Papers by Alessandro Achilli

Blues (Musica Jazz Collection Vol. 1), 2012
T , T , T o, in tamasheq (la lingua tuareg), Tin-Buktu sono quattro modi di scrivere il nome di u... more T , T , T o, in tamasheq (la lingua tuareg), Tin-Buktu sono quattro modi di scrivere il nome di una città maliana a 15 chilometri dal fiume Niger, poco distante dal confine con il Sahara. Ali Farka Touré optò per la seconda variante in «Talking Timbuktu», titolo del suo album più famoso. Talking come parlare, perché Touré voleva il dialogo: lo cer-cava come in vita aveva sempre fatto nei numerosi viaggi prima in Africa e poi nel resto del mondo. Probabilmente sapeva, e meglio di chiunque altro, quanto il rap-porto tra musica africana e americana sia una questione di dare e avere. Per quell'al-bum (ricompensato con un Grammy) troverà un fine interlocutore-non un blue-sman del Delta, ma un globetrotter della musica come Ry Cooder-e ne verrà fuori una seduta intensissima, vera fusion, tutta giocata sull'ascolto reciproco. Strano rapporto quello tra il blues, gli Stati Uniti e l'Africa. Molti lo fanno sempli-ce ma è più complicato di quello che sembri. O forse no. Touré diceva che i bluesmen americani suonano musica africana. Se ne rese conto subito, quando nel 1968 ascol-tò John Lee Hooker. Fu uno choc che lo spinse a documentarsi. Scoprì che il blues era un falso, un neologismo dovuto al trasporto forzato della musica tradizionale africana sul suolo americano. Touré era nato nel 1939 sulle rive del Niger (una sorta di Mississippi maliano), a nord di Niafunké. Con rammarico constatava come molti musicisti americani non conoscessero le fonti, «il vero nome delle cose»: le gamme Q siano evidenti nella musica di Monk, Min-gus, Ornette Coleman, Ellington, Armstrong e mille altri jazzisti è cosa che non occorre ricordare ai lettori di Musica Jazz. Non altrettanto noti (con l'eccezione di Hendrix) sono i musicisti che hanno conside-rato il verbo blues non come insieme di regole inderogabili ma come punto di partenza per avventure su terreni inesplorati, dove le conno-tazioni di genere si fanno incerte o imperscrutabili.
, T o, in tamasheq (la lingua tuareg), Tin-Buktu sono quattro modi di scrivere il nome di una cit... more , T o, in tamasheq (la lingua tuareg), Tin-Buktu sono quattro modi di scrivere il nome di una città maliana a 15 chilometri dal fiume Niger, poco distante dal confine con il Sahara.
Carr non attese la fine di una stagione per trarne un bilancio, come si fa di solito. Al contrari... more Carr non attese la fine di una stagione per trarne un bilancio, come si fa di solito. Al contrario, ne offrì una visione dall'interno quando questa era in pieno rigoglio. Music Outside uscì infatti per la prima volta nel 1973, quando l'autore (che avrebbe poi scritto anche apprezzate biografie di Davis e Jarrett) era trombettista e leader dei Nucleus. L'intento originario era quello di riscattare il jazz dalla sua condizione di -appunto -music outside, di «Cenerentola delle arti in Gran Bretagna», illustrandone la grande vitalità e l'elevato spessore culturale anche in quel Paese.

