music theory by Francesco Bellomi
Music theory plays whith arithmetic operations

PREAMBOLO Allʼanalisi musicale si chiede, di solito, di fare una descrizione raffinata (e possibi... more PREAMBOLO Allʼanalisi musicale si chiede, di solito, di fare una descrizione raffinata (e possibilmente convincente) di come è fatto un pezzo. Soprattutto a questo scopo sono state elaborate nel tempo strategie e " metodi " analitici più o meno precisi, più o meno " scientifici " , più o meno fantasiosi. 1 In questa analisi non userò in modo sistematico nessuna di queste metodologie analitiche ma talvolta prenderà a prestito certi termini, certi concetti, saccheggiando un poʼ da tutte quello che mi serve. Il motivo è semplice: tutte queste metodologie, in particolare quelle che usano le più raffinate tecniche descrittive e gli apparati concettuali più complessi e articolati (analisi schenkeriana, insiemistica, semiologica proporzionale, ecc.) eludono la domanda fondamentale che già poneva Arnold Schoenberg: «Che cosa é questo pezzo?» e non «come é fatto questo pezzo?» che in realtà è una domanda (solo apparentemente) molto più semplice. Quindi non mi interessa tradurre il brano Hostia di Nicola Verlato in grafici, strutture geometriche, livelli, ecc. che non sono altro che una trascrizione, più o meno precisa, realizzata il più delle volte a parole, di un brano. Questo tipo di analisi sono, il più delle volte, di una noia mortale sia per chi le fa che per chi le legge e, se sono svolte con una metodologia molto accurata, scaricano sul lettore una montagna di dati faticosissimi da seguire e soprattutto inutili per qualsiasi altro scopo che non sia prendere sonno alla sera. Inoltre, descrivere un brano, qualunque mezzo si usi (parole, numeri, grafici, studio dei manoscritti, ecc.) non riesce a render conto in modo certo né delle operazioni mentali fatte dal compositore durante lʼelaborazione, né di cosa viene realmente decodificato nel cervello di un ascoltatore mentre ascolta il brano. In questa analisi farò invece abbondante uso di una figura retorica snobbata (a parole) dalla quasi totalità delle analisi " scientifiche " (o pseudo tali): la metafora. 2 Lʼobiettivo di questa analisi non è quello di fare una descrizione accurata di «come é fatto» un pezzo. Purtroppo non è nemmeno quello, forse inarrivabile, di dire, come chiedeva Schoenberg, che cosa il brano «é». Molto più modestamente, lʼobiettivo è quello di raccontare una storia. Niente paura: non si tratta di ritrovare nella musica lʼinverno, lʼestate, il lupo, Pierino, i pianeti, la danza dei pulcini nei loro gusci, ecc. Le storie di questo tipo possono anche essere divertenti ma non sono quelle che interessano in questa sede. Una storia del mondo della fisica che mi piace è questa: se metti una pentola dʼacqua sul fuoco dopo un poʼ bollirà. Poi arriva uno più preciso, o che dispone di migliori strumenti di misurazione, e la racconta così: lʼacqua bolle a 100°. Quello ancora più preciso dice: lʼacqua bolle a 100° a livello del mare. Il massimo di precisione oggi è: lʼacqua pura (distillata) bolle a 100° quando la pressione dellʼaria è pari a circa 1 atmosfera.

Nel linguaggio comune, stecca vuol dire stonatura, errore evidente e clamoroso di esecuzione. Ste... more Nel linguaggio comune, stecca vuol dire stonatura, errore evidente e clamoroso di esecuzione. Steccare è una cosa che capita prima o poi a tutti. Qualche anno fa una famosa stecca di Pavarotti alla Scala finì sulle prime pagine dei giornali lasciando stupidamente in ombra tutto il resto dell'opera. Che sia un principiante a steccare è considerata una cosa comprensibile. Se succede invece in un qualsiasi concorso e vi ritroverete fuori gara prima che si spenga la risonanza del suono incriminato: oggi un professionista non stecca. Questo terrore della stecca è una cosa nuova nella storia dell'esecuzione musicale, probabilmente collegata all'invenzione delle tecniche di registrazione e alla produzione industriale dei dischi. Se sbagli, incidendo un brano, ripeti la registrazione, o ti affidi a delle correzioni manuali fino a quando tutto fila liscio. Così la maggior parte delle musiche registrate che ascoltiamo non contiene stecche, è pulita e ineccepibile dal punto di vista dell'aderenza alle altezze scritte dall'esecutore. La situazione non è sempre stata questa e ci sono innumerevoli testimonianze storiche di esecuzioni contenenti stecche clamorose. Una delle fonti più ricche e appassionanti (davvero più intrigante e ben scritto di un romanzo) sono le Memorie di Hector Berlioz. In questo libro, trascinante e irresistibile per la sua tecnica narrativa, troviamo moltissime informazioni sulla prassi esecutiva dell'epoca. Ad esempio la descrizione dell'esecuzione pubblica della sua cantata L'ultima notte di Sardanapalo si conclude con queste parole: «Cinquecentomila maledizioni sui musicisti che non contano le pause!!! Una parte di corno nella mia partitura dava l'attacco ai timpani, i timpani lo davano ai piatti, questi alla grancassa, e il primo colpo di grancassa portava all'esplosione finale. Il mio dannato corno non suona la sua nota, i timpani, non sentendolo, non prestano attenzione al momento al momento in cui devono attaccare, e, di conseguenza, piatti e gran cassa se ne stanno zitti; non attacca nessuno! Nessuno!!! […] Si trattò