Papers by Carlotta Margiotta
Uguaglianza e disuguaglianza nella società complessa. Civitas et humanitas. Annali di cultura etico - politica., 2018
“(…) Internet è di quanto più postmoderno esista su questo pianeta. Il suo effetto più immediato ... more “(…) Internet è di quanto più postmoderno esista su questo pianeta. Il suo effetto più immediato in Occidente pare essere stato la nascita di una generazione che è maggiormente interessata ai social network che alla rivoluzione sociale”.

L'uomo globale tra politeismo dei valori e crisi della presenza. Civitas et humanitas. Annali di cultura etico - politica. , 2016
Riflettendo sul concetto di crisi della presenza nella poetica di Eugenio Montale, si apre un ter... more Riflettendo sul concetto di crisi della presenza nella poetica di Eugenio Montale, si apre un territorio di esplorazione davvero molto vasto nel quale è possibile raggiungere temi di sorprendente attualità.
Per delimitare il campo di indagine, si fa riferimento all’uso che del termine ‘presenza’ fa l’etnologo napoletano Ernesto De Martino: dal punto di vista antropologico, per ‘presenza’ si intende la capacità di conservare nella coscienza le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato ad una determinata situazione storica, partecipandovi attivamente e superandola attraverso l’azione.
Se Montale è colui che ha vissuto una vita al cinque per cento perché l’arte resta la «forma di vita di chi veramente non vive», che si è spesso nascosto dietro pseudonimi e maschere, la sua poesia sembra avere con il concetto demartiniano di ‘presenza’ molto in comune.
Frutto di un lungo processo di accumulazione e solitudine, voce di una tradizione laica, razionale ed europea che, disposta a riconoscere i propri limiti, attraversa anche gli aspetti più inquietanti della realtà per conoscere il presente fino in fondo, la poesia montaliana sembra avere in comune con la ‘presenza’ di De Martino proprio quella capacità di conservare le esperienze e la memoria necessarie a dare una risposta al proprio tempo e ad andare ancora più oltre, trovando quel senso globale che la vita, da sola, non è in grado di scoprire da sé.
Infatti, Montale sperimenta, vivendo il periodo delle guerre mondiali, in prima persona quella incertezza a cui si riferisce De Martino quando spiega come l’idea di ‘presenza’ può entrare in crisi: di fronte ad eventi e condizioni particolari, l’uomo prova un’angoscia tale da far crollare la sua facoltà di agire e determinare, appunto, la propria ‘presenza’ o la stessa possibilità di esserci in una storia umana.
La sola possibilità di azione per il poeta è attuare quella «vertigine della conoscenza» che realizza il protagonista della poesia «Forse un mattino andando…»: squarciare il velo di Maya è l’azione che ci permette di essere presenti, di guardare in faccia il nulla con cui l’uomo è condannato a confrontarsi ininterrottamente e prendere coscienza di quella condanna alla solitudine che pende sulla nostra esistenza.
L’immagine che chiude questa poesia, quella di una massa uniforme di uomini che procedono nella stessa direzione con passo grave, senza nessuna variazione e senza colore, è forse tra quelle che meglio raccontano il mondo della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, dell’orrore dei campi di concentramento e della catastrofe atomica che incombe sull’umanità come un «ombroso Lucifero»: ma questa situazione storica contingente è vista come cosmica, le presenze più minute della realtà partecipano a questo vorticare impetuoso di questo vento di distruzione e della vita stessa, ogni vita è legata all’altra ed «occorrono troppe vite per farne una».
Montale scrolla le spalle di fronte alle soluzioni offerte dagli irrazionalismi moderni, dopo Pascoli e D’Annunzio; la sua risposta è di opporre a questo stato di cose un eroismo scavato nell’interiorità perché l’aiuto che può venirci dalla natura o dagli uomini non è illusione solo quando è un affiorare, un «filo di pietà».
Perciò per realizzare la propria ‘presenza’, quell’ heideggeriano da-sein, ed arrivare ad esserci-nel-mondo (im-welt-sein), è necessario, anche se si realizza per brevi momenti, quel rivolo di solidarietà, quel mit-sein (essere-con) che ci liberi spezzando la nostra condanna di solitudine.