; euro 24. L'idea non era peregrina (anche se si scopre che in comune quelle pioniere avevano poc... more ; euro 24. L'idea non era peregrina (anche se si scopre che in comune quelle pioniere avevano poco più che le variabili difficoltà in un mondo maschile) ma le schede paiono prime bozze di paginette wiki, compresa l'ossessione per le fonti di qualsiasi affermazione (anche la meno bisognosa di dimostrazioni), cosicché in 190 pagine le note raggiungono la cifra record di 418 (di cui 100 nelle prime 40 pagine!) e sono in gran parte inutili, come quando ripetono informazioni già date dal testo o da altre note (l'uso di op. cit. è del tutto ignorato e il primo e unico ibidem appare nella nota 399) o giungono a specificare «1965» relativamente a un «Qualche tempo dopo» del testo. A dispetto di tanta ridondanza, l'esposizione è paradossalmente lacunosa: l'assenza di trapassati remoti e spesso di date ingarbuglia l'ordine di eventi la cui comprensione è già difficoltosa per via d'una lingua da traduzione dilettantesca (anche se traduzione non è): «fruibilità» per «fruizione», «esprimere» per «descrivere», «investire» per «rivestire», «disegnare» per «progettare»… E poi «performare», Brandemburgo (sempre), well-tempered clavier, Chuck Barry e si potrebbe andare avanti per pagine: 190, per l'esattezza. Alessandro Achilli

Perché ci complichi le cose? Perché hai messo una battuta in 7/8 in questa canzone?». Così l'apos... more Perché ci complichi le cose? Perché hai messo una battuta in 7/8 in questa canzone?». Così l'apostrofarono dopo un concerto i musicisti di Dionne Warwick, ai quali Bacharach rispose: «Sentite, ci dev'essere gente che capice questa musica così com'è: se no, non sarebbe un successo. La colgono. Quindi invece di contare provate semplicemente a sentirla. Cantate il testo con il vostro strumento». La canzone è quella che intitola il libro e ha battute in 4/4, 5/4 e 7/8: un fatto per nulla insolito nella musica di Bacharach, che aveva studiato con Milhaud, Cowell, Martinu, frequentato concerti e partiture di Cage, Lou Harrison, Schönberg, Berg, Webern e scelto la strada della musica perché fulminato a quindici anni da Gillespie e Basie, ascoltati nei jazz club in cui s'introduceva con un documento falso. Ancora liceale, aveva anche suonato con Eddie Barefield, una sera in cui non se n'era presentato il pianista. Forse arrivavano dunque da quel retroterra le raffinate strutture armoniche e ritmiche che nelle sue canzoni servivano melodie invece estremamente orecchiabili, almeno all'apparenza. Fin quando durò il sodalizio con Hal David, ebbe anche un paroliere che sapeva lavorare su quelle coordinate. Dopo di lui, ci fu invece chi chiese a Bacharach di semplificarle, il che dice molto del perché le canzoni firmate con David restino insuperate, anche se i discografici -acuti fin d'allora -non capirono nulla, giungendo a disperarsi davanti a una Don't Make Me Over, che considerarono invendibile ed ebbe infatti un successo planetario. Nella parte non musicale, questa autobiografia è schietta fino alla crudezza; persino un po' imbarazzante nel rivelare drammi privati che potevano restare tali. Ma forse Bacharach considera anche la vita come la canzone pop: «una forma breve in cui tutto è importante».
Talks by Alessandro Achilli

Radio Popolare, Musica Jazz, 2003
Una versione ridotta di questa intervista (registrata a Torino il 2 settembre 2003) è andata in o... more Una versione ridotta di questa intervista (registrata a Torino il 2 settembre 2003) è andata in onda a Radio Popolare il 6 settembre 2003 e si può scaricare da prospmus.blogspot.com/2012/01/dagli-archivi.html (dove si trovano anche una precedente intervista a Wyatt e il suo miniciclo di trasmissioni per Radio Popolare). Un'altra versione ridotta di questa stessa intervista è stata pubblicata da Musica Jazz nel maggio 2004. Quella che segue è la versione integrale. Com'è nato il tuo ultimo album, CUCKOOLAND? Ho pensato: «Nel 2005 avrò sessant'anni! Se non faccio qualcosa, il futuro è adesso». Sono sorpreso di essere tuttora qui, nel nuovo secolo: stavo giusto incominciando ad abituarmi all'altro ed ecco che mi prendono e mi buttano in uno nuovo, apparentemente simile ma bizzarro. Mi sento come depositato in uno strano luogo. A parte ciò, ho sempre accumulato schizzi, bozzetti: ci lavoro su per un mese o due, a casa, finché qualcosa non m'interrompe. Ma pian piano accumulo materiali. E poi ci sono sei brani non scritti da me né da Alfie, tre dei quali sono della mia amica Karen Mantler. Come hai lavorato con lei? Karen vive a New York ma nel 2002 è venuta in Europa con la band di sua mamma, Carla Bley, e per un concerto con Peter Blegvad a Ferrara. Si è fermata un po' da suo papà Mike e ne abbiamo approfittato per incidere insieme sei o sette canzoni scritte da lei: un buon modo per cominciare le registrazioni di CUCKOOLAND, perché c'erano le strutture, gli accordi e dovevo soltanto trovare un simpatico suonaccio di sintetizzatore. Benché in Europa i suoi dischi siano usciti quasi tutti per l'Ecm [licenziataria della Watt di Carla Bley], ho pensato che quelle canzoni non richiamassero alla mente le cantanti Ecm o l'ambito in cui lei lavora; e che sarebbe stato interessante decontestualizzarle, senza preoccuparmi di essere «corretto» e di non stravolgere, per esempio, le melodie. Perciò ho inserito in CUCKOOLAND le sue canzoni di cui già esiste su disco la versione originale incisa da lei a modo proprio. Così, chi non apprezza la mia interpretazione può recuperare gli originali: Beware e Mister E vengono da FAREWELL (XtraWatt), mentre Life Is Sheep da PET PROJECT (Virgin francese, che però non l'ha fatto circolare molto). Per le altre (che comunque non abbiamo concluso), aspetterò fin quando Karen non pubblicherà le proprie versioni.

