.

2.2.1 Farmacoterapia

Il disturbo borderline di personalità rappresenta una condizione di permanente


imprevedibilità, i cui sintomi variano frequentemente e velocemente, motivo per cui la
prescrizione dei farmaci dovrebbe essere modificata spesse volte per avere una costante
efficacia. Inoltre, data l’impulsività di questi pazienti, è importante che il medico non
prescriva troppi farmaci, per evitare conseguenze spiacevoli come l’abuso di sostanze
anche farmacologiche. Comunque sia, se usati con parsimonia, i farmaci più indicati per
migliorare i sintomi del disturbo sono:

- Stabilizzatori dell'umore: per la depressione, l'ansia, la labilità dell'umore, le crisi


impulsive e la rabbia; tra questi, il topiramato e la lamotrigina (ambedue farmaci
antiepilettici) sono i più utilizzati. Qualora si presentino sintomi depressivi, spesso
vengono abbinati gli SSRI, cioè gli inibitori selettivi della ricaptazione della
serotonina, che sono di solito ben tollerati e non presentano un alto rischio di
sovradosaggio letale.
- Antipsicotici atipici, ovvero di seconda generazione, utilizzati per controllare
l’ira, gli impulsi e i sintomi cognitivi tra cui le distorsioni temporanee correlate
allo stress cognitivo, che comprendono i pensieri paranoici, il pensiero in “bianco
e nero”, la grave disorganizzazione cognitiva. Essi possono aumentare il rischio
di sindrome metabolica, pertanto vanno utilizzati sotto stretto controllo e limitati
non appena il paziente si stabilizza.

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- Le benzodiazepine sono farmaci con effetti sedativi e vanno prescritti con estrema
cautela, anche se solitamente non sono raccomandati perché la dipendenza, il
sovradosaggio e la disinibizione comportamentale ne rappresentano dei rischi
rilevanti.

In generale, si può evidenziare che non sia semplice approcciare con una persona
borderline, che per natura è diffidente, e costruire con lei un rapporto di fiducia, quindi
nemmeno pretendere che segua una cura proposta da uno psichiatra di cui può non fidarsi
pienamente. Pertanto, tra i principi guida che possono indirizzare il medico nella pratica
professionale con un paziente di questo tipo, vi sono: collaborare con lui per comprendere
i sintomi bersaglio e i relativi effetti collaterali; spiegargli chiaramente che, se il farmaco
prescritto risulta inefficace, può essere sostituito in seguito ad una riduzione graduale
delle dosi, nonché ridurre le alte aspettative che può avere rispetto alla terapia
farmacologica, sottolineando che principalmente si deve affidare alla psicoterapia.

2.2.2 Psicoterapia

La psicoterapia è un percorso, generalmente di lunga durata, quasi sempre associato ad


una farmacoterapia per il trattamento dei disturbi psichiatrici. Soprattutto per i pazienti
borderline, è pensata come il principale metodo di cura perché sembra avere più ampie
possibilità di riuscita rispetto ai farmaci. In particolare, nel BPD la psicoterapia è
essenziale per imparare, attraverso la relazione con il terapeuta, a capire le radici della
disregolazione emotiva e le strategie da mettere in campo per gestire gli stati mentali, gli
sbalzi d'umore e i rapporti interpersonali.

Data la molteplicità di manifestazioni che il disturbo può assumere, vi sono diversi


approcci psicoterapeutici, la cui efficacia ed utilizzo dipendono dalle peculiarità della
persona coinvolta.

In generale, è dimostrato che ad essere maggiormente impiegata è la terapia dialettico-


comportamentale (Dialectical Behaviour Therapy - DBT), progettata dalla psicoterapeuta
statunitense Marsha Linehan. Originariamente sviluppata per soggetti con condotte
parasuicidarie o suicidarie, è infatti considerata ad oggi il trattamento d’elezione
evidence-based per la cura della patologia borderline. Concretamente, questo trattamento

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cognitivo-comportamentale prevede una combinazione tra incontri individuali di
psicoterapia, skills training di gruppo e la presenza di un’equipe specifica di
consultazione terapeutica in cui i professionisti attuano una co-terapia finalizzata ad un
obiettivo comune, cioè l’aumento del benessere delle persone. Tale approccio mira ad
agire sui pensieri e comportamenti disadattivi ed impulsivi al fine di modificarli e far
acquisire nuove abitudini più funzionali, come maggiori abilità psicosociali; in tal modo
aiuta a diminuire gli atti autolesivi, i tentativi di suicidio, i sintomi depressivi, l’abuso di
sostanze, l’ospedalizzazione e i frequenti atteggiamenti di abbandono verso le cure.
Ancor più nello specifico, la DBT promuove l’apprendimento di competenze quali:
l’osservazione consapevole di sé stessi e degli altri (mindfulness) e l’acquisizione di un
atteggiamento non giudicante verso il prossimo, la regolazione emotiva, il senso di
autoefficacia, la capacità di relazionarsi, la gestione e la tolleranza di stati emozionali
intensi. Inoltre, tale modello risulta particolarmente efficace nel caso di storie di abuso
infantile, poiché favorisce la presa di consapevolezza delle conseguenze dell’evento e
dell’origine della malattia, nonché l’acquisizione di strategie volte all’accettazione della
propria condizione, alla creazione di un sé stabile e al cambiamento interiore (Follette &
Ruzek, 2006).

Tra i tanti, altri approcci psicoterapeutici utilizzati frequentemente per migliorare il


funzionamento interpersonale e sociale dei pazienti borderline sono: la mentalizzazione
(Mentalization Based Treatment - MBT), tecnica sviluppata da Anthony Bateman e Peter
Fonagy, e la psicoterapia incentrata sul transfert (Transference Focused Therapy - TFP)
di Otto Kernberg.

• Il trattamento basato sulla mentalizzazione consiste nell’insegnare a mentalizzare,


cioè comprendere il proprio stato mentale e quello altrui. Tale capacità si
acquisisce solitamente durante il periodo infantile, quando il bambino si sente
considerato dai genitori; i pazienti borderline, sperimentando spesso tipi di
attaccamento disfunzionali ed incapacità di cura da parte delle figure di
riferimento che non danno rilevanza alle loro emozioni, non riescono a sviluppare
tale abilità. Pertanto, il trattamento punta ad aiutare i pazienti a riflettere sui propri
stati emozionali, capire come essi influenzano il loro comportamento e come si
possono modulare per intrattenere rapporti interpersonali adattativi.

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• La psicoterapia focalizzata sul transfert: “transfert” indica la traslazione o
trasferimento inconsapevole delle tematiche inconsce del paziente sullo
psicoterapeuta; esso avviene quando la persona borderline associa al
professionista delle emozioni o sensazioni del suo passato così da riversare in lui
le sue mancanze e sofferenze, solo per il fatto che il terapeuta è l’unica persona
disponibile e vicina in quel dato momento. L’approccio si basa su interventi di
chiarificazione, confronto ed interpretazione, nei quali l’operatore aiuta il paziente
a pensare alle proprie reazioni spesso esagerate e alla sua distorta immagine di sé
e altrui. L’attenzione è posta sul presente, cioè sulla relazione che si crea tra le
parti coinvolte nell’interazione, anziché sul passato o sul futuro. Lo scopo per la
persona è acquisire un senso di sé più stabile e realistico, nonché, attraverso il
transfert nei confronti del terapeuta, imparare a relazionarsi con gli altri in modo
più sano generalizzando appunto quanto appreso nel rapporto con il terapeuta.