di un'altra catastrofe musicale, la più crudele di quelle ch'io avevo provato in precedenza… Almeno fosse stata per me l'ultima!» Altrove racconta dell'abitudine che avevano i direttori d'orchestra dell'epoca di gridare, quando ormai l'orchestra era alla deriva in modo irrimediabile, le parole «Ultimo accordo!», al che tutti i suonatori saltavano a piè pari tutto il brano per suonare solo l'ultimo accordo. Ancora, durante la prima esecuzione del suo Requiem succede che: « …insomma in quell'unica battuta nella quale l'azione del direttore d'orchestra è assolutamente indispensabile, Habeneck [il direttore che eseguì la prima del Requiem] abbassa la bacchetta, tira fuori con tutta tranquillità la sua tabacchiera e si mette a sniffare una presa di tabacco». Si trova anche un ragionamento sulla stonatura assai interessante: «…se è scioccante cantare falso rispetto al diapason, non lo è di meno cantare falso rispetto all'espressione; che se una nota troppo acuta o troppo grave ferisce l'orecchio, un passaggio reso forte quando dovrebbe essere invece dolce, o debole quando dovrebbe essere invece energico, o pomposo quando dovrebbe essere semplice, esaspera ben più dolorosamente la sensibilità degli ascoltatori intelligenti.». Verso la fine delle sue Memorie, quando racconta cioè gli ultimi anni della sua prestigiosa carriera di direttore d'orchestra, Berlioz annota: «Oltre tutto, quel giorno ero in una forma così straordinaria che dirigendo ebbi la fortuna di non fare neanche un errore, cosa che allora mi succedeva assai di rado.» Possiamo ben immaginare allora qual era lo standard medio delle esecuzioni dove i direttori spesso non erano musicisti delle capacità di Berlioz. Saltando indietro di un secolo c'è un'altra constatazione interessante: le parti dei brani del '700, conservate ancora negli archivi, contengono spessissimo errori di trascrizione da parte del copista: battute mancanti, pause sbagliate, ecc. In certi casi siamo sicuri che quelle sono effettivamente le parti che realmente furono utilizzate nell'esecuzione del

Musica Domani n.120
PAROLE CHIAVE: APPLAUSO Autore: francesco bellomi L'applausometro: questa meravigliosa invenzione... more PAROLE CHIAVE: APPLAUSO Autore: francesco bellomi L'applausometro: questa meravigliosa invenzione della moderna tecnologia, ospite fisso di quiz e sfide varie trasmesse dal buco di vetro (per gli amici: la tv). Un'invenzione per masochisti del quoziente di intelligenza. Del resto è noto, il teleutente è mediamente un deficiente e la tivvù non perde un colpo nel ricordargli quanto sia imbecille. Non c'è nemmeno da sperare che l'aggeggio sia finto. E' inesorabilmente vero. Le risate preregistrate, l'auricolare di Ambra, gli applausi a comando da tabellone luminoso sono un degno corollario, ma l'applausometro resta il Re della boiata perché lui, è scientifico!, misura con assoluta e imparziale precisione l'intensità di un applauso. E' uno strumento di democrazia televisiva! Strano che non l'abbiano ancora usato per stabilire chi, fra i direttori del concerto viennese di capodanno è stato il migliore del secolo o chi sarà il prossimo presidente della repubblica. L'applauso più memorabile della mia vita lo sentii provenire, verso le due di notte, dalle aule adiacenti alla mia, in una ex scuola elementare. Subito non capii chi cavolo stessero applaudendo gli altri candidati. Quando anch'io smisi di scrivere le mie variazioni per il diploma di composizione e mi sdraiai sulla branda, capii: centinaia e centinaia zanzare assetate di sangue erano entrate dalle finestre e attendevano solo, attaccate sul soffittonere e assassine -che spegnessi la luce. Anch'io cominciai a battere le mani come gli altri. Uno degli applausi più lunghi e cruenti della mia vita. Forse, misurare un applauso è così irritante perché il vero applauso, come ci racconta l'etimologia della parola (da Plodere = esplodere) è qualcosa che ti scoppia dentro, che non puoi programmare. Questa idea dell'esplosione la doveva conoscere bene Debussy, che detestava gli applausi dopo la musica. Pensava in sostanza che chi applaude dopo una esperienza musicale sublime lo fa solo per dire «ci sono anch'io». Per Debussy la vera bellezza annienta l'applauso, lo paralizza, lo rende inutile. Debussy che amava il silenzio come tutti i musicisti e forse più di qualsiasi altro musicista, doveva sentire l'applauso come un bombardamento di artiglieria pesante sull'esilissima trama di silenzi delle sua musiche. Un'altra storia racconta che dopo la prima esecuzione del Sopravvissuto di Varsavia di Arnold Schoenberg, il pubblico era così profondamente emozionato e scosso che nessuno applaudì e rimase in aria un lungo silenzio immobile, più eloquente di qualsiasi applauso. Solo dopo una seconda esecuzione dell'intero brano gli ascoltatori ebbero "il coraggio" di applaudire. Eppure le mani, «la parte visibile del cervello» come la chiamava Kant, sanno essere, anche nella semplice operazione di sbattere una contro l'altra, di una straordinaria varietà e ricchezza di sfumature sonore ed espressive. Se pensiamo all'uso delle mani nel flamenco,nella musica popolare bavarese, a brani come Clapping Music di Steve Reich, non possiamo non pensare che anche le nude mani possono essere un magnifico strumento musicale. Oggi si applaude tutto e tutti, la buona educazione