Nella nostra epoca presenzialista, quella dei social network, siamo così connessi da non avere nemmeno la possibilità di essere soli, o al contrario lo siamo più di prima? Facebook, Twitter, Youtube, Instagram, Snapchat, sono effettivamente degli strumenti adatti a condividere con gli altri e a connetterci fra noi, o piuttosto, invece di tenerci insieme, ci legano come delle pesanti catene, uno a uno, “monadi senza porte e senza finestre”?
In un articolo pubblicato in occasione dell’assegnazione del premio Nobel per la letteratura nel 1975 intitolato «È ancora possibile la poesia?», il poeta riflette su quale destino possa avere nel nostro tempo la più discreta delle arti. A suo avviso riflettere sulle sorti della poesia equivale a chiedersi se l’uomo di domani sarò in grado di risolvere le tragiche contraddizioni in cui si dibatte fin dal primo giorno della Creazione: la poesia ha vitale bisogno di silenzio e di quella solitudine “buona” che ci avvicina a noi stessi, ma i tempi hanno ormai assunto «connotati lividi di disperazione» in cui l’uomo è giunto a provare un tale disgusto per se stesso da essere riuscito a liberarsi di tutto, persino della propria coscienza.
Il poeta scrive: «Un esempio lampante di tale processo sono i luoghi in cui si radunano milioni di giovani ad ascoltare quella musica rumoristica che serve ad esorcizzare l’orrore della loro solitudine».
I trilli, i poke, gli avvisi delle notifiche, i click delle fotocamere sono mezzi che servono ad avvicinarci o piuttosto a lasciarci isolati, perché in filigrana si legge l’eco di quella musica rumoristica di cui scrive Montale, che non è da ascoltare, ma non serve ad altro che ad impedirci di prestare attenzione a noi stessi e agli altri, esorcizzando l’orrore della nostra solitudine?
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Papers by Carlotta Margiotta
Per delimitare il campo di indagine, si fa riferimento all’uso che del termine ‘presenza’ fa l’etnologo napoletano Ernesto De Martino: dal punto di vista antropologico, per ‘presenza’ si intende la capacità di conservare nella coscienza le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato ad una determinata situazione storica, partecipandovi attivamente e superandola attraverso l’azione.
Se Montale è colui che ha vissuto una vita al cinque per cento perché l’arte resta la «forma di vita di chi veramente non vive», che si è spesso nascosto dietro pseudonimi e maschere, la sua poesia sembra avere con il concetto demartiniano di ‘presenza’ molto in comune.
Frutto di un lungo processo di accumulazione e solitudine, voce di una tradizione laica, razionale ed europea che, disposta a riconoscere i propri limiti, attraversa anche gli aspetti più inquietanti della realtà per conoscere il presente fino in fondo, la poesia montaliana sembra avere in comune con la ‘presenza’ di De Martino proprio quella capacità di conservare le esperienze e la memoria necessarie a dare una risposta al proprio tempo e ad andare ancora più oltre, trovando quel senso globale che la vita, da sola, non è in grado di scoprire da sé.
Infatti, Montale sperimenta, vivendo il periodo delle guerre mondiali, in prima persona quella incertezza a cui si riferisce De Martino quando spiega come l’idea di ‘presenza’ può entrare in crisi: di fronte ad eventi e condizioni particolari, l’uomo prova un’angoscia tale da far crollare la sua facoltà di agire e determinare, appunto, la propria ‘presenza’ o la stessa possibilità di esserci in una storia umana.
La sola possibilità di azione per il poeta è attuare quella «vertigine della conoscenza» che realizza il protagonista della poesia «Forse un mattino andando…»: squarciare il velo di Maya è l’azione che ci permette di essere presenti, di guardare in faccia il nulla con cui l’uomo è condannato a confrontarsi ininterrottamente e prendere coscienza di quella condanna alla solitudine che pende sulla nostra esistenza.