Radio Popolare, 1997
Intervista a Robert Wyatt (all'uscita di Shleep, Hannibal 1997) In studio: Alessandro Achilli [nd... more Intervista a Robert Wyatt (all'uscita di Shleep, Hannibal 1997) In studio: Alessandro Achilli [[email protected]] La versione audio di questa intervista si può scaricare da prospmus.blogspot.com/2012/01/dagli-archivi.html (dove si trovano anche una successiva intervista a Wyatt e il suo miniciclo di trasmissioni per Radio Popolare) 1. Heaps of Sheeps (testo: Benge; musica: Wyatt, arr. Eno) Heaps of Sheeps, da SHLEEP, il nuovo album di Robert Wyatt, musicista che gli ascoltatori di Radio Popolare e Popolare Network conoscono molto bene perché fra l'altro è stato nostro ospite qui, tre anni fa, e ha anche condotto, nel '95, un ciclo di cinque trasmissioni per la nostra emittente. Adesso vi proponiamo l'intervista telefonica che ho realizzato con lui qualche giorno fa. Per vostra comodità, ho sostituito alle domande in inglese la loro traduzione in italiano. E naturalmente ascolteremo anche varie canzoni dall'album, quando se ne parlerà nell'intervista. La prima cosa che colpisce chi conosca la discografia di Robert Wyatt è che su questo nuovo album ci sono parecchi musicisti ospiti. È la prima volta che accade dai tempi di RUTH IS STRANGER THAN RICHARD, album che Wyatt incise nel 1975. Dopo di che, fece prevalentemente tutto da sé, fino agli ultimi dischi, in cui suona lui tutti gli strumenti, in sovraincisione. La prima domanda che gli ho posto riguarda quindi questa decisione di coinvolgere altri musicisti, i criteri con cui li ha scelti e l'effetto del ritrovarsi a suonare con altri. ROBERT WYATT: In questo caso ho adottato un po' entrambi i metodi: mi sono messo nelle condizioni di poter incidere, all'occorrenza, un qualche genere di disco da solo; ma mi sentivo davvero solo, isolato, e ho provato il desiderio di ricevere un qualche aiuto, di avere intorno qualche amico. Non sapevo se e come avrebbe funzionato ma, alla prova dei fatti, nessuno di coloro che sono venuti mi ha dato solamente il proprio suono: al contrario, tutti hanno anche messo nella musica il proprio carattere. Sono stato davvero fortunato. È stato un lavoro di collaborazione fin dal primo momento, perché sono partito da certe poesie scritte da mia moglie Alfie e poi, quando ho avuto la possibilità di usare lo studio di Phil Manzanera, lui è stato molto gentile e mi ha fatto sentire a casa; ha inoltre suonato la chitarra elettrica in Alien, una canzone che ho scritto a quattro mani con Alfie. 2. Alien (testo: Benge; musica: Wyatt)

Musica Jazz, 2003
Creatività per fare Un certo discorso di Alessandro Achilli [[email protected]] Nel 1977 ... more Creatività per fare Un certo discorso di Alessandro Achilli [[email protected]] Nel 1977 curava per Rai Radio3 il programma Il jazz: improvvisazione e creatività nella musica, che aveva una formula particolare: quattro conduttori a rotazione (con turni di una settimana) per tre mesi. Quali criteri seguì nella scelta dei conduttori e nella composizione dei gruppi? Radio3 è nata nel 1976, con la riforma Rai che istituiva tre direzioni di rete, e il neodirettore Enzo Forcella decise di collocare la rubrica quotidiana di jazz alla sera, offrendo agli appassionati un appuntamento che li accompagnasse a concludere la giornata attraverso la loro musica preferita. Per questo modello d'ascolto occorreva una «voce» amica, che parlasse a sua volta della passione per il jazz, dei propri gusti, delle proprie preferenze, dei propri paesaggi sonori: in altre parole della propria discoteca. Per rispecchiare le variegate tipologie del pubblico jazz dovevamo individuarne attraverso i conduttori la più ampia rappresentanza: dal collezionista al critico, dallo storico al musicista, dal discofilo al musicologo. Il quartetto al quale era affidata la conduzione