trionfa e c'è solo qualche imbarazzo ai concerti di musica contemporanea quando non si capisce se il pezzo è finito o no. Ma se l'esecutore chiude lo spartito l'applauso parte fra mille sospiri di sollievo. Non è sempre stato così: i Greci esprimevano la loro approvazione agli spettacoli gridando e battendo le mani. I Romani battevano le mani, schioccavano le dita, facevano ondeggiare le estremità della toga e sventolavano fasce speciali appositamente distribuite agli spettatori. Nel milleseicento, fischiare, pestare i piedi, battere le mani, tossire, soffiarsi il naso, chiaccherare, erano il tipico applauso di approvazione. L'applauso che sembra un gesto spontaneo nel bambini e nel comportamento degli scimpanzé, può essere anche un lavoro: Nerone pagava circa cinquemila giovani plausores per applaudirlo quando cantava
Parole chiave: trascrizione Autore. francesco bellomi (per n° 117 di MusicaDomani -consegnare ent... more Parole chiave: trascrizione Autore. francesco bellomi (per n° 117 di MusicaDomani -consegnare entro il 10 sett.2000)

Parole chiave: tonalità Autore: francesco bellomi "…i miei colori sono ciascuno parte di un vero ... more Parole chiave: tonalità Autore: francesco bellomi "…i miei colori sono ciascuno parte di un vero e proprio accordo, e quando io prendo un colore dalla mia tavolozza, è assolutamente chiaro nella mia mente cosa deriverà da questo colore e come posso dargli vita. … Molto, anzi, tutto dipende dalla mia sensibilità per la infinita varietà di toni della stessa famiglia." Questo frammento, tratto dalla quattrocentodiciottesima lettera di Vincent van Gogh al fratello Theo, illustra molto bene come, anche nel mondo della pittura, esista il concetto di tonalità. A scuola impariamo che gli accostamenti tonali sono quelli che prevedono la vicinanza di colori tutti appartenenti a una stessa famiglia (la famiglia dei gialli, quella dei verdi, dei rossi, ecc.) mentre gli accostamenti timbrici sono quelli che vedono la vicinanza di colori appartenenti a famiglie diverse (un blu vicino a un rosso, ecc.). I quadri di Giorgio Morandi sono degli inni ai grigi e ai violetti per la sua ininterrotta predilezione per questi accostamenti tonali. I musicisti usano gli stessi termini con significati simili in profondità ma con dei significati di superficie, o specifici, assai diversi. Esiste un significato ristretto di tonalità in musica che è in relazione alla musica colta occidentale che va, grosso modo, dalla fine del 1600 alla fine del 1800 circa. E' il concetto di tonalità che conosciamo meglio perché è quello che imperversa sulla maggior parte dei libri di teoria musicale e di armonia. Al di fuori di questi limiti geografici e storici quel concetto non funziona più così bene e siamo obbligati a cercare definizioni più astratte e generali. J.J. Nattiez ci racconta che negli anni '50 "si riteneva così confuso il concetto di tonalità che nel VII Congresso internazionale di musicologia venne appositamente costituita una commissione di studio". Quasi tutte le definizioni convergono su un aspetto: qualunque sia l'insieme di altezze prese in considerazione, si ha tonalità quando esiste una qualche relazione gerarchica fra queste altezze, cioè quando una o alcune di esse hanno, in un qualsiasi modo, un ruolo prevalente rispetto ad altre. E' possibile rilevare queste gerarchie attraverso semplici rilievi statistici sulla percentuale di presenza dei suoni, come fanno gli etnomusicologi quando ricavano il gamut o scala ponderata. Il famoso giro del blues è costruito, nella sua forma più semplice, su sole tre altezze all'interno di un insieme assai più ampio. I musicisti usano un sacco di strategie diverse per far capire all'ascoltatore quali sono le note importanti di una certo insieme di altezze. Una delle più semplici si chiama pedale: in pratica fai sentire una certa altezza in maniera ininterrotta dall'inizio alla fine del brano o del frammento. Quella è la nota centrale, la tonica. Si chiama pedale per il semplice motivo che sugli organi antichi questa nota lunga era spesso prodotta azionando un tasto non con le mani ma con i piedi, questi tasti da azionare con i piedi sono detti appunto pedali. K. Jarrett è un vero mago nell'uso raffinato di questo elementare procedimento. La tonalità nel senso ristretto è un sotto insieme assai piccolo compreso nel grande insieme della tonalità in senso non ristretto, che i musicisti preferiscono chiamare modalità. Questo caso particolare è però per noi di importanza strategica: gli abbiamo dedicato migliaia di volumi, ricerche, studi, che vanno dalla teoria musicale alla psicologia della musica. Uno sforzo immane che però in qualche caso ha finito per lasciare in ombra altri aspetti non meno importanti. I monumenti teorici e artistici della tonalità sono il trattato di armonia di Rameau e il Clavicembalo ben temperato di J.S. Bach, entrambi scritti intorno al 1722. Muoversi all'interno di una certa tonalità è certamente rassicurante per l'ascoltatore, ma alla lunga può diventare noioso come andare a spasso facendo sempre lo stesso percorso. Esistono quindi molti modi per contraddire le aspettative dell'ascoltatore e rendere l'ascolto più avventuroso e appagante. Ad esempio cambiare tonalità, modificare parzialmente la tonalità di partenza, variare la densità degli eventi tonali, ecc.