La psicoterapia individuale può inoltre essere rafforzata dalla psicoterapia di gruppo, in


cui i pazienti possono provare un forte senso di appartenenza, empatia e fiducia, senza
sentirsi giudicati perché “diversi”. Se vissuto in maniera positiva, il gruppo può
dimostrarsi un ottimo strumento terapeutico.

Nel complesso si può affermare che nonostante non esistano soluzioni terapeutiche
efficaci in tempi brevi, la psicoterapia è indispensabile per ottenere miglioramenti
significativi a lungo termine.

2.2.3 Trattamento ospedaliero

Numerosi studi hanno dimostrato che il trattamento ospedaliero può essere una soluzione
di cura utile per i pazienti con gravi disturbi di personalità, tra cui quello di tipo
borderline.

L’ospedalizzazione in SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) si rende


necessaria quando l'intensità o la gravità dei sintomi sono tali da richiedere un periodo di
cure intensive e di osservazione clinica costante in un contesto di ricovero, anche breve.
I momenti di acuzie, infatti, portano i pazienti ad aumentare le tendenze di suicidio e auto-
mutilanti, nonché a perdere il contatto con la realtà vivendo episodi di derealizzazione e

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depersonalizzazione, perciò il ricovero mira a ripristinare le funzioni adattive e a
recuperare l’autocontrollo, anche se può non essere semplice. Le persone ricoverate
possono sentirsi controllate e comandate, possono percepire gli aiuti come
un’imposizione di misure restrittive e ciò può scatenare in loro risposte d’ira impulsive.
Altri pazienti possono provare un forte senso d’odio verso le istituzioni e i professionisti,
rifiutando le cure, opponendosi al programma terapeutico e relazionandosi malamente
con il personale, facendolo sentire inutile ed incapace. Altri ancora possono far sorgere
problemi controtransferali, per cui i professionisti tendono a farsi manipolare dai pazienti
che minacciano di togliersi la vita o di compiere altri atti autodistruttivi, reagendo ad
esempio concedendo loro colloqui interminabili e più intimi al fine di evitare spiacevoli
conseguenze. Questa è una strategia da non adottare assolutamente, poiché porta i pazienti
a rapide ricadute. Al contrario, il personale ospedaliero deve sempre mantenere la giusta
distanza e ricordare alle persone che sono loro stesse ad essere responsabili del controllo
di tali agiti; inoltre, deve far prendere consapevolezza delle loro reazioni così che inizino
a comprendere il proprio mondo interiore, i motivi dei propri atteggiamenti e la natura
delle crisi, nonché imparino ad assumersi la responsabilità del proprio autocontrollo.
Favorire la riflessività è uno degli obiettivi primari della psicoterapia svolta in ambito
ospedaliero.

È da sottolineare però, che in Italia quando si parla di ricovero non vi è sempre la presenza
di un approccio orientato psicoanaliticamente che accompagna le prassi sanitarie, come
invece si può trovare negli Stati Uniti.

2.2.4 Terapia della famiglia

“La modifica terapeutica del mondo oggettuale interno del paziente con BPD richiede
solitamente un processo psicoterapeutico individuale intensivo, ma lavorare con la
famiglia è spesso un complemento essenziale nell’ambito del piano di trattamento
generale.”. Con queste parole Gabbard indica che nel trattamento del disturbo borderline
di personalità la partecipazione dei caregiver, se collaborativa e motivata, è nella maggior
parte dei casi essenziale per l’aderenza del paziente alla terapia e la buona riuscita del
progetto di aiuto. I professionisti devono sempre cercare di costituire un’alleanza solida
con i familiari, perché supportino il cambiamento senza ostacolarlo. La necessità di una

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loro presenza si lega al profondo cambiamento che ha avuto il ruolo dei genitori nel corso
del tempo: in passato erano visti come possibili responsabili, quindi veniva loro addossata
la colpa dello sviluppo della malattia nel figlio e pertanto venivano esclusi dal percorso
di cura. Con il tempo invece, seppur nella consapevolezza che alcuni stili genitoriali ed
esperienze infantili siano tra le prime cause dell’origine della patologia, i caregiver sono
diventati sempre più delle figure che indossano le vesti di “co-terapeuti”, coinvolti come
collaboratori nel trattamento. Talvolta, sono gli stessi genitori i primi a necessitare di
aiuto e sostegno da parte degli operatori, o perché sono anche loro affetti da BPD o perché
percepiscono di essere i responsabili del problema, o perché si sentono dei caregiver
negligenti o distruttivi nei confronti del figlio, oppure perché sono affaticati dal carico
fisico ed emotivo che la malattia comporta. È però quest’ultimo punto, ossia lo stress
psicologico a cui sono soggetti i genitori, per il quale viene a definirsi solitamente la
necessità di un intervento di supporto a loro destinato. A tal proposito, esistono
prevalentemente due categorie di programmi terapeutici: la psicoeducazione familiare e
l’educazione familiare:

• La prima viene condotta da professionisti che operano nell’ambito della salute


mentale. Essa si concretizza in alcuni incontri dedicati ai caregiver, ciascuno con
un obiettivo specifico: fornire informazioni sulla diagnosi, le sue caratteristiche,
l’eziologia, i trattamenti possibili, il decorso; mostrare le principali strategie
comportamentali ed abilità concrete da utilizzare per gestire i momenti più
difficili, come gli attacchi d’ira, i comportamenti distruttivi e le crisi; aiutare a
mettere in pratica le tecniche apprese. In alcuni casi si ritiene necessario far
partecipare anche il paziente, ad esempio quando con il genitore intrattiene un
rapporto conflittuale che può essere attenuato tramite incontri psicoeducazionali
di problem solving, finalizzati a ricucire i rapporti e creare un contesto relazionale
favorevole utile al processo di aiuto.
• Negli interventi di educazione familiare, invece, sono i caregiver che in seguito
ad una formazione dispongono e coordinano interventi educativi di auto mutuo
aiuto dedicati ai conviventi dei pazienti borderline, siano questi i genitori o i
partner. Gli incontri possono tenersi sia individualmente sia in gruppo e, come
avviene nella psicoeducazione familiare, si forniscono informazioni utili e si
danno indicazioni rispetto alle competenze da acquisire per una gestione adeguata

32
della malattia, tra cui la regolazione emozionale, la tolleranza allo stress, il senso
di efficacia interpersonale. Questo programma rappresenta anche un’occasione di
scambio, in cui si può trovare conforto e sostegno da parte di chi vive la medesima
situazione.