Musica Jazz, 2008
È un'intervista per Musica Jazz. Bene: allora non parleremo di Tony Blair e Gordon Brown. Se vuoi... more È un'intervista per Musica Jazz. Bene: allora non parleremo di Tony Blair e Gordon Brown. Se vuoi possiamo parlarne co-munque. Solamente da un punto di vista mu-sicale. Be', ho letto da qualche parte che a Blair, da giovane, piacevano i Van Der Graaf Generator (ma non so se sia vero, soprattutto adesso, dopo Every Bloody Emperor). A Tony Blair? Non ne avevo idea. È la cosa più interessante che abbia mai sentito su di lui. La musica ha un ruolo in buona parte dei tuoi romanzi (e racconti). Il più recente, La pioggia prima che cada, ha il titolo di un brano di Michael Gibbs: quale delle due versio-ni di The Rain Before It Falls avevi in mente? Quella di Gary Burton del 1973 o quella dell'orchestra di Gibbs vent'anni dopo? Io ho quella con Burton. Dunque ti piace Burton: in Circolo chiuso un pia-nista d'albergo suona The Night Has A Thousand Eyes e il personaggio che l'ascolta (Phil) dice che Stéphane Grappelli ne fece una bella versione. Se non sbaglio, è quella con Burton sull'album del 1972 «Paris Encounter». Sì ed è proprio bella. I tardi anni Settanta furono un pe-riodo duro in Gran Bretagna per chi apprezzasse il tipo di musica che piaceva a me: non necessariamente progressive rock ma musica strumentale complessa, come quella di Hatfield & The North, Soft Machine e compa-gnia bella. Circolava pochissima musica nuova in quella vena e così cominciai a guardarmi attorno alla ricerca d'altro. Qualcuno mi disse di Burton (e dell'Ecm) ma a Birmingham non c'era traccia dei suoi dischi. Cercavo soprattutto «Seven Songs For Quartet And Chamber Orchestra»: prometteva di essere esattamente il mio genere di cosa ma non riuscivo a trovarlo da nessuna parte (ovviamente non c'era ancora internet). Alla fine lo comprai a Firenze, in gita scolastica, e mi piacque mol-to. In seguito acquistai all'incirca i tre quarti di tutto ciò che Burton ha inciso (che è tantissimo). E pensavo alla versione che è su quel disco quando ho scelto il titolo del mio ultimo libro. Non conosco l'altra. Dicevi che è più recente? 1993. Guarda: qui ci sono la formazione e i dati del-l'album. Ah, ecco, «By The Way», pubblicato dalla Ah Um. Devo procurarmelo, anche se sarà sicuramente fuori catalogo. Bella formazione. Gibbs e Steve Swallow sono in entrambi i dischi. È vero. E Bob Moses, che qui è nella big band di Gibbs, suonava con il quartetto di Burton: non in «Seven Songs For Quartet And Chamber Orchestra» ma in quegli anni era spesso con lui. Ah, in «By The Way» ci sono John Taylor, Kenny Wheeler, Iain Ballamy… Sì, devo trovarlo. Oltre a Burton quali sono i tuoi jazzisti preferiti? Ho gusti musicali molto specifici e specializzati, e tanti periodi non m'interessano. Per esempio la musica clas-sica mi piace fino a Bach e poi più niente fino a Ravel e Debussy. E così di jazz ascolto raramente cose prece-denti a «Kind Of Blue». Quindi amo Davis; e Bill Evans, che per me è il più grande pianista jazz; mi piacciono Mingus, Swallow, Carla Bley… La cosa strana è che in realtà non