PAROLE CHIAVE: timbro AUTORE: francesco bellomi Un gioco molto conosciuto da fare in classe consi... more PAROLE CHIAVE: timbro AUTORE: francesco bellomi Un gioco molto conosciuto da fare in classe consiste nel bendare un alunno e nel chiedergli di riconoscere i compagni dalla loro voce. Questi ultimi fanno sempre i furbi, non visti, cambiano posto e poi non sprecano certo le corde vocali, pronunciano parole brevissime, monosillabi. Giuseppe crede di essere più furbo di tutti e fa anche la vocina "da donna" per non essere riconosciuto. Nonostante tutto il suo compagno lo becca ugualmente. Cosa c'è di mezzo? Il differente timbro delle varie voci e una abilità pazzesca, che ciascuno di noi possiede, di riconoscere e memorizzare diversi timbri. La riflessione non è nuova: Boulez scrive che, se esistono poche persone in possesso per un orecchio assoluto per le altezze, la maggioranza di noi, musicisti e non, ha uno splendido orecchio assoluto per i timbri. L'esperienza è così comune che quelle rare volte che commettiamo degli errori ci rimaniamo male e chiediamo scusa se confondiamo, al telefono, la voce del figlio per quella del padre. Sembra che anche Camille Saint Saëns si sia arrabbiato molto, con se stesso, alla prima esecuzione del Sacre du Printemps, e se ne sia andato subito da teatro sbattendo la porta del palchetto. Il motivo? Non aveva saputo riconoscere il fagotto nel celebre assolo iniziale. Guardando la cosa da un altro punto di vista si potrebbe dire che Stravinsky è un Giuseppe che ha saputo inventare una vocina talmente ben camuffata da fregare anche il suo compagno Camille. Si, perché esistono e sono esistiti musicisti che sono stati geniali "inventori" di timbri, che hanno esplorato le più remote possibilità dei singoli strumenti, che hanno creato nuovi impasti timbrico-orchestrali, che anno dedicato al parametro timbro una attenzione nuova e straordinaria. Il caso del terzo pezzo dei Fünf Orchesterstücke op. 16 di Arnold Schönberg è esemplare: il brano inizialmente era stato intitolato Farben (Colori) ed è costituito da vere e proprie "melodie di timbri", in pratica l'intero brano è costruito su di un unico accordo dall'inizio alla fine, sulle note dell'accordo i vari strumenti su alternano conferendo alla sonorità complessiva una timbrica continuamente cangiante, pur nella immobilità delle altezze. La storia della musica del novecento è in sostanza la storia della scoperta della dimensione timbrica, da Russolo a Cage. Ma il settore dove, in qualche il timbro diventa l'elemento centrale, è quello della musica elettronica e della produzione "sintetica" del suono. E' proprio la tecnologia che ha permesso di scoprire alcuni aspetti del timbro che prima venivano semplicemente ignorati. Ad esempio l'importanza dei transitori d'attacco per il corretto riconoscimento timbrico. Una esperienza ormai preistorica della musica "elettronica" consiste nel prendere la registrazione su nastro di un "don" di campana dalla lunga risonanza, tagliare il pezzetto iniziale del nastro oppure semplicemente farlo scorrere a rovescio e nessuno riconoscerà più il timbro della campana. Ma ognuno di noi, anche senza l'aiuto di raffinate tecnologie, può sperimentare su di se, con il proprio corpo la straordinaria varietà timbrica che ognuno è in grado di mettere in atto. Anche adoperando solo la bocca abbiamo una varietà straordinaria di timbri: cominciamo dalle vocali. La vibrazione che produce il suono delle varie vocali è unica, è sempre la stessa, è quella delle nostre corde vocali. Quello che cambia nel passaggio dalla a alla e alla i alla o e alla u, è la forma della principale "cassa di risonanza" costituita dalla bocca e quindi delle formanti del suono. Inoltre, essendo queste cinque vocali dei particolari timbri in un continuum è possibile, e di fatto avviene, che lingue diverse dall'italiano o dialetti privilegino dei timbri diversi. L'Accademia Imperiale di S. Pietroburgo organizzò nel 1779 un famoso concorso: ai concorrenti si chiedeva di spiegare quale fosse la natura dei suoni vocali e di costruire una macchina che fosse in grado di riprodurli. Il concorso fu vinto da un certo Christian Gottlieb Kratzenstein con una serie di risuonatori acustici (delle specie di canne d'organo) sagomati in modo tale da generare un suono simile alle vocali. Il Barone Wolfgang von

per il n° 111 di Musica Domani) PAROLE CHIAVE: TECNICA. AUTORE: francesco bellomi «La tecnica è t... more per il n° 111 di Musica Domani) PAROLE CHIAVE: TECNICA. AUTORE: francesco bellomi «La tecnica è tutto» «La tecnica da sola non basta». «La tecnica in musica non serve a niente se non si ha musicalità». Tre luoghi comuni dei discorsi sulla musica, tre mezze verità e tre mezze bugie, come sempre. Per l'esecutore la parola tecnica fa venire in mente subito titoli come La tecnica giornaliera del pianista o Tecnica delle corde doppie e triple ecc. Insomma la tecnica è qualcosa di operativo e manuale che ha a che fare con i muscoli e con i tendini. Molte persone diverse mi hanno raccontato la stessa storia: «Una cattiva impostazione tecnica iniziale mi ha rovinato in modo quasi irreversibile la voce e le corde vocali ma, per fortuna, con l'aiuto di bravi insegnanti, di logopedisti e quant'altro, i problemi sono in via di risoluzione». Le tendiniti e altre patologie varie non sono rare nemmeno fra gli strumentisti. Mani, schiena, labbra, diaframma segnano una mappa del dolore "tecnico". Su di una cosa sembrano tutti d'accordo: la tecnica si costruisce, non è un dono di natura, e si costruisce solo con l'esercizio