La necessità di educare i familiari deriva dal fatto che vivere con un paziente borderline
significa essere esposti ad un costante flusso di emozioni contrapposte, che cambiano
repentinamente mettendo a dura prova i rapporti umani. La psicoeducazione è quindi
fondamentale per aiutare i familiari a non sentirsi oppressi dalla malattia, mostrando che
è possibile contenerla con alcuni suggerimenti, come il porre dei limiti alle richieste,
evitare di difendere la persona quando commette degli errori, prendersi del tempo per sé
facendo capire ai pazienti che si comprende il loro dolore ma non per questo si è disposti
ad esaurirsi fisicamente ed emotivamente. Inoltre, durante gli incontri si insegna l’ascolto,
considerata la tecnica migliore da adottare di fronte agli attacchi di rabbia improvvisi,
anche se non facile poiché può significare ascoltare affermazioni anche dolorose, ingiuste
o errate, dettate dalla disregolazione emotiva. Apprendere la gestione di tali meccanismi
significa infatti riuscire a distaccarsi abbastanza per non farsi travolgere dai momenti di
crisi, non allarmarsi per ogni atto impulsivo e mantenere la calma per trasmetterla quanto
più possibilmente anche alla persona, non sostituendosi mai a lei ma aiutandola a
prendersi cura di sé in maniera responsabile. È dunque molto importante capire come
mantenere un rapporto equilibrato con la persona borderline per non restare invischiati
nelle sue dinamiche distruttive e manipolatorie.

Attualmente però, gli interventi psicoeducativi per i caregiver non vengono organizzati
di frequente nei centri di salute mentale a causa della scarsità di risorse e del sovraccarico
di lavoro che non garantisce una costante disponibilità degli operatori. Di recente però, è
stata creata la prima organizzazione no-profit per i familiari delle persone con disturbo
borderline di personalità, chiamata “[Link]” (“National Education Alliance for
Borderline Personality Disorder”). Nata negli Stati Uniti, questa associazione
rappresenta sempre più una grande comunità di persone ed informazioni, che si sta
espandendo in diverse parti del mondo, compresa l’Italia. Essa offre partecipazioni a
convegni e a gruppi di supporto, rappresentando una grande risorsa specie nelle realtà in
cui ad oggi non è possibile usufruire dei programmi sopra indicati a causa dei limiti del
servizio specialistico.

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2.3 CONSEGUENZE COMPORTAMENTALI CORRELATE ALLA
DISREGOLAZIONE EMOTIVA

Secondo la psicologa statunitense Marsha Linehan la maggior parte dei sintomi e dei
comportamenti manifestati dai pazienti con BPD è la conseguenza, più o meno diretta,
della disregolazione emotiva e del tentativo di modulare le intense reazioni emozionali.
In altre parole, alla base vi sarebbe ciò che ella definisce “vulnerabilità emotiva”,
costituita da tre elementi principali: una sensibilità molto elevata agli stimoli emotigeni,
una forte reattività, un lento ritorno ad uno stato di equilibrio e di calma. La reazione al
vuoto e al caos interiore dei borderline è disfunzionale, esagerata ed impulsiva e comporta
spesso agiti disadattivi e pericolosi. Di seguito si elencano i principali:

• Scoppi d’ira: le persone borderline sperimentano emozioni travolgenti, passando


da un umore estremamente positivo ad uno stato d’animo fortemente negativo. Di
frequente provano rabbia poiché incapaci di tollerare situazioni ambigue o
stressanti, come litigi, discussioni e accuse, il che è amplificato dalla mancanza di
capacità autoconsolatorie. Queste crisi minano non solo le relazioni interpersonali
ma anche sé stessi, motivo per cui spesso compiono atti autolesivi per punirsi,
perché si sentono sbagliati, o perché provano vergogna o noia.
• Autolesionismo: prevede l’insieme dei comportamenti intenzionali volti a
danneggiare la propria persona, non correlato ad alcun tentativo di suicidio.
Arrecarsi dolore è un atto impulsivo e disadattivo, le cui funzioni sono variabili:
oltre a fornire sollievo dagli stati d’animo negativi, aiutando simbolicamente i
pazienti a far uscire il proprio dolore spostando l’attenzione da una sofferenza
emotiva ad una sofferenza fisica, diminuisce anche l’angoscia e richiama cure e
attenzioni da parte dei caregiver e terapeuti.
• Comportamenti sessuali rischiosi: i dati scientifici indicano come gli adolescenti
con problematiche psichiatriche siano più soggetti ad assumere tali condotte,
specie coloro che sono affetti da BPD (American Psychiatric Association, 2013).
Ciò viene spiegato dal fatto che tale disturbo prevede sentimenti di vuoto
interiore ed una forte paura dell’abbandono, che possono portare ad assumere
atteggiamenti rischiosi, come l’avere rapporti sessuali con persone sconosciute
o poco conosciute, essere assertivi e/o non utilizzare precauzioni. Spesso, il

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primo rapporto avviene in età molto precoce e i partners sessuali sono diversi,
numerosi o scelti in maniera indiscriminata; la sessualità è perciò
pericolosamente promiscua. A peggiorare il quadro è una mancanza di
consapevolezza dei rischi legati ad infezioni o a gravidanze indesiderate,
quindi una ridotta capacità di decidere responsabilmente il tipo di condotta da
avere in situazioni non sicure per la propria salute psico-fisica.
• Shopping compulsivo: è una manifestazione del disagio psicologico e si
caratterizza per delle crisi di acquisto patologiche, che comportano conseguenze
negative per il paziente a livello economico e psichico, come il provare colpa o
rimorso. Le spese sconsiderate rappresentano un atto impulsivo e incontrollato
volto ad alleviare uno stato di tensione; infatti, spesso a precedere questi eventi è
una forte ansia o stress, o il bisogno di colmare vuoti emotivi per sentirsi appagati
almeno sul piano materiale dato che, sul piano interpersonale, sembra loro
impossibile.
• Gioco d’azzardo patologico (GAP): il DSM-5 lo ha compreso nella categoria dei
“Disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction”, per sancire il fatto che i
comportamenti legati al gioco attivano i sistemi di ricompensa in modo simile alle
droghe d’abuso. Ad oggi numerose sono le evidenze scientifiche che dimostrano
una comorbilità tra GAP e disturbi di personalità, specie quelli appartenenti al
Cluster B (istrionico, narcisistico, antisociale e borderline). Infatti, i tratti di
impulsività e di disregolazione emotiva caratterizzanti questo gruppo, si
riscontrano spesso nei giocatori patologici (Clarke, 2004; Martinotti et al., 2006).
• Uso e/o abuso di alcol e sostanze: è una delle comorbilità che più spesso si
presenta con il BPD; le stime parlano di percentuali che vanno dal 21% al 67% di
pazienti borderline che fanno uso e abuso di alcol, droghe, medicinali.
Quest’abitudine si presenta come una forma di automedicazione, ossia come un
tentativo autonomo di regolare l’umore disforico e le intense emozioni,
contrastando in tal modo un malessere generalizzato; altre volte il comportamento
di abuso rappresenta un’opportunità di ricevere attenzioni e conforto dagli altri.
Pertanto, si può dedurre che l’aspetto prettamente ludico è posto in secondo piano.
• Disturbi alimentari: le ricerche sostengono che circa il 28% dei pazienti borderline
manifesti anche un comportamento alimentare disordinato (Sansone & Sansone,