L’immagine che chiude questa poesia, quella di una massa uniforme di uomini che procedono nella stessa direzione con passo grave, senza nessuna variazione e senza colore, è forse tra quelle che meglio raccontano il mondo della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, dell’orrore dei campi di concentramento e della catastrofe atomica che incombe sull’umanità come un «ombroso Lucifero»: ma questa situazione storica contingente è vista come cosmica, le presenze più minute della realtà partecipano a questo vorticare impetuoso di questo vento di distruzione e della vita stessa, ogni vita è legata all’altra ed «occorrono troppe vite per farne una».
Montale scrolla le spalle di fronte alle soluzioni offerte dagli irrazionalismi moderni, dopo Pascoli e D’Annunzio; la sua risposta è di opporre a questo stato di cose un eroismo scavato nell’interiorità perché l’aiuto che può venirci dalla natura o dagli uomini non è illusione solo quando è un affiorare, un «filo di pietà».
Perciò per realizzare la propria ‘presenza’, quell’ heideggeriano da-sein, ed arrivare ad esserci-nel-mondo (im-welt-sein), è necessario, anche se si realizza per brevi momenti, quel rivolo di solidarietà, quel mit-sein (essere-con) che ci liberi spezzando la nostra condanna di solitudine.
Nella nostra epoca presenzialista, quella dei social network, siamo così connessi da non avere nemmeno la possibilità di essere soli, o al contrario lo siamo più di prima? Facebook, Twitter, Youtube, Instagram, Snapchat, sono effettivamente degli strumenti adatti a condividere con gli altri e a connetterci fra noi, o piuttosto, invece di tenerci insieme, ci legano come delle pesanti catene, uno a uno, “monadi senza porte e senza finestre”?
In un articolo pubblicato in occasione dell’assegnazione del premio Nobel per la letteratura nel 1975 intitolato «È ancora possibile la poesia?», il poeta riflette su quale destino possa avere nel nostro tempo la più discreta delle arti. A suo avviso riflettere sulle sorti della poesia equivale a chiedersi se l’uomo di domani sarò in grado di risolvere le tragiche contraddizioni in cui si dibatte fin dal primo giorno della Creazione: la poesia ha vitale bisogno di silenzio e di quella solitudine “buona” che ci avvicina a noi stessi, ma i tempi hanno ormai assunto «connotati lividi di disperazione» in cui l’uomo è giunto a provare un tale disgusto per se stesso da essere riuscito a liberarsi di tutto, persino della propria coscienza.
Il poeta scrive: «Un esempio lampante di tale processo sono i luoghi in cui si radunano milioni di giovani ad ascoltare quella musica rumoristica che serve ad esorcizzare l’orrore della loro solitudine».
I trilli, i poke, gli avvisi delle notifiche, i click delle fotocamere sono mezzi che servono ad avvicinarci o piuttosto a lasciarci isolati, perché in filigrana si legge l’eco di quella musica rumoristica di cui scrive Montale, che non è da ascoltare, ma non serve ad altro che ad impedirci di prestare attenzione a noi stessi e agli altri, esorcizzando l’orrore della nostra solitudine?
Per delimitare il campo di indagine, si fa riferimento all’uso che del termine ‘presenza’ fa l’etnologo napoletano Ernesto De Martino: dal punto di vista antropologico, per ‘presenza’ si intende la capacità di conservare nella coscienza le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato ad una determinata situazione storica, partecipandovi attivamente e superandola attraverso l’azione.
Se Montale è colui che ha vissuto una vita al cinque per cento perché l’arte resta la «forma di vita di chi veramente non vive», che si è spesso nascosto dietro pseudonimi e maschere, la sua poesia sembra avere con il concetto demartiniano di ‘presenza’ molto in comune.
Frutto di un lungo processo di accumulazione e solitudine, voce di una tradizione laica, razionale ed europea che, disposta a riconoscere i propri limiti, attraversa anche gli aspetti più inquietanti della realtà per conoscere il presente fino in fondo, la poesia montaliana sembra avere in comune con la ‘presenza’ di De Martino proprio quella capacità di conservare le esperienze e la memoria necessarie a dare una risposta al proprio tempo e ad andare ancora più oltre, trovando quel senso globale che la vita, da sola, non è in grado di scoprire da sé.