continuo. Sloboda ci ha raccontato le principali ipotesi sul funzionamento cerebrale inerente alle abilità motorie del musicista. Un dato ormai condiviso è che man mano che si sviluppa una certa abilità tecnica aumenta anche l'area cerebrale coinvolta. L'esempio chiarissimo è quello dell'area cerebrale collegata alla sensibilità del polpastrello del dito indice: relativamente piccola per la maggioranza delle persone, molto più estesa nei non vedenti che utilizzano il polpastrello per leggere il Braille. Uno dei musicisti tecnicamente più dotato è stato, a quanto dicono le testimonianze dell'epoca, J. S. Bach. Quel Bach che dichiarava: «Studiate quanto ho studiato io e otterrete gli stessi risultati». In alcuni casi la tecnica diventa meno "muscolare" e più "cerebrale", ammesso che si possa tracciare una differenza netta fra le due cose. Mussorgskij e Schumann sono di solito indicati come orchestratori dalla tecnica non troppo raffinata. Quando ci si è decisi a lasciar perdere il Boris Godunov "brillantemente" riorchestrato da Rimskij Korsakov e a suonare la oscura l'orchestrazione originale di Mussorgskij si è capito che la sua traballante tecnica di orchestratore era una componente essenziale della sua poetica musicale. del resto Debussy l'aveva già capito quando scriveva, a proposito della musica amatissima di Mussorgskij: «Questo accordo, che sembrerebbe troppo povero al Maestro ***...» Forse un giorno qualcuno riproporrà le "maldestre" orchestrazioni che Schumann ha dato alle sue sinfonie, e non quelle ritoccate da Mahler che abitualmente si eseguono. Così forse scopriremo qualcosa di importante sulla poetica di questo visionario autore tecnicamente "sfortunato". Qualcuno preferisce usare il termine metodo quando le abilità coinvolte sono più cognitive che muscolari: Metodo compositivo, metodo analitico, metodo educativo ecc. Come ci si appropria di un metodo? usandolo, non "leggendolo". Albert Einstein raccontava che "sentiva" le risoluzioni delle formule matematiche nei muscoli. Forse aveva delle straordinarie capacità propriocettive e aveva capito che anche il metodo o la tecnica più astratte passano in qualche modo attraverso il corpo. A scuola capita spesso che qualche alunno chieda aiuto per risolvere un problema tecnico. Gli insegnati che ho conosciuto mi hanno mostrato il più ampio ventaglio di risposte possibili. Il più insicuro andava a tirare fuori dall'armadio il trattato o il manuale o il libro di testo per cercarvi La RISPOSTA GIUSTA e la faccia dell'allievo era del tipo:
Alla redazione di MUSICA DOMANI Vicoletto cieco S. Carlo, 2 37129 Verona PAROLE CHIAVE: SOUND. AU... more Alla redazione di MUSICA DOMANI Vicoletto cieco S. Carlo, 2 37129 Verona PAROLE CHIAVE: SOUND. AUTORE: francesco bellomi (per il n° 109 di Musica Domani)

Quando ho scritto per la prima volta il titolo di questa breve chiacchierata sulla pausa, anziché... more Quando ho scritto per la prima volta il titolo di questa breve chiacchierata sulla pausa, anziché scrivere pausa ho scritto paura. Alberto Savinio avrebbe sicuramente osservato che la voce degli dei parla attraverso questi lapsus di battitura e credo che, alla luce delle riflessioni che seguono, sarebbe difficile dargli torto. Gian Francesco Malipiero intitolò alcuni suoi brani Pause del silenzio (1917)(1918)(1919)(1920)(1921)(1922)(1923)(1924)(1925)(1926). Sapeva bene che le pause non sono silenzi e che esse sono necessarie alla musica come l'aria è necessaria a molti esseri viventi. Se PAUSA = ARIA allora SILENZIO = VUOTO? Forse, ma dovremmo elaborare il concetto di silenzio per assurdo e quindi in modo totalmente astratto rispetto ai meccanismi percettivi. Gli udenti immaginano erroneamente che i non udenti vivano in un mondo di silenzio: niente di più sbagliato. A questo proposito così si esprime Oliver Sacks (Vedere Voci, Adelphi,1990, pag. 28): «Il sordo congenito non ha esperienza del "silenzio" né di questo si lamenta, così come il cieco non ha esperienza né si lamenta del "buio". Queste sono nostre proiezioni, o metafore, della loro condizione.» La pausa ha avuto nella musica una evoluzione curiosamente simile a quella che ha avuto, nei numeri, lo zero. Come per lo zero, anche la pausa ha avuto tardi l'onore di una scrittura. E anche i primi segni che indicano inequivocabilmente delle pause nelle scritture musicali più antiche sono piccolissimi, è facile confonderli con piccole macchie della scrittura o della stampa. Come fanno ancora i bambini di oggi quando inventano scritture sonore, i nostri antenati avevano una certa riluttanza ad elaborare segni specifici e ben visibili per indicare i silenzi. Un pezzo di storia dello zero ce la racconta invece Georges Ifrah (Storia universale dei numeri, Mondadori, 1989, pag.288):«Quando lo zero fece la propria comparsa in occidente (cosa che avvenne, ricordiamolo, nel XII secolo), gli furono attribuite diverse denominazioni, tutte trascrizioni più o meno latinizzate del termine Sifr (il vuoto) dato dagli arabi al Sùnya di origine indiana. Nel suo Liber Abaci, Leonardo da Pisa (verso il 1170-1250) gli diede il nome di Zephirum, di cui ci si sarebbe serviti fino al XV secolo; con qualche modifica, esso sfociò quindi nell'italiano zefiro, (il nome di un vento) alla cui fine derivò, a partire dal 1491, l'attuale zero." Due ipotesi per giocare con le parole: 1) se PAUSA=SILENZIO, SILENZIO=NULLA, NULLA=MORTE; allora PAUSA = PAURA DELLA MORTE. 