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2013), ossia un comportamento alimentare anomalo che non soddisfa secondo il
DSM-5 i criteri per una diagnosi di DCA. Tipico tra queste persone è il binge
eating, per il quale tendono ad abbuffarsi incontrollatamente per reprimere, anche
se temporaneamente, il senso di vuoto cronico e per distogliere l’attenzione dal
caos della vita. Solitamente più è intensa la disregolazione emotiva, più la persona
ricorre ad un’alimentazione scorretta.
• Guida pericolosa: viaggiare in modo spericolato è un altro sintomo del tipico
paziente con BPD che, senza mezze misure, è incapace di cogliere il rischio.
Talvolta, ciò avviene coscientemente nel tentativo di perdere la vita quando le
difficoltà iniziano ad essere percepite come insostenibili.
• Tentativi o atti di suicidio: vi è un più alto rischio parasuicidario e suicidario nelle
persone affette da un disturbo di personalità, in particolare di tipo borderline,
rispetto alla popolazione generale. A livello percentuale, il suicidio avviene nel 5-
10% dei pazienti, mentre il 40-85% compie dei tentativi che sono solitamente
multipli. Le cause scatenanti sarebbero eventi frustranti, quali lutti, separazioni,
rotture, delusioni, licenziamenti o critiche non più tollerabili. Risulta molto
complessa la gestione del rischio del suicidio da parte dei professionisti, data
l’impulsività ed imprevedibilità che non permettono ai pazienti di attivare un
processo razionale di pensiero prima di agire.

Tali comportamenti, seppur capaci di diminuire l’attivazione emotiva nel breve termine,
possono provocare gravi effetti nel lungo termine. I pazienti borderline non sembrano
però avere sempre piena consapevolezza degli effetti delle azioni messe in atto e tendono
a ripeterle di frequente, poiché i sintomi del disturbo tendono a stabilizzarsi precocemente
diventando egosintonici, cioè parte del proprio modo abituale di sentire, pensare e
relazionarsi. Per questo, il paziente fatica a riconoscere le difficoltà, i tratti patologici
della propria personalità e gli agiti disfunzionali che ne derivano. Ciò comporta varie
ricadute durante il corso della malattia, rendendo la cura particolarmente complicata,
perlopiù tardiva e a volte impossibile.

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37
CAPITOLO 3
IL MONDO RELAZIONALE DEL PAZIENTE BORDERLINE

3.1 BPD E COMORBILITÀ PSICHIATRICHE

L’eterogeneità sintomatologica che caratterizza il disturbo borderline di personalità


comporta comorbilità psichiatriche frequenti che definiscono casi di “doppia diagnosi”,
ad oggi sempre più comuni. Tra i vari disturbi enunciati dal DSM-5, alcuni si manifestano
maggiormente in concomitanza con il BPD, come altri disturbi di personalità, disturbi
dell’umore, disturbi d’ansia, disturbi da abuso di sostanze, disturbi dell’alimentazione e
disturbi correlati a eventi traumatici.

I successivi sottoparagrafi sono dedicati a due di queste comorbilità, la cui spiegazione


consente di introdurre il capitolo sulla dimensione relazionale vissuta tipicamente da un
paziente borderline.

3.1.1 Disturbo dipendente

Il disturbo dipendente è uno dei dieci disturbi di personalità, che l’attuale Manuale
Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali descrive come “Una situazione pervasiva
ed eccessiva di necessità di essere accuditi, che determina comportamento sottomesso e
dipendente e timore della separazione”. È compreso all’interno del cluster C, costituito
dai disturbi che provocano alti livelli d’ansia ed azioni apparentemente finalizzate a
ridurla.

Il paziente dipendente, dunque, mette in campo nelle relazioni interpersonali un


atteggiamento accomodante, che nasce dalla mancata sicurezza in sé stesso, dalla
consapevolezza di non riuscire a funzionare da solo e dal conseguente bisogno di suscitare
un senso di protezione negli altri. Assecondare e non esprimere mai disaccordo significa,
per questa persona, non indurre nelle figure da cui dipende possibili idee di separazione
o rifiuto, che sente di non poter tollerare. Qualora avvenga una separazione affettiva o
amicale, per contenere il dolore, il soggetto cerca immediatamente di costruire un’altra
relazione simile, che possa offrirgli il sostegno e l’accudimento di cui necessita. Questi

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atteggiamenti di sottomissione, portando ad una naturale perdita dell’autonomia e della
capacità di autoefficacia, fanno in modo che la persona si senta sempre più inferiore,
inadeguata, impotente e abbia così un costante bisogno di richiedere rassicurazioni e
sostegno sia materiale che emotivo.

Il timore dell’abbandono, il senso di solitudine e di vuoto, nonché la bassa autostima,


sono i tratti che il disturbo dipendente condivide con il BPD; di conseguenza, alla luce
delle molteplici similitudini, la comorbilità è frequente e la diagnosi differenziale
complessa. Tuttavia, una diversità si può cogliere nel fatto che i pazienti borderline
tendano ad avere verso il prossimo atteggiamenti altalenanti che fluttuano dall’adorazione
al disprezzo, mentre le persone dipendenti non assumono comportamenti di ostilità per il
timore di non ricevere più l’aiuto altrui. Perciò, si può comprendere che nel disturbo
dipendente non vi sia la presenza di una dimensione relazionale caotica né di
un’instabilità emotiva.

3.1.2 Ansia da separazione

I comportamenti accondiscendenti tipici di un paziente dipendente possono provocare


anche un disturbo d’ansia da separazione che, come gli altri disturbi d’ansia inclusi nel
DSM-5, è costituito da un’eccessiva e immotivata paura o ansia, che porta a
problematiche comportamentali di evitamento rispetto alle minacce percepite. Nello
specifico del disturbo d’ansia da separazione, esso comporta un costante timore di vivere
una separazione dalle figure di riferimento, preoccupazioni intense verso i cari e angoscia
pervasiva.

Non è raro che anche questa patologia si presenti in concomitanza al BPD, poiché
entrambe manifestano alcuni sintomi comuni. A legare i due disturbi è il sentimento di
disagio e l’agitazione provati dai pazienti in caso di distacco reale o immaginario dalle
persone significative, l’intolleranza verso la solitudine e la messa in atto di azioni
disfunzionali per evitare questi eventi spiacevoli. Le persone con patologia borderline
però, come già affermato nel paragrafo precedente, possono provare anche rabbia
inappropriata e ingiustificata verso i caregiver, oppure possono sentire la necessità di
prendere da loro le distanze, il che li differenzia dai pazienti affetti dal disturbo d’ansia
da separazione.