Infatti, Montale sperimenta, vivendo il periodo delle guerre mondiali, in prima persona quella incertezza a cui si riferisce De Martino quando spiega come l’idea di ‘presenza’ può entrare in crisi: di fronte ad eventi e condizioni particolari, l’uomo prova un’angoscia tale da far crollare la sua facoltà di agire e determinare, appunto, la propria ‘presenza’ o la stessa possibilità di esserci in una storia umana.
La sola possibilità di azione per il poeta è attuare quella «vertigine della conoscenza» che realizza il protagonista della poesia «Forse un mattino andando…»: squarciare il velo di Maya è l’azione che ci permette di essere presenti, di guardare in faccia il nulla con cui l’uomo è condannato a confrontarsi ininterrottamente e prendere coscienza di quella condanna alla solitudine che pende sulla nostra esistenza.
L’immagine che chiude questa poesia, quella di una massa uniforme di uomini che procedono nella stessa direzione con passo grave, senza nessuna variazione e senza colore, è forse tra quelle che meglio raccontano il mondo della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, dell’orrore dei campi di concentramento e della catastrofe atomica che incombe sull’umanità come un «ombroso Lucifero»: ma questa situazione storica contingente è vista come cosmica, le presenze più minute della realtà partecipano a questo vorticare impetuoso di questo vento di distruzione e della vita stessa, ogni vita è legata all’altra ed «occorrono troppe vite per farne una».
Montale scrolla le spalle di fronte alle soluzioni offerte dagli irrazionalismi moderni, dopo Pascoli e D’Annunzio; la sua risposta è di opporre a questo stato di cose un eroismo scavato nell’interiorità perché l’aiuto che può venirci dalla natura o dagli uomini non è illusione solo quando è un affiorare, un «filo di pietà».
Perciò per realizzare la propria ‘presenza’, quell’ heideggeriano da-sein, ed arrivare ad esserci-nel-mondo (im-welt-sein), è necessario, anche se si realizza per brevi momenti, quel rivolo di solidarietà, quel mit-sein (essere-con) che ci liberi spezzando la nostra condanna di solitudine.
Nella nostra epoca presenzialista, quella dei social network, siamo così connessi da non avere nemmeno la possibilità di essere soli, o al contrario lo siamo più di prima? Facebook, Twitter, Youtube, Instagram, Snapchat, sono effettivamente degli strumenti adatti a condividere con gli altri e a connetterci fra noi, o piuttosto, invece di tenerci insieme, ci legano come delle pesanti catene, uno a uno, “monadi senza porte e senza finestre”?
In un articolo pubblicato in occasione dell’assegnazione del premio Nobel per la letteratura nel 1975 intitolato «È ancora possibile la poesia?», il poeta riflette su quale destino possa avere nel nostro tempo la più discreta delle arti. A suo avviso riflettere sulle sorti della poesia equivale a chiedersi se l’uomo di domani sarò in grado di risolvere le tragiche contraddizioni in cui si dibatte fin dal primo giorno della Creazione: la poesia ha vitale bisogno di silenzio e di quella solitudine “buona” che ci avvicina a noi stessi, ma i tempi hanno ormai assunto «connotati lividi di disperazione» in cui l’uomo è giunto a provare un tale disgusto per se stesso da essere riuscito a liberarsi di tutto, persino della propria coscienza.
Il poeta scrive: «Un esempio lampante di tale processo sono i luoghi in cui si radunano milioni di giovani ad ascoltare quella musica rumoristica che serve ad esorcizzare l’orrore della loro solitudine».
I trilli, i poke, gli avvisi delle notifiche, i click delle fotocamere sono mezzi che servono ad avvicinarci o piuttosto a lasciarci isolati, perché in filigrana si legge l’eco di quella musica rumoristica di cui scrive Montale, che non è da ascoltare, ma non serve ad altro che ad impedirci di prestare attenzione a noi stessi e agli altri, esorcizzando l’orrore della nostra solitudine?