2) se PAUSA=ZERO, ZERO=ARIA, ARIA=RESPIRO, RESPIRO=VITA; allora PAUSA = RESPIRO DELLA VITA. R. Murray Schafer (Il paesaggio sonoro, Ricordi, 1985, pag. 353) dice: «L'uomo ama produrre dei suoni per ricordarsi che non è solo. L'uomo rifiuta il silenzio totale. Ha paura della mancanza di suoni, così come ha paura della mancanza di vita. Poiché il silenzio definitivo è quello della morte, è nelle cerimonie commemorative che il silenzio raggiunge la sua dignità più alta. [....] Per chi possiede un ascolto limpido, il silenzio è -in realtàun'informazione. Per poter riuscire a migliorare il design acustico del mondo, dovremmo prima ritrovare una concezione del silenzio come condizione positiva della vita.» Nel periodo barocco e classico i segni di alcune pause entrano nella scrittura con dignità pari a quella dei suoni. Ma i respiri , i silenzi d'articolazione sono lasciati al gusto, alla tecnica e alla bravura dell'esecutore. Solo Dom Bedos de Celles (in L'ART DU FACTEUR D'ORGUES, Parigi, 1766/1768, fac-simile 1936, Kassel) li annota con precisione millimetrica quando deve far vedere come incidere il cilindro di un organo meccanico. Problemi analoghi di precisione si hanno oggi nelle scritture computerizzate dove i piccoli silenzi di articolazione che un musicista eseguirebbe a istinto vanno invece indicati con rigorosa precisione. Ricordo ancora la paura che mi attanagliava lo stomaco nel 1979, durante la mia prima ora di lezione, nella mia prima supplenza di Educazione Musicale, di fronte ad una

Parole chiave: maestro. Di: francesco bellomi "Nessuno nasce maestro" è un modo di dire che illus... more Parole chiave: maestro. Di: francesco bellomi "Nessuno nasce maestro" è un modo di dire che illustra molto bene un pensiero piuttosto condiviso: per diventare molto abili in una certa disciplina o arte o scienza o mestiere, al punto da riuscire ad insegnarlo ad altri, è necessario raggiungere alti livelli di abilità e competenza. "Per insegnare 10 cose è necessario saperne almeno mille" è un'altra frase ricorrente. Ma "nessuno nasce maestro" può voler dire anche un altra cosa: per insegnare occorrono delle abilità (relazionali, comunicative, didattiche, teatrali? ecc.) che non tutti possiedono come patrimonio genetico dato, e che quindi si devono acquisire con lo studio e con l'esperienza. Ne consegue che è possibile "imparare ad insegnare" e che saper insegnare non coincide in tutto e per tutto con l'imparare a suonare, a comporre, ecc. Per chi si occupa di didattica e di pedagogia è una constatazione lapalissiana. Essere un grande Maestro (nel senso di virtuoso della propria pratica professionale) non vuol dire necessariamente essere anche un grande maestro (nel senso di insegnante) di questa stessa pratica professionale. Peccato che questa constatazione ovvia e scontata non sia affatto condivisa a livello generale e quindi anche fra i musicisti. Altrimenti come si spiegherebbe la presenza di innumerevoli occasioni di formazione dove la presenza di Maestri (nel primo significato) richiama frotte di studenti che in diversi casi non trovano Maestri (nel secondo significato) corrispondenti alle aspettative? A leggere le testimonianze e i documenti storici si rimane sbalorditi dalla frequenza di questo equivoco. In qualche caso i maestri del tipo A sono consapevoli di non essere anche maestri del tipo B e lo dichiarano. In occasione dell'ultimo concerto tenuto alla Scala da Vladimir Horowitz, apparve una intervista su un notissimo giornale nazionale. L'intervistatore chiedeva se Horowitz avesse degli allievi. Nella risposta Horowitz spiegò di non sentirsi adatto all'attività di insegnante, di preferire il concertismo. Sottolineò anche il fatto che per fare l'insegnante occorrono abilità assai diverse da quelle necessarie al concertista puro. Le persone sagge conoscono e riconoscono i propri limiti. Questa è una componente loro saggezza. Peccato che l'apparato di reclutamento di molti insegnanti abbiano ignorato (e in certi casi ignorino ancora oggi) questo dato di fatto. Nelle accademie di pittura degli anni trenta i titolari della cattedra di pittura erano talvolta notissimi e valentissimi pittori. La scuola metteva a loro disposizione modelli e stanze per allestire i loro studi personali. Studi nei quali questi Maestri (A) dipingevano parte delle loro opere. Sporadicamente uscivano dallo studio, entravano nella classe di pittura, facevano un giro per i cavalletti pronunciando qualche rara parola di apprezzamento o di critica. Quindi ritornavano al proprio studio a lavorare per conto proprio. Rari eletti avevano accesso allo studio del maestro (B). Questa prassi, come modello didattico, sembra l'applicazione della teoria darwiniana della selezione naturale: o sei capace, come allievo, di cavartela con le tue sole forze, o soccombi e sparisci. Molte cose, non tutte, sono cambiate nel frattempo. Molti insegnanti, non tutti, sono oggi meno afasici di questi vecchi maestri e in molti casi parlano e spiegano. Anche Stravinsky non amava insegnare la composizione: "Sono molto poco dotato per l'insegnamento e non ho alcuna inclinazione al riguardo: sono propenso a pensare che gli unici allievi che valga la pena di avere diverrebbero compositori sia col, sia senza il mio aiuto […] Quando un compositore mi sottopone un suo lavoro per una critica, tutto ciò che gli posso dire è che io l'avrei scritto in modo del tutto diverso […] Mi dolgo della mia incapacità comunque e sono pieno di venerazione per Hindemith, Kenek, Session, Messiaen e per quei pochi altri compositori che posseggono il dono dell 'insegnamento." (in Craft-Stravinsky,1977, Colloqui con Stravinsky, Einaudi, p.176). Al lato opposto troviamo Arnold Schoenberg, che insegnò per tutta la vita e che scrisse nella prefazione del suo Manuale di Armonia: "Questo libro l'ho imparato dai miei allievi." Quando si legge questa frase si intuisce di colpo che il Maestro (di tipo B), anche quando