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Ambedue le comorbilità appena esaminate, trovano origine dall’interazione di fattori
genetico-comportamentali e fattori ambientali: la presenza di una sensibilità biologica
all’ansia, abbinandosi ad esperienze negative che risalgono soprattutto al periodo
infantile, favorisce lo sviluppo di queste condizioni; infatti, si può affermare che il BPD
e i due disturbi sopra citati siano spesso correlati ad un disturbo post traumatico da stress
(PTSD). Dunque, come già evidenziato per la condizione borderline nel paragrafo 2.1.1,
anche dietro agli adulti dipendenti o con ansia da separazione vi sono bambini che hanno
sperimentato ambienti contraddittori in cui le figure curanti non hanno offerto loro le
giuste cure sul piano fisico ed affettivo; sono bambini che hanno interiorizzato modelli
relazionali imprevedibili e ambivalenti e hanno temuto di essere abbandonati o trascurati.
Alla luce di tali background, coloro che riescono a colmare le loro mancanze emotive,
diventano il centro delle loro vite, le persone da cui dipendere e le uniche dalle quali non
distaccarsi mai.

3.2 RELAZIONI INTERPERSONALI

È chiaro oramai che il BPD comporti come sintomo principale una forte disregolazione e
vulnerabilità a livello relazionale, anche e soprattutto se accompagnato dalle due
comorbilità analizzate in precedenza. Le relazioni interpersonali vissute dai pazienti
borderline sono problematiche, incostanti e volubili; questo perché i rapporti che
intrattengono variano velocemente in coerenza con i diversi modi in cui si manifesta la
sintomatologia borderline nel corso del tempo. Questi soggetti possono nutrire un grande
affetto verso l’altro, adorandolo anche in modo eccessivo, e il momento dopo essere
diffidenti, aggressivi od opportunisti e decidere di allontanarsi. La tendenza a rompere i
legami è soprattutto legata alla loro estrema sensibilità che li porta percepire tutto in modo
esagerato, interpretando malamente i segnali ambigui e talvolta anche quelli positivi. Ciò
li porta anche ad essere paranoici, quindi a porsi in uno stato di ipervigilanza per la
necessità di controllare l’ambiente circostante e proteggersi da cattive intenzioni. Le
avversità precoci vissute dai pazienti borderline tendono infatti a compromettere il loro
funzionamento sociale futuro, comportando in loro un costante timore di rivivere lo
scenario traumatico. Anche Bessel van der Kolk, psichiatra di Boston, ha parlato degli
abusi infantili come eventi che minano lo sviluppo, portando l’adulto a non riuscire a

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cogliere dalla realtà esterna atteggiamenti e comportamenti positivi che possano
controbilanciare le esperienze negative. Nello specifico, egli ha ipotizzato che si verifichi
un’alterazione della memoria in questi bambini che, crescendo, rimangono in balia
dell’ultima impressione sensoriale sorta all’interno di un rapporto interpersonale, in
questo caso quello patologico creato con le figure di attaccamento. A causa di tali bias
cognitivi, da adulti faticano a fidarsi ed è sufficiente una semplice critica o una mancata
attenzione per catalogare l’altro come spregevole, insensibile o inaffidabile.

La vita relazionale del paziente con BPD è destinata dunque a continui fallimenti e ciò
crea sofferenza anche nelle persone care, che si sentono manipolate, usate ed
emotivamente provate. È fondamentale dunque che amici, partner e parenti apprendano
come rapportarsi in modo corretto con la persona borderline, anche attraverso i corsi di
psicoeducazione trattati nel capitolo precedente.

3.2.1 Rapporto con il partner

L’amore per un paziente borderline è un concetto complesso, un ambito di vita difficile


da pensare e da realizzare; questo perché, a causa dei traumi subiti, gli è difficile credere
che possa realmente esistere una persona buona e comprensiva, a cui affidarsi e con cui
vivere un’intimità positiva e stabile.

L’amore in tale contesto è come un circolo vizioso, in cui il soggetto fluttua tra varie fasi
ritornando sempre al punto di partenza: idealizzazione del partner, graduale perdita di
stima, svalutazione totale, allontanamento, ritorno e poi ancora idealizzazione. In altre
parole, se inizialmente instaura un rapporto simbiotico con il proprio compagno,
ingabbiandolo e assicurandosi la sua presenza, poco dopo si sente soffocare e risponde
con umiliazioni, litigi feroci o freddezza. La distanza, però, anche se a volte desiderata
dal paziente stesso, fa presto subentrare in lui una forte paura della solitudine, la quale lo
riporta dal partner che ricomincia ad amare in modo totalizzante. Viene dunque a definirsi
un processo circolare che continua patologicamente a ripetersi, causato soprattutto dai
meccanismi di difesa messi in atto dalla persona al fine di tutelarsi, tra cui la scissione,
che consiste nell’impossibilità di avere una visione unitaria dell’altro e di pensarlo come
portatore in contemporanea di pregi e difetti. Detto altrimenti, non esistono per il

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borderline vie di mezzo e il partner viene percepito come totalmente buono o totalmente
cattivo. È chiaro perciò che dall’amore, questo paziente può passare velocemente all’odio
in una costante danza umorale dove chi è coinvolto si trova invischiato e spesso incapace
di uscire. Il comportamento manipolatorio è infatti una tipicità del paziente con BPD che,
a suo piacimento, fa del partner un oggetto da amare o da distruggere.

L’amore è fragile e al contempo impetuoso, fatto di alti e bassi e continui sabotaggi; è


pervasivo e invadente, vissuto in modo particolarmente intenso con modalità teatrali ed
eclatanti. Nulla passa inosservato, a causa della presenza dell’occhio ipercritico e
particolarmente sensibile del borderline; la sua capacità di riporre fiducia nel prossimo è
carente, per cui ogni movimento è potenzialmente una minaccia, un imminente
abbandono a cui risponde con reazioni esasperate, come imporre all’altro rigide regole
per metterlo a sua completa disposizione. Questo rende la relazione talmente pressante ed
estenuante da indurre spesso il partner, sfinito, ad una rottura effettiva, prima solo
immaginata dal paziente e a cui reagisce con comportamenti auto-distruttivi che
costringono il compagno a sentimenti di colpa e a ripensamenti.

Tuttavia, nonostante i tentativi di creare rapporti affettivi solidi siano perlopiù inefficaci,
l’amore è sempre ricercato dalla persona borderline con il tentativo di riempire il dilagante
senso di vuoto e di provare quella sensazione di vicinanza e protezione tanto desiderate
da bambino ma mai appagate.