mi interessa poi tanto l'improvvisazione ma mi affascinano i procedimenti strutturali del jazz e i musicisti che prendono quell'aspetto della musica, ci lavorano so-pra e lo spingono un po' oltre, come ha fatto Carla Bley con certe composizioni e arrangiamenti molto elaborati. E poi: Gibbs, Wheeler e ho sempre amato John Taylor… In Circolo chiuso, quel pianista d'albergo suonava pure altri standard: All The Things You Are, Night And Day, Some Other Time… I dischi che mi aiutano a scrivere i romanzi e quelli che restano segreti in me Lo scrittore inglese ascolta musica (anche jazz) mentre scrive ma quella poi citata nelle sue pagine non sempre è la stessa che ha accompagnato l'atto creativo JONATHAN COE 30 MUSICA JAZZ inks Legami
Musica Jazz, 2005
A ttiva da oltre vent'anni, l'etichetta indipendente Cuneiform è stata fondata nel giugno 1984 a ... more A ttiva da oltre vent'anni, l'etichetta indipendente Cuneiform è stata fondata nel giugno 1984 a Wheaton (oggi è a Silver Spring, sempre nel Maryland) da Steve Feigenbaum, che per otto anni l'ha gestita in completa solitudine e tuttora la dirige con il proposito di «disseminare ascoltatori avventurosi nel mondo» (e con estrema onestà -dote evidentemente rara a trovarsi nell'industria musicale -come hanno voluto sottolineare molti dei musicisti con cui ha lavorato Feigenbaum, che dice semplicemente: «Ogni sei mesi mi siedo, tiro fuori tutti i rendiconti delle vendite, compilo duecento moduli di royalties, firmo assegni e tutti vengono pagati»).
Musica Jazz, 2001
Piccoli progetti con grande fantasia Ereditato il grande talento compositivo dei genitori, la fig... more Piccoli progetti con grande fantasia Ereditato il grande talento compositivo dei genitori, la figlia di Carla Bley e Mike Mantler ha preferito applicarlo alla forma breve e soprattutto alla canzone Con genitori come i tuoi era impossibile sottrarsi a forti influenze musicali. Quando hai iniziato a prenderne coscienza, decidendo quali elaborare e quali rifiutare? Mia mamma incominciò a dedicarsi alla mia educazione musicale quand'ero molto piccola. Imparai a leggere la musica prima che l'inglese! A parte quella, non credo di aver acquisito consapevolezza di alcuna influenza fino

Musica Jazz, 2001
[da Musica Jazz n. 12/2001] Intervista a ANJA GARBAREK di Alessandro Achilli [ndbabele@radiopopol... more [da Musica Jazz n. 12/2001] Intervista a ANJA GARBAREK di Alessandro Achilli [[email protected]] Voce, legno, elettronica per inventare le emozioni «Anja Garbarek ha imparato da suo padre che l'unica regola che valga la pena di seguire è che non c'è regola che valga la pena di seguire». Confermi? Assolutamente. E da ciò traggo la libertà di esplorare, di fare esperienze differenti. Oggi ci sono troppe regole e troppa paura di sperimentare cose nuove: così la musica non si evolve. So che anche la grande quantità di dischi che avevate in casa ha avuto il suo peso: quali erano i tuoi preferiti e più in generale quali musicisti ammiravi di più nei tuoi anni formativi? Le due risposte coincidono. Il primo disco che ricordo distintamente è di Laurie Anderson: a volte ascoltavo un disco perché mi colpiva la copertina o la foto e quando vidi la busta di O Superman fui magnetizzata da quella donna con capelli cortissimi e dritti, tutta vestita di bianco, occhiali da sole bianchi e violino elettrico bianco. Dunque ascoltai il 45 giri e fu la prima musica che mi conquistò.
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