PAROLE CHIAVE: diteggiatura AUTORE: francesco bellomi Un triangolo per il mignolo, un mezzo cerch... more PAROLE CHIAVE: diteggiatura AUTORE: francesco bellomi Un triangolo per il mignolo, un mezzo cerchio per l'anulare, una X per il medio, una I per l'indice, un asterisco per il pollice. I questo modo il copista ufficiale di Alessandro Scarlatti diteggia la prima toccata contenuta nel Primo e Secondo libro di Toccate del Sig. Cavagl re Alessandro Scarlatti (manoscritto 34.6.31) che si trova ora nella biblioteca del Conservatorio di Napoli. Anche J.S.Bach, Chopin, Liszt, Brahms, Messiaen, Stravinsky, hanno talvolta indicato la diteggiatura sulle loro composizioni: tanto per citare solo alcuni dei più famosi. Perché? La motivazione è spesso di tipo didattico. Soprattutto nei trattati le diteggiature hanno lo scopo di illustrare le abitudini tecniche ed esecutive in voga al momento. Oggi, per gli strumenti a tastiera si usano i numeri per indicare le dita: da uno a cinque = dal pollice all'indice. Confrontare i vari modi di usare le dita che si sono succeduti nel tempo offre delle informazioni non solo sulla prassi esecutiva ma anche sulle maniere con cui i musicisti hanno usato il proprio corpo. E' noto che le diteggiature per tastiera più antiche (barocco compreso) usano raramente il passaggio del pollice sotto la altre dita. Le scale ascendenti alla mano destra erano generalmente diteggiate: 1,2,3,4,3,4,3,4, ecc. ottenendo così senza sforzo il tipico fraseggio a due a due che ritroviamo nel modo di tirare l'arco nel violino o nel modo di pronunciare dentro al flauto (lere, lere, ecc.). C'è però una differenza più profonda. Se per il pianista romantico uno degli obiettivi dell'addestramento tecnico giornaliero è quello di ottenere la più perfetta eguaglianza di intensità sonora fra tutte le cinque dita della mano, viceversa per il virtuoso di clavicordo era importante usare le dita muscolarmente più forti dove occorre più forza e quelle più deboli dove ne occorre meno. «Dita buone su note buone e dita cattive su note cattive» dove le note "buone" sono quelle consonanti poste generalmente sul battere e quelle cattive sono quelle dissonanti. A seconda delle scuole c'erano variazioni nel modo di identificare le dita buone. Nel Transilvano di Diruta (1593 -1610) le dita "cattive" sono 1,3 e 5 e quelle buone 2 e 4. Per Purcell nelle sue Twelve Lessons (1689) è l'esatto inverso. Dal 1800 in poi ci rimangono diversi casi documentati di problemi muscolari, o di altro tipo, legati all'uso delle dita: Schumann è probabilmente l'esempio più famoso. Forse questo si spiega con l'enorme sviluppo di certe abilità muscolari necessarie per eseguire il repertorio romantico. O è stato invece lo sviluppo della tecnica a spingere i compositori a scrivere musiche di difficoltà tecnica trascendentale? Ancora oggi numerosi insegnanti o revisori di musiche altrui dedicano molte ore a prescrivere "corrette" diteggiature. Un esperimento raccontato da J. Slovoda sembrerebbe mettere seri dubbi sull'utilità didattica di questa prassi: J. W Reitmeyer (1972) chiedeva ad alcuni musicisti di esercitarsi in una prassi negativa: alcuni soggetti si esercitavano su una diteggiatura sbagliata pur essendo consapevoli della diteggiatura corretta, altri si esercitavano normalmente con la sola diteggiatura corretta. Si chiedeva poi ai due gruppi di eseguire i brani in modo giusto, e si quantificavano gli eventuali errori. I risultati mostrarono che non si verificava nessuna differenza significativa nell'efficacia di queste due tecniche. E' chiaro però che esiste una sorta di memoria muscolare che permette ai musicisti un grande risparmio di fatica quando si trovano ad affrontare movimenti che sono stereotipi presenti in un vastissimo repertorio, come le scale e gli arpeggi. Per questi stereotipi si studiano oggi delle diteggiature "fisse" proposte da libri musicalmente non proprio entusiasmanti. In molto repertorio contemporaneo, dove questi stereotipi motori sono assenti, l'esecuzione e la diteggiatura è in genere più difficile e richiede abilità più raffinate o semplicemente diverse. Un caso particolare diteggiatura è quello usato dai "compositori del ditino" così come li chiamava, con un certo disprezzo, Schoenberg. Cioè dei compositori di musica leggera che compongono ad orecchio e che, non sapendo suonare, eseguono le loro melodie sulla tastiera con un solo dito. Sarà un caso ma questa idea del ditino gira molto anche nella
Parole chiave: Dissonanza Autore: francesco bellomi Negli Studi per pianoforte di Johann Baptist ... more Parole chiave: Dissonanza Autore: francesco bellomi Negli Studi per pianoforte di Johann Baptist Cramer (1771-1858), si trova una curiosa annotazione di Hans von Bülow (1830Bülow ( -1894,: "Questo studio [il n° 38 in do minore], il più difficile nel suo genere di tutta la raccolta, dev'essere suonato in principio con la massima forza. Una attenzione specialissima richiedono i passaggi per quarte nelle battute 11-14 e in altre. Durante lo studio separato di queste, il Maestro potrà suonare le seste nella parte inferiore, per evitare allo scolaro l'ingrato effetto che ne deriva, in quanto che anche nei puri esercizi meccanici si deve dare importanza alla eufonia. Serviranno in tali casi a meraviglia le così dette tastiere mute che noi caldamente raccomandiamo.