3.2.2 Rapporto con i professionisti

La disfunzionalità relazionale causata dal BPD influenza anche il rapporto tra il paziente
e l’equipe socio-sanitaria che cura la sua presa in carico. L’alleanza terapeutica diventa
perciò una necessità quando si intraprende un percorso volto al cambiamento, per rendere
più probabile l’efficacia del trattamento. Secondo Bordin (1979-), quest’alleanza
dovrebbe essere composta da tre elementi: la condivisione degli obiettivi del progetto di
aiuto tra la persona e il professionista; l’esplicitazione dei compiti e delle responsabilità
reciproche; infine, la creazione di un legame contraddistinto da fiducia e rispetto, che
permetta di collaborare e comprendersi l’un l’altro. Tuttavia, creare una buona intesa non
è un processo semplice, specie con chi è affetto da disturbi di personalità. Nel caso di

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pazienti borderline, poi, questo meccanismo è ancor più complesso data la loro tendenza
a passare da uno stato d’animo all’altro, il che rende imprevedibile e labile qualsiasi
rapporto intrattengano. L’intesa con il terapeuta è solitamente fragile e può rompersi in
qualsiasi momento, anche per ragioni insignificanti. Se l’alleanza si flette, gradualmente
il paziente inizia a ridurre la propria aderenza alla terapia fino ad interromperla
drasticamente; è quindi compito del professionista rievocare a questo punto gli obiettivi
stipulati all’inizio, così da ribadire le responsabilità della persona e ripristinare un suo
coinvolgimento.

Per promuovere un clima relazionale favorevole con un paziente borderline all’interno di


un contesto istituzionale, gli operatori sono tenuti a seguire una serie di accorgimenti e
principi tecnici:

• Stilare un contratto terapeutico collaborativo, in modo tale che la persona abbia


sempre chiari gli obiettivi, le risorse per raggiungerli e gli esiti sperati;
• definire obiettivi realistici per evitare eventuali rinunce, molto frequenti nei
soggetti borderline;
• essere chiari e sinceri: è indispensabile per aiutare la persona nella comprensione
della propria condizione;
• favorire la partecipazione attiva e la motivazione: ciò aumenta la compliance e le
possibilità di riuscita del progetto;
• aiutare a sviluppare l’empowerment, valorizzando capacità ed unicità della
persona e ricordandole che il cambiamento richiede impegno. Porla al centro del
processo di aiuto significa rispettare la sua autodeterminazione e dignità;
• non esprimere giudizi di valore: gli operatori devono prendere consapevolezza dei
loro pregiudizi, in modo tale che non incidano sulla pratica professionale;
• delineare dei confini nella relazione, mettendo in campo una spontaneità
controllata che permetta ai professionisti di avere un atteggiamento empatico,
utile per capire il mondo interno del paziente, mantenendo però uno sguardo
critico ed oggettivo;
• comunicare i propri limiti: ciò comporta un cambiamento di prospettiva nella
persona, che vede solitamente il terapeuta come un salvatore onnipotente;

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• creare un clima di fiducia in cui il soggetto possa sentirsi sicuro di interagire
apertamente, protetto da reazioni emotive incontrollabili. È importante conferire,
per quanto possibile, un genuino interesse verso il paziente come persona, anziché
come utente;
• promuovere in lui la consapevolezza della percezione che ha della realtà,
spiegando che è condizionata dai modelli di relazione che ha interiorizzato in
tenera età. È necessario incoraggiarlo a sviluppare una visione più ampia per non
considerare più la propria come unica e assoluta;
• lavorare sulle emozioni, dimostrando che reprimerle non è la soluzione. È
indispensabile favorire nel paziente la capacità di riflettere sui propri stati emotivi
in modo tale che apprenda come contenerne l’intensità;
• aiutarlo a sviluppare la capacità di chiedere aiuto ai professionisti quando non
riesce ad affrontare efficacemente le situazioni;
• infine, in virtù della variabilità dei sintomi del BPD, è importante rapportarsi con
ciascun paziente in modo individualizzato e flessibile, non mettendo mai in campo
comportamenti statici e preconfezionati.

Rapportarsi con una persona borderline non è una questione semplice neppure per un
professionista formato sul campo, che si trova spesso a provare emozioni forti e
contrastanti: può infatti accadere che, qualora si lasci influenzare eccessivamente dalla
relazione, si instaurino in lui intense reazioni controtransferali, come sentimenti di
impotenza, inadeguatezza, colpa, rabbia, odio, ansia o paura. Può, inoltre, avere delle
fantasie di salvezza che lo conducono a trasgredire i confini professionali. Più nello
specifico, l’operatore si può trovare nella delicata posizione di tentare eroicamente di
curare questo genere di pazienti, intrattenendo continui contatti con loro o addossandosi
piena responsabilità rispetto alle loro vite. Delimitare i rapporti è infatti la soluzione più
adeguata per approcciarsi ai soggetti borderline, ma non sempre si riesce a tutelarsi dalla
loro natura manipolatrice, motivo per cui risultano indispensabili strumenti come il lavoro
d’equipe e la supervisione.

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3.2.3 Rapporto con il proprio sé

L’immagine di sé persistentemente instabile del paziente borderline è una delle cause e


certamente anche una conseguenza delle sue difficoltà sul piano relazionale. La
vulnerabilità e l’impulsività che lo pervadono lo fanno fluttuare da stati emotivi altamente
positivi a stati emotivi fortemente negativi, portandolo a cambiare in maniera tanto rapida
e frequente la visione, oltre che degli altri, anche di sé stesso. A tal proposito, il DSM-5
indica la presenza di “un’identità scarsamente integrata e stabile” come una delle
principali caratteristiche della sintomatologia borderline. Ciò spiega la ragione per cui la
persona affetta da tale disturbo modifica spesso ed improvvisamente obiettivi, valori,
idee, amici e partner. Inoltre, se in un determinato momento può sentirsi competente,
adeguato e vincente, l’attimo dopo può sentirsi talmente fragile e inadatto da boicottare
sé stesso anche senza motivo, compromettendo così i piccoli traguardi raggiunti in
precedenza. La psicoterapia è perciò, nel caso del BPD, il trattamento più efficiente per
accompagnare la persona ad acquisire gradualmente un’immagine di sé solida e positiva.

3.3 IL CASO DI ANNA

L’ultimo paragrafo è dedicato alla descrizione e analisi di un caso che ho conosciuto


durante lo svolgimento del tirocinio presso il Centro di Salute Mentale, esperienza citata
nell’introduzione all’elaborato. Questa lettura permette di comprendere gli snodi
principali del disturbo borderline di personalità analizzati nel corso della tesi, come si
manifesta a livello concreto e le disfunzioni che comporta trasversalmente a tutti gli
ambiti della vita.

Il caso di Anna

Anna ha 39 anni, un fratello minore e dei genitori separati dal 1992. La madre è affetta
da schizofrenia e il marito è un padre maltrattante, espulsivo, abbandonico e abusatore di
sostanze; la brusca separazione della coppia è avvenuta dopo anni di violente liti con
percosse e accuse reciproche, spesso in presenza dei figli che, iniziando precocemente a
manifestare chiari segni di disagio personale, sono stati presi in carico dalla Tutela

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Minori. In seguito a vani tentativi di vivere in maniera serena prima con la madre e poi
con il padre, si è segnalata la situazione di rischio al Tribunale per i Minorenni, che ha
disposto l’impossibilità per i minori di crescere in un ambiente familiare idoneo e, nel
1998, l’inserimento di entrambi presso una struttura comunitaria. Compiuta la maggiore
età, Anna ha provato a convivere nuovamente con i genitori. Purtroppo però, a causa dei
persistenti conflitti dovuti sia al contesto relazionale che all’imminente esordio della
malattia, nel 2001, non appena maggiorenne, è stata presa in carico dal CSM con una
diagnosi di disturbo di personalità dipendente su struttura di personalità borderline,
sviluppatosi probabilmente a causa delle avversità vissute in giovane età e fino a quel
momento. Inizialmente era ben agganciata, accoglieva gli interventi proposti dall’equipe
socio-sanitaria, come i colloqui terapeutici e le terapie psicofarmacologiche, ma dal 2002
al 2012 ha interrotto i rapporti con i servizi. In questo lasco di tempo, Anna ha dato alla
luce due figli dalle relazioni con due partners diversi, terminate entrambe dopo pochi anni
a causa della disregolazione emotiva e comportamentale legata alla patologia; rimasta
sola, ha richiesto l’aiuto del servizio sociale comunale per motivazioni economiche e
difficoltà nella gestione dei bambini. Infatti, fin dalla nascita dei figli si è rapportata con
loro in modo patologico, passando da atteggiamenti di intenso affetto e dipendenza ad
un’estrema indifferenza e rifiuto, creando così le basi per un attaccamento disfunzionale,
lo stesso che lei ha vissuto durante l’infanzia. Nel 2014 ha ripreso i contatti con la Tutela
Minori per iniziare un percorso di sostegno alla genitorialità, implementazione delle
risorse personali e miglioramento della compliance terapeutica, ma tali interventi non
hanno portato agli esiti sperati. Di conseguenza, in virtù del peggioramento della salute
di Anna, i minori sono stati affidati ai rispettivi padri con il supporto di due famiglie
affidatarie. Nel frattempo, la ragazza ha ricominciato anche il proprio percorso di cura
presso il CSM, dimostrando però di non riuscire a reggere a lungo alcun programma,
specie quelli di inserimento in strutture residenziali poiché eccessivamente rigide e
strutturate e capaci di farle rivivere alcuni traumi infantili. Dopo aver abbandonato varie
comunità, ha sempre manifestato la volontà di tornare a vivere con il padre che lei
definiva il suo “salvatore”, ma l’avanzare della malattia la portava spesso a delle crisi,
contenute tramite numerosi ricoveri in SPDC, anche duraturi. Nel corso di questi ricoveri
ospedalieri, Anna alternava fasi di tranquillità, in cui era in grado di valutare lucidamente
le proprie difficoltà a livello personale e relazionale, a fasi più critiche in cui prevalevano

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la confusione, il senso di vuoto interiore, il malessere generalizzato e l’insofferenza verso
sé stessa e gli altri.

Da pochi anni vive da sola in un alloggio popolare dove cerca di rafforzare il proprio
percorso di autonomia, non è intenzionata a costruire rapporti affettivi stabili ed è alla
costante ricerca di un partner che sia disposto a proteggerla ma anche ad accettare periodi
di distacco qualora lei ne senta il bisogno. Con i padri dei suoi figli la relazione rimane
incostante e caotica: in alcuni periodi cerca un avvicinamento, in altri tende ad
allontanarsi richiudendosi nella propria solitudine, che talvolta la porta ad abusare di
sostanze illecite o farmaceutiche; questo spiega il motivo per cui è seguita anche dal
SERD. Anche con i genitori i rapporti rimangono instabili: il disturbo dipendente la porta
a ricercare attenzioni e accudimento, mentre la struttura borderline le scatena di frequente
ostilità e opposizione. Invece, per quanto concerne i figli, li vede durante i regolari
incontri protetti e si sta impegnando a tenere con loro un rapporto adeguato, dimostrando
comunque delle competenze come madre, seppur non costanti. Attualmente l’equipe del
CSM, rispettando la volontà di Anna di non essere più inserita all’interno delle comunità,
le sta proponendo interventi alternativi, al fine di garantirle il massimo benessere
possibile nonostante la malattia persista. Ad esempio, le è stato più volte consigliato di
iniziare un tirocinio lavorativo che la aiuterebbe, oltre che ad uscire di casa, a ripristinare
una routine, imparare a rispettare i compiti e a relazionarsi in modo adeguato con il
prossimo; inoltre, di recente le è stato proposto un affiancamento da parte di un
amministratore di sostegno che possa sostenerla negli aspetti più economici che lei fatica
a gestire, specie nei periodi depressivi. Ciò nonostante, Anna continua a rifiutare ogni
proposta poiché le sue priorità attuali sono legate al rimanere compensata, riacquisire le
autonomie e migliorare sempre più il rapporto con i figli e i cari. Una delle poche attività
che riesce a perseguire più o meno con costanza è quella di recarsi quotidianamente presso
il CSM per farsi somministrare la terapia farmacologica, che le consente di ridurre gli
agiti impulsivi ed evitare in tal modo altri ricoveri.

Anna sa comprendere la propria malattia e le conseguenze che comporta a livello emotivo


e comportamentale. In questi anni, grazie all’aiuto dei professionisti, ha sviluppato
capacità di problem solving, di auto-consolazione e di autoefficacia, utili per affrontare
le sfide quotidiane. Tuttavia, quando la sua patologia prende il sopravvento, non è in
grado di pensare razionalmente e mette in atto atteggiamenti precipitosi che, nei casi

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peggiori, consistono in atti autolesionistici o tentati suicidi, i quali richiedono interventi
d’urgenza, talvolta da lei pianificati per attirare l’attenzione. Ad oggi continua ad
interagire con il CSM in modo saltuario e l’aderenza ai trattamenti non è costante: a volte
è la prima a volersi far aiutare, altre volte evita ogni contatto rendendosi irreperibile anche
per mesi. Per questo, la condizione personale di Anna rimane precaria e il percorso di
cura diventa sempre più lungo e complesso, come del resto per la maggior parte dei
pazienti borderline.

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CONCLUSIONI

È possibile guarire da un disturbo borderline di personalità?

Da quando si è iniziato a diagnosticare, questo disturbo è sempre stato considerato come


una condizione talmente complessa e pervasiva da risultare difficile da curare; concetto
che si è più volte ribadito nel corso della trattazione.

Ciò nonostante, grazie agli approcci più recenti, molti soggetti con BPD dimostrano una
diminuzione del numero e/o della gravità della sintomatologia, quindi anche una qualità
di vita migliore. Si comprende che le persone che ne sono affette vadano perlopiù incontro
ad una riduzione graduale delle caratteristiche patologiche e ad un conseguente
miglioramento del proprio benessere psichico, per cui effettivamente nella maggior parte
dei casi non si può parlare di una guarigione completa ma solo di uno stato di sollievo dai
sintomi più impattanti. Coerentemente con ciò, al capitolo due viene ripresa la definizione
di “salute” che l’OMS ha coniato nel 2011. La salute non corrisponde necessariamente
all’uscita da uno stato di malattia, bensì alla capacità di auto-gestire le difficili sfide
quotidiane che l’individuo può trovarsi a dover fronteggiare durante la sua esistenza;
essere in salute significa perciò riuscire ad adattarsi, accettando la propria situazione
patologica anche se non del tutto curabile. Ovviamente, questo non vuol dire che non vi
sia alcun disturbo che possa prevedere una remissione totale, anzi, la ricerca è in continuo
avanzamento e sta portando alla conoscenza di trattamenti molto efficaci, però è chiaro
che esistano condizioni più risolubili di altre.