Parole Chiave: cantabile Autore: francesco bellomi Qualche mese fa ho chiesto a Virgilio Savona: ... more Parole Chiave: cantabile Autore: francesco bellomi Qualche mese fa ho chiesto a Virgilio Savona: «Cosa si potrebbe fare per far venire la voglia di cantare ai ragazzi di oggi, visto che si canta sempre meno?» La risposta mi ha spiazzato: «Non è assolutamente vero! Ai concerti dei cantanti tutto il pubblico canta spessissimo all'unisono con il proprio cantante preferito. Renato Zero, ad esempio, in certi casi lascia cantare il pubblico da solo per lunghi tratti, e certe sue melodie non sono per niente facili! Quarant'anni fa, quando facevamo i concerti con il Quartetto Cetra, nessuno nel pubblico osava fiatare. Oggi si canta molto più di allora!» Francamente non me l'aspettavo. Il didatta aggiornato sa di avere oggi di fronte tutta una serie di problemi vocali: voci mono toniche, respirazioni scorrette, estensioni striminzite, ecc. Com'è possibile che Savona non se ne sia accorto? Poi, tornando a casa, ho ripensato uno a uno a tutti i concerti di musica leggera che ho sentito negli ultimi anni e, per la miseria, era proprio vero, ad ogni concerto si cantava. Poi ho pensato ai concerti di musica classica, … non si cantava mai. In tutte le regole c'è sempre almeno un'eccezione e infatti, ad un concerto del cantautore Franco Battiato è successo che il pubblico cantava e allora Battiato a detto dentro il microfono: «Mi fa piacere che conosciate così bene le mie canzoni, ma cercate di essere un po' più intonati. Più di qualcuno fra di voi è così stonato!» Risultato: il pubblico ha smesso di cantare. E, su di un altro terreno, quando assisto a quelle rappresentazioni operistiche "per ragazzi" dove il pubblico, opportunamente preparato, canta all'unisono con Papageno con Don Chisciotte, o con Falstaff ,mi viene da pensare che non tutte le speranze sono morte e che per i ragazzi di oggi è cantabile perfino l'opera, il genere che gli fa più schifo in assoluto, se li si convince che ne vale la pena. Se guardiamo a tutti i trattati dei secoli passati, non ne troviamo uno che ometta di sottolineare l'importanza della cantabilità anche quando si compone o si suona con gli strumenti. Molti consigliano esplicitamente di ascoltare attentamente la voce dei bravi cantanti per imparare come si fraseggia, come si rende espressivo un passaggio, ecc. Gli stili sono cambiati, gli strumenti si sono modificati, ma l'idea di cantabilità riappare come se niente fosse all'interno del brano di Webern come in quello di Scelsi, nelle improvvisazioni di Demetrio Stratos come in quelle di Cecil Taylor. Quando Zarlino scriveva: «Le parti della cantilena siano cantabili: cioè che cantino bene» e i compositori della scuola organistica tedesca del sud nel tardo '600 (Pachelbel, Frogerger, Muffat, Kerll, ecc.) affermavano che la cantabilità dovesse essere uno dei fondamenti della composizione in realtà facevano un discorso non stilistico ma qualitativo. Si perché cantabile in realtà non voleva e non vuol dire facile da cantare ma bello da cantare. E allora anche un pezzo per sole percussioni ad altezza indeterminata può essere splendidamente e meravigliosamente cantabile. E infatti, i bravi percussionisti, "cantano" le musiche di Nono e di Cage. Uno dei giochi che faccio agli esami di ammissione, che tutti gli anni si svolgono nella mia scuola per chi non "sa" ancora la musica, consiste nel cantare un brevissimo frammento melodico e chiedere poi di ripeterlo subito per imitazione. Qualcuno ci riesce, molti non ci riescono. Se chiedo a quelli che non ci riescono di ripeterlo cantando più intonato mi rispondono, giustamente, che non ne sono capaci. Ma se invece chiedo loro di fare attenzione alle sfumature espressive e al carattere (allegro, sereno, lugubre, concitato, teso, "arrabbiato", ecc.) con cui lo canto e di sforzarsi di rendere "quel" carattere, allora, come per incanto, anche l'intonazione delle altezze migliora. Ed è ovvio: per essere più cantabili bisogna essere più espressivi, più scorrevoli, più sciolti, più "musicali", piuttosto che preoccuparsi solo di intonare l'altezza corretta. Ma dato che la corretta intonazione è la spada di Damocle che pende sopra la testa di
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music theory by Francesco Bellomi
La Casa Museo ospiterà dal 9 al 24 ottobre “Le Rocce” fotografie di Pino Dal Gal.
I giorni di apertura sono venerdì, sabato e domenica o su appuntamento al 338 4738494.
L’inaugurazione sarà sabato 9 ottobre dalle 16 alle 19, per le norme anti - covid è richiesta la prenotazione al 338 4738494
«È un dato di fatto: i pazzerelli tranquilli anticipano il futuro»
Gabriel García Márquez, Memoria delle mie puttane tristi, 2006, trad. di Angelo Morino, Mondadori, pag. 87
Nel file è contenuta una breve, asistematica e incompleta analisi della melodia di Carinhoso di Pixinguinha. Una melodia che alcuni ritengono melensa e di una cantabilità insopportabile e decadente.
Invece questa melodia è un capolavoro di ingegneria musicale e narrativa. le sue strutture musicali sono di una raffinatezza, efficacia ed eleganza senza pari. Chi non riesce a coglierle perde il 90% della seducente bellezza di questo brano.
Dato che questa analisi è molto tecnica la sua lettura è sconsigliata ai non musicisti o a chi non ha idonee conoscenze di teoria musicale.
Inoltre, essendo una analisi non allineata con le scuole analitiche più alla moda e tendenzialmente anarchica e a-sistematica, è inpubblicabile su qualsiasi seria, ovvero noiosissima, rivista di analisi musicale.
per finire un'altra citazione:
«si sa che la gente dà buoni consigli
se non può più dare cattivo esempio»
Fabrizio De Andrè, Bocca di rosa.
Il consiglio, ormai, l'ho già dato ma per chi non segue i "buoni consigli" c'è, per aprire questo file - dopo averlo scaricato in versione PDF, una password.
Facilissima per i musicisti: bisogna scrivere di seguito (senza virgole spazi o altro) in notazione alfabetica anglosassone i nomi delle note che compongono la serie fondamentale usata da Arnold Schoenberg nella sua Suite op. 29.
Le note alterate sono indicate con l'alterazione ascendente dopo il nome della nota.
ATTENZIONE: la vera serie originale, non quella riportata su tutte le tabelle che si trovano in internet e che parte, per demenziali bisogni classificatori, da DO.
La vera serie originale usata da Schoenberg non partiva da DO.
Con questo giochetto spero di avere solo lettori musicali e adulti (nel senso etimologico del termine) senza dover più rispondere a chi, invece della luna, guarda il dito.
On this link: https://sites.google.com/site/elspin3/angelo-de-bortoli-lo-zio-barbetta
a short story about Angelo De Bortoli and Federico Bellomi
newspaper articles about Federico Bellomi (1928-2010) in a google document with link to every single article
Music: Sergio Liberovici
Dedicates to: Carla Canedi 24 aprile 1989
Copy of a manuscript by Sergio Liberovici