Inoltre, è necessario evidenziare che la riuscita di qualsiasi intervento dipende da persona


a persona e dalla situazione specifica, nonché dalle cause che hanno condotto allo
sviluppo del problema e anche dalle tempistiche con cui la persona arriva a chiedere aiuto.
Nel caso dei disturbi di personalità, nonostante siano dal punto di vista epidemiologico
molto diffusi, spesso non vengono riconosciuti o, ancor più di frequente, vengono
identificati tardivamente, proprio perché il soggetto, non capendo di avere un problema o
non accettandolo, tende a temporeggiare prima di affidarsi a dei professionisti. Giungere
ai servizi precocemente prelude a probabilità più alte di esito positivo dei trattamenti;
invece, non prestare attenzione ai primi sintomi, anche se lievi, significa tardare la
definizione di una diagnosi, dando modo al disturbo di radicarsi e talvolta di cronicizzarsi
e rendendo ancor più complicata la guarigione.

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Un’ulteriore difficoltà relativa ai disturbi di personalità è correlata alla diagnosi e all’arco
temporale entro cui può essere eseguita. Gli studiosi si chiedono ancor oggi quali siano
le prassi da adottare e quale sia il momento più adeguato per iniziare a diagnosticare
questo genere di patologie. Rispetto al BPD, da anni ormai la letteratura ha indicato che
i sintomi siano spesso visibili dall’adolescenza e a volte dall’infanzia, ma sembra che
persistano i dibattiti sull’utilità di effettuare la diagnosi già dall’età evolutiva; questo
perché sembrerebbe complicato distinguere efficacemente tra la sintomatologia del
disturbo borderline e i tipici cambiamenti adolescenziali. Tuttavia, anche il DSM-5 ha
dichiarato che l’esordio possa essere fatto risalire già prima dell’età adulta, in virtù del
fatto che il disturbo possa iniziare ad avere un impatto consistente nei vari contesti di vita
della persona, anche quando molto giovane. Si sta, dunque, delineando sempre più
l’importanza di una diagnosi precoce, allo scopo di poter progettare azioni ed interventi
il più possibile tempestivi rivolti ad una fascia d’età ancora duttile e suscettibile a
modificazioni.

Appurato che siano possibili dei miglioramenti nel corso del tempo, il percorso di
cambiamento per i soggetti con BPD è comunque difficile e ostacolato, poiché i risultati
arrivano lentamente: i benefici rilasciati dai farmaci sono limitati e la psicoterapia,
considerata il trattamento primario, non è sempre proficua a causa della difficoltà che
hanno queste persone nel mantenere un legame di fiducia con l’equipe socio-sanitaria.
Pertanto, la comprensione, il supporto emotivo e l’incoraggiamento da parte dei
professionisti e dei cari devono accompagnare costantemente il cammino di tali pazienti,
sia per evitare che abbiano ricadute frequenti sia per mantenere alta la loro motivazione
al cambiamento. Non è semplice per loro decidere di trasformare la propria vita, anche
perché i sintomi del disturbo borderline diventano gradualmente egosintonici, portandoli
a non provare più disagio per la messa in atto di comportamenti disadattivi e pericolosi;
il motivo risale al fatto che con il passare del tempo, abituandosi alla condizione, iniziano
a vedere la patologia come parte intrinseca di sé e quindi non rimovibile. Ne deriva che
le oscillazioni emotive diventano per loro la norma, elementi in linea con la loro
personalità e percepiti come giusti. Di fronte a tali convinzioni, anche i terapisti faticano
a trovare una soluzione. Oltretutto, gli agiti impulsivi ed irrazionali dei pazienti borderline
rendono imprevedibile l’andamento del percorso di cura, che può proseguire

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favorevolmente per un determinato periodo e retrocedere poi, secondo un circolo vizioso
continuo.

Questi sono, perciò, i principali fattori che rendono complessa la trattazione di un disturbo
borderline di personalità. Tuttavia, si possono identificare ulteriori nodi problematici
rispetto alle patologie psichiatriche su un piano più generale.

Innanzitutto, il problema non è mai solamente dell’individuo in sé. È necessario rivolgere


l’attenzione anche verso l’ambiente circostante, che assume un ruolo decisivo nello
sviluppo e/o nella durata di alcuni disturbi. Infatti, la qualità di vita dei pazienti non
dipende solo dalla gravità sintomatologica delle patologie, ma anche dall’atteggiamento
di accettazione o discriminazione che il contesto sociale nutre nei loro confronti. I
pregiudizi e gli stereotipi nei confronti delle persone con malattie mentali sono ancora
presenti, nonostante i progressi della società; è soprattutto la mancanza di informazione
e di comprensione delle malattie mentali a motivare la stigmatizzazione, per cui spesso
tali soggetti sono visti e/o immaginati come imprevedibili, pericolosi, diversi. Questi
soggetti arrivano a provare vergogna e disagio, finendo per sentirsi esclusi ed emarginati;
ciò li porta a dover convivere con un peso anche superiore rispetto a quello derivante dalla
malattia stessa.

Incentivare opere di sensibilizzazione pubblica rispetto alle complesse esistenze dei


pazienti con disturbi psichiatrici sarebbe un piccolo passo avanti per abbattere o
perlomeno ridurre questi pregiudizi. A tale scopo, anche la Giornata Mondiale della
Salute Mentale, che si celebra il 10 ottobre di ogni anno, rappresenta un’occasione per
portare la tematica all’attenzione delle comunità, in modo da favorire delle riflessioni in
merito e una maggior consapevolezza rispetto alla necessità di tutelare la salute a 360
gradi. Corpo e mente sono infatti un’unità indissolubile, che deve essere trattata in
un’ottica integrata per favorire nelle persone un benessere il più possibile globale.
Fortunatamente, sempre più la salute mentale è considerata tanto importante quanto la
salute fisica, che invece assumeva maggior rilevanza in passato. Per di più, il Covid-19
ha posto l’esigenza di porre ancor più attenzione al tema relativo alla malattia mentale,
soprattutto tra la popolazione giovanile che ha vissuto l’isolamento in modo
particolarmente tragico. Tuttavia, nonostante le evidenze, le conoscenze dell’impatto
della pandemia sulla sfera psichica sono ancora limitate.

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Per concludere l’elaborato, ritengo importante ribadire il fatto che siano ancora in
definizione le ricerche sui disturbi mentali, sulla loro eziologia e sulle modalità di
trattamento, che rimangono ancora incerte e precarie. Chiaramente, questo vale anche per
il disturbo borderline di personalità ed è naturale chiedersi se gli studi futuri riusciranno,
prima o poi, ad identificare una cura definitiva e valida per tutti i